«Dove vai?» mi fa.
Sara non si muove dal letto. Si è voltata a guardarmi e dalla finestra la luce del lampione le guizza tra i capelli tinti di rosso. La tapparella non scende oltre e restano quei fori orizzontali che privano dell’oscurità.
«A lavarmi».
Nudo. Il telefono in mano.
Siedo sul gabinetto e ho un solo nome in testa. Accendo il telefono. Il neon sopra al lavandino mi dà un colorito simpsoniano. Sugli appendini c’è un pantalone da lavoro dimenticato dalla sera precedente.
Sento Sara rigirarsi nel letto. Arriva rumore di plastica.
Fabio. Non trovo il tuo numero.
«C’ha due teste oh, ti giuro».
Mario stringeva il pallone tra le mani piene di segni lasciati dalle penne di scuola. Aveva il jeans stracciato dall’asfalto. La madre gli avrebbe fatto un culo enorme una volta a casa.
Fabio lo guardava con quel sorriso che faceva lui. Quel sorriso che significava qualcosa per lui e nessun altro. Mario lo interpretò a modo suo e aprì la bocca a metà.
«Bastardo» disse «te lo faccio vedere oh, se non mi credi te lo faccio vedere».
Al cancello del parco arrivò un uomo con un carrello di tela. Il tessuto era sfondato e le ruote cigolavano. Il tipo ci infilò la mano dentro e prese una manciata generosa di volantini che schiacciò nella cassetta delle lettere. Molti caddero per terra e si sparpagliarono. Pareva un red carpet.
Sara andò a prenderne uno e lo aprì.
POP
Le esplose sulle labbra la gomma da masticare. La raccolse con la lingua e continuò a sfogliare le pagine. La raggiugemmo e ci mettemmo alle sue spalle.
«Che cerchi?»
«Non sono cazzi tuoi».
Tirai una gomitata a Mario e quello giustamente mi fece che è col labiale.
«Vai alla fine» disse Fabio.
«C’hai ragione» gli rispose Sara «magari ci sono i vibratori in offerta».
Tutti a ridere. Ci colpimmo con qualche pugno leggero. Sara ride ancora con un sopracciglio incurvato verso l’alto, come il logo della Nike al contrario.
Fabio fu l’ultimo a smettere. Piegato in avanti coi ricci che gli coprivano gli occhi. Alla fine tornò su in posa con le mani sui fianchi e cacciò un eeeeeeeh nasale.
«Cos’è un vibratore?»
Scoppiammo di nuovo. Tranne Fabio. Lui ci guardò e non disse niente.
Al bar c’era tanta gente, pure troppa.
Alberto guardava col mento alzato i clienti che passavano, pure se stava seduto. Sara gli stava accanto e pareva un gatto senza spina dorsale. Si allungava sulla sedia per stargli più vicino. Stavano insieme da tre mesi. Pure troppi.
«Ma quanto ci mettono?» disse Sara.
Mario aveva gli occhi fissi sul telefono ad altezza delle gambe. Faceva finta di cercare qualcosa mentre si studiava nel riflesso i brufoli che gli erano usciti sul mento. Fabio tirava su la cedrata con la cannuccia che borbottava sul fondo della bottiglia. Blblblblblblbl.
«Oh bello, sai che ci siamo riusciti di nuovo io e il nonno?»
Chiese Mario. Si che lo sapevamo.
Infilò in tasca il cellulare e nel gesto urtò la cameriera che gli passava dietro. Il vassoio con Aperol, olive e fette di arancia gli finì addosso.
Ooooooh gli facemmo tutti insieme. Mario era rosso in viso mentre ci guardava a uno a uno.
«Scusami, scusami ti prego» disse la ragazza «vieni giù che c’è una lavasciuga. Intanto ti presto una delle maglie del locale».
«Una lavatrice nel bar?» commentò Sara mentre faceva ciao con la mano a Mario.
«Cristo. Sarei morto di vergogna» dissi io.
Alberto si mosse sulla sedia, raddrizzò le spalle e poggiò nel piatto uno stuzzicadenti che aveva passato tra mani e bocca fino a quel momento.
«Ma che te ne fotte?»
Io e Sara ci guardammo, poi lei distolse lo sguardo e andò su Fabio.
«Ti ricordi quella volta che chiamasti la De Riggi “mamma”? Quella sì che fu ‘na figura di merda».
Fabio le sorrise con gli occhi bassi, fissi sul bordo del tavolino. Quando li alzò non guardava nessuno in particolare.
«La mia paura più grande è quella di farmela addosso mentre dormo con qualcuno. Tipo con la mia ragazza».
Così, di getto. Perché Fabio diceva sempre quello che pensava e finii col chiedermi se quel sorriso, il suo sorriso, non avesse a che fare con l’imbarazzo.
«Fabio, ma che cazzo dici?»
Era mattina. Era anche venerdì.
Mio padre sedeva sul bordo del letto. Sul pizzo in fondo. Teneva le mani una sopra l’altra, sulle ginocchia. Mentre lo guardavo realizzai che ero sveglio. Mi tirai su coi gomiti.
«Hai sentito Fabio in questi giorni?»
«No».
Le persiane della finestra erano ancora chiuse ma fuori era palesemente giorno. Sul pavimento c’erano i vestiti che mi ero tolto la sera prima.
«Che è successo?»
Arrivai per primo davanti alla chiesa. Poco dopo mi raggiunse Sara. Aveva una sigaretta in bocca e il casco infilato lungo l’avambraccio. Ci salutammo alternando un mezzo sorriso al silenzio quando sentii la voce di Mario.
«Oh. Siete arrivati». Era dentro.
Ci guardammo ma non dicemmo nulla. Una coppia di vecchi ci passò accanto a braccetto.
«Niente cani a due teste oggi?» chiese Sara. Alzò un sopracciglio.
«E tu? Lo stai studiando il tedesco?» gli rispose Mario.
Sara premette la sigaretta tra pollice e medio, gliela voleva lanciare contro. Poi ci ripensò e la lasciò cadere. Schiacciò la cicca sotto la punta della scarpa.
«Andiamo dentro che è meglio, va».
Mentre a piedi percorrevo le due stradine che separavano casa dalla chiesa avevo dato un’occhiata a Instagram e avevo visto l’ultima foto di Alberto. Erano sei mesi che stava in Svizzera.
Fabio stava in prima fila, col padre e la sorella. Vestiva elegante, ovviamente di nero. Mai visto così. Gli guardai la nuca immaginando la sua espressione mentre ascoltava il prete parlare di sua madre. Finita l’omelia iniziò la processione degli affamati del cordoglio. Io, Sara e Mario ci guardammo tra di noi. Non sapevamo come avvicinarci, nessuno ci aveva mai insegnato a ridurre quel tipo di distanza. È che le mamme, anche quelle degli amici, sono pezzi d’infanzia. Con la sua era morta anche parte della nostra.
Mi decisi e lento seguii i due vecchi che erano entrati prima di noi. Loro sapevano cosa fare, glielo leggevi in faccia. Non volevo dire un condoglianze di circostanza, non sapevo nemmeno cosa volesse dire. Mi dispiace, dissi alla fine.
Fabio mi abbracciò. C’era profumo tondo di talco. Mi avvolse con lui. Quando si staccò mi guardò fisso negli occhi. Il suo sorriso c’era, anche se soltanto accennato.
«Non sono mica venuto qui per tua madre. Sono qui per te».
Oltre la sua testa vidi la sorella guardarmi di sbieco. I vecchi che mi avevano preceduto avevano un’espressione anche peggiore.
«Va tutto bene?» chiese lui.
Non capii cosa intendesse e non ebbi tempo di rispondere. Lo portarono via nel flusso di abbracci e dispiaceri e mi ritrovai a chiedermi se quel sorriso non avesse a che fare con l’imbarazzo. Il nostro. Non ci vedemmo più.
Io vivo con Sara, stiamo insieme. Faccio l’operaio e lei lavora in una scuola guida. La sera ci incontriamo in un monolocale di trentacinque metri quadri in provincia di Rovigo. Stanotte ti ho sognato, Fabio. Dovevamo prepararci per una serata con gli altri ma io non uscivo mai dal bagno e tu mi aspettavi fuori.
Mi sono pisciato addosso.
Il viso mi si è infuocato e per l’agitazione ho svegliato anche Sara. Ci siamo guardati senza vederci, con gli occhi alle prese col buio. Lei ha coperto la macchia con delle buste per la spazzatura ed è tornata a dormire poco dopo, indifferente alla tua paura più grande. Io ho pensato a te però. Mi sono chiuso in bagno e ho cercato il tuo numero. Com’è che si diventa così estranei da non avere più il numero salvato in rubrica?
Passo una mano sul viso. Salto da un social all’altro perché non sono ancora pronto per tornare a letto. Per caso sulla home compare una foto di Mario. La didascalia dice Mario Buongiovanni genetics. Nell’immagine c’è lui con suo nonno e al centro un cane a due teste. Orribile.
Vado nella chat che ho con lui. È online.
«Mario, ho visto la tua foto col cane» gli scrivo.
Mi risponde subito.
«Oh, hai visto? Bastardi, non ci avete mai creduto».
«Ce l’hai il numero di Fabio?»
Ce l’ha.
In questo momento mi rendo conto che la necessità di contattarti non è collegata a nessun messaggio in particolare.
Ti scrivo.
«Va tutto bene?»
Poi ci ripenso. Torno indietro e cancello il punto di domanda.