La differenza la fa il dolore

Lo zio Alfredo non piace a mia madre.
È arrivato una domenica, mio padre lo ha accolto fradicio di sudore, sorridente.
Sarei dovuto scendere d’inverno – dice allargando le braccia.
Al nord non è estate? – risponde papà. Si prende l’abbraccio del fratello.
Hanno gli stessi tratti somatici, sembrano gemelli, ma uno è magro e scavato, l’altro robusto con una folta barba che gli arrotonda ancora di più il volto. Lo zio è quello magro.
Mi guarda, s’inginocchia e mi accorgo che, tra i suoi piedi di fianco a un borsone da viaggio, c’è un grosso scatolone forato sul lato più lungo. Sei piccole fessure come tre oblò affacciati nell’oscurità.
Finalmente ti rivedo. Quanti anni sono passati? Nemmeno parlavi – mi dice.
David, saluta lo zio – dice mio padre.
Alzo timidamente tre dita, come un Cristo, poi dirotto la mia attenzione verso lo scatolone traforato. Lui ci poggia sopra un palmo e dice – lo sai cosa c’è qui dentro?
La risposta è evidente.
Hai portato un’altra delle tue diavolerie? – chiede mio padre.
Nessuna diavoleria. Qui dentro c’è il Re.
Sono incuriosito.
Devi sapere – dice mio padre con orgoglio – che il matto di tuo zio, tra le altre cose, è anche un mago. Quando eravamo ragazzini tornava a casa con qualche mazzo di carte che faceva sparire o dei bauli pieni di cose strane. Tua nonna si faceva sempre le risate quando lo zio si metteva a fare il mago.
Prestigiatore – dice mio zio.
Come? – Chiede mio padre.
Sono un prestigiatore, non un mago. Io non uso la magia. Uso il trucco.
Poi entra mia madre.

E dice – quali sono le altre cose?
Lo zio Alfredo si rimette in piedi, il sorriso scompare dal viso scavato, ma solo per un attimo. Eccolo che torna. Si osservano.
Come dici, tesoro? – domanda mio padre, trafitto parte a parte.
Hai detto che, tra le altre cose, è anche un mago – continua lei.
Ciao Tiziana – dice lo zio.
Quali sono queste altre cose? – chiude e, senza aspettare risposta, si inginocchia davanti a me e mi chiede di seguirla in cucina.

Durante la notte ascolto i miei genitori discutere chiusi nella loro camera. Non sento una sola distinta parola, ma percepisco un borbottio agitato, il tono accusatorio di mia madre e quello dimesso di mio padre.
Il mattino dopo, papà e lo zio sono seduti al tavolo della cucina. L’uno scorre con il pollice sullo schermo dello smartphone, le gambe accavallate, i piedi strizzati nelle Clark scamosciate. L’altro inzuppa un cornetto nella tazza. Indossa una felpa che fa pendant con le sue iridi.
Buongiorno – dice lo zio senza smettere di masticare.
Mio padre mi guarda, saluta, poi il suo interesse torna allo smartphone.
Mia madre non si vede, ma si percepisce.
Allora, vuoi conoscere il Re?
Mio padre alza lo sguardo e dice – deve andare a scuola.
Allora dopo la scuola, il Re sa aspettare – le sue labbra sembrano non incontrare altra posizione che quella dell’appagamento, la gioia fine a se stessa, stupida oppure molto furba.

Gli alberi miagolano. È un’espressione che usa dire mia madre di tanto in tanto, quando il vento si infila tra le fronde, facendo stridere i rami. Il bosco trema. Mi volto ed entro in casa.
Lo zio è seduto sul divano, guarda in TV un programma pomeridiano. Si volta. Poggio lo zaino in un angolo dell’ingresso.
Pesa quel coso? – chiede.
Un po’.
Ci dovete mettere dentro un sacco di libri, vero?
Annuisco.
Il telefono vibra. Lo afferra. Con il pollice disegna una U sullo schermo. Sbuffa. Lo lancia al suo fianco. Rimbalza tra due cuscini.
Hai fatto merenda?
Ho pranzato a scuola.
Una volta nella mia scuola ci hanno dato la pasta con dentro i vermi. Dei vermicelli minuscoli. Se non si fossero mossi nel piatto non ce ne saremmo accorti. Potevano confondersi con il ragù.
Erano vivi?
Decisamente.
C’era anche papà?
No. Lui andava in un’altra scuola. Però c’era tua madre. Chiediglielo, se non ci credi.
Mi fai conoscere il Re?
Ne sei sicuro?
Annuisco.

La prima cosa che noto è l’odore: dolciastro, intenso.
Stamattina l’ho fatto uscire per un’oretta. Per farlo ambientare – lo zio è accovacciato sullo scatolone.
Sei pronto? – continua, dopo una pausa calcolata. Allarga le braccia e muove le dita vorticandole come se dovessero sprigionare lampi colorati. Poi solleva il coperchio.

Alla sera chiedo a mia madre – sai cos’è il Re?
Ci stiamo lavando i denti, uno al fianco dell’altra davanti allo specchio del bagno. Scuote la testa senza perdere il ritmo, schiumando bava azzurrina ai lati delle labbra.
È vero che avete trovato i vermi nella minestra, a scuola?
Mia madre sputa nel lavandino, si sciacqua, beve dal palmo e sputa ancora. Mi invita a imitarla puntandomi lo spazzolino verso il viso.
Cosa c’è nella scatola? – chiede poi.
Non posso dirtelo.
Te l’ha detto tuo zio di non dirmelo?
Sciacquo, sputo.
Mi ha detto che quando eravate ragazzi ne avevate uno uguale. Era vostro. Tuo e dello zio.
Mi madre mi guarda, poi si rivolge allo specchio e resta a fissarsi.

Lo zio dice – è ancora un cucciolo, ha sei anni. Non è molto grosso, vedi? Ieri pomeriggio, quando te l’ho mostrato, era assonnato. Si sveglia del tutto solo dopo il tramonto. Come i pipistrelli. È un maschio, lo capisci perché ha gli speroni, che sono delle specie di zampette quasi invisibili che si porta dietro dall’evoluzione. Sono tipo il nostro osso sacro. Una cosa del genere.
Il serpente è immobile sul tappeto. La sottilissima lingua biforcuta schizza dal muso. È avvolto su se stesso. I motivi sulle squame sono di un colore che tende all’oro, contornati di bruno.
È un pitone reale – dice lo zio.
È velenoso?
Me lo hai già chiesto stamattina, prima di scappare fuori dalla stanza. I pitoni non sono velenosi.
Mi sono spaventato.
Non importa. Ti sto facendo vedere che non è pericoloso.
Come uccidono?
Con la forza. Stritolano – dice lo zio.
Soffocano?
No, provocano un arresto circolatorio.
Resto in piedi, a debita distanza dal serpente.
Il Re non è pericoloso. È abituato a me e ad avere intorno le persone. Vorresti vedere come mangia? – chiede e io non rispondo.
Domani pomeriggio andiamo a prendere il suo cibo, ok?
Non è vietato tenerlo in casa?
Non potrei, in verità. Dovrei avere un permesso. Per questo ti ho chiesto di non dirlo a tua madre e tuo padre. Glielo hai detto?
Scuoto la testa.

Incontro mia madre nel bosco, al confine opposto con la veranda che dà sul giardino, nel retro della villa. Mio padre ha costruito un’altalena con della fune e un’asse di legno smaltata di rosso. È fissata a un grosso ramo. Mia madre si sta dondolando. Punta i piedi per fermarsi e mi invita ad avvicinarmi.
Vuoi che ti spinga un po’? – dice.
Rifiuto ma resto, mentre lei torna a dondolare. I capelli le oscillano sulla fronte, sugli occhi, sulle labbra e li soffia via.
Non hai detto allo zio che ti ho rivelato cosa c’è nella scatola, vero?
Mia madre tende le gambe e butta la testa all’indietro.
Perché avrei dovuto? – chiede.
Ho paura che smetta di fidarsi di me.
Alfredo non si è mai fidato di nessuno. Nemmeno di se stesso.
Mia madre si accorge di aver detto qualcosa che probabilmente non avrebbe dovuto.
Comunque, ti ho detto di non andare più nella sua camera.
Ha detto che il Re non è pericoloso. Non è velenoso.
Lo so, ma tu non ci devi andare lo stesso. Lo farai?
Mi ha detto che domani mi fa vedere come mangia.
Mia madre si ferma, scende dall’altalena, mi si avvicina.
Ho detto di no.
Si allontana, lasciandomi da solo. L’altalena oscilla e rallenta.

Dopo cena, mio zio esce. Prima chiede in prestito la macchina a mio padre, che si rifiuta. Allora si avvia a piedi.
Più tardi, attraverso le pareti e la porta socchiusa della mia stanza, ascolto ancora una volta i miei genitori discutere. Uno urla e l’altra urla di rimando, ma ancora non capisco cosa si dicono. Poi la porta della loro stanza si apre e riconosco i passi di mia madre, solo più pesanti. Capisco che si è diretta verso la camera degli ospiti ed è entrata. Qualche minuto dopo la sento uscire. Ancora passi fino alla veranda. Spengo la luce e sposto le tende della finestra. Guardo fuori, nel buio: la vedo che, in ciabatte, sta attraversando il giardino diretta verso il bosco. Regge il serpente con entrambe le mani, le braccia larghe e tese davanti a sé. La testa del Re è sollevata come un uncino. Gli occhi brillano, per un attimo, poi mia madre sparisce nell’oscurità, tra ombre ancora più scure.
Resto alla finestra fino a quando non la vedo tornare. Le mani intrecciate al petto.

Provo a non dormire nell’attesa del ritorno dello zio. Non riesco: faccio un incubo in cui un pitone mi stritola, dalla bocca mi escono pipistrelli con ali color carne. In ognuno di essi rivedo il volto di mamma. Mi sveglio nel cuore della notte, le mani strette intorno alle lenzuola. Sopra la testa il soffitto e le sue geometrie di ombre.
Ascolto il respiro tormentato dall’angoscia, provo a regolarlo. Poi mi alzo ed esco dalla camera. Silenziosamente mi avvicino a quella degli ospiti.
La porta è socchiusa, la spingo. Lo zio è nel letto. Dorme.

Mi addormento a fatica e, il mattino dopo, mi alzo di cattivo umore.
In cucina, lo zio sta facendo colazione. Mi vede e sorride.
Ti faccio un uovo? – chiede.
Bevo solo il latte – rispondo.
Oggi non hai scuola, giusto?
Mi avvicino al frigorifero.
Entra mio padre. Indossa pantaloni di tuta in acrilico, una maglietta sportiva. Non dà il buongiorno al fratello.
Stamattina andiamo a correre allo stagno – dice forse a noi, forse alla stanza.
È una nostra abitudine domenicale. Mi siedo, aspettando che mio padre porti sul tavolo la mia e la sua tazza di latte.
Lo zio allunga un pugno chiuso verso me. Apre il palmo e all’interno c’è un piccolo dente aguzzo, bianco avorio. Mi fa l’occhiolino e chiude di nuovo la mano, la porta alle labbra e soffia. Poi la avvicina di nuovo a me, con le nocche bussa sul tavolo, volta il pugno, lo riapre e il palmo è vuoto. Sorrido.
Passate dal bosco, immagino – poi dice guardandomi.
Arriviamo in macchina fino alla sterrata nella parte ovest. Da lì, abbiamo garantiti una quarantina di minuti di corsa, tra andata e ritorno – dice mio padre.
Anch’io vado a fare una passeggiata nel bosco.
Strano – dice mio padre.
Cosa è strano?
Pensavo andassi a bere in paese, come facevi ogni sabato e domenica mattina prima di andartene da casa.
Era in programma, ma stanotte, quando sono rincasato, ho cambiato idea.
Mio padre non risponde. Si allontana mentre il bricco della caffettiera si riempie di caffè.

Io e mio padre usciamo e saliamo in macchina.
Dov’è la mamma? – chiedo.
È uscita molto presto. Credo sia andata dal parrucchiere oppure alla prima messa.
Stanotte avete litigato?
Stanotte abbiamo dormito – risponde mio padre ingranando la marcia.

Corriamo nel bosco. Papà tiene il passo. Il suo respiro è pesante, ma regolare. Tra gli alberi c’è fresco, la luce del mattino filtra tra le fronde. Sotto di noi, il sentiero è umido. Intorno, il cinguettare delle cinciallegre, i tonfi attutiti dei pettirossi.
Allo stagno ci fermiamo a prendere fiato.
Mio padre beve dalla borraccia, sputa parte dell’acqua a terra. La terra se la prende.
Magari incontriamo lo zio – dico.
Non si sarà allontanato molto da casa.
La mamma ha conosciuto lo zio prima di te? – chiedo.
Si conoscevano dalla scuola. È lui che me l’ha presentata.
Erano amici?
Mio padre sembra pensarci. Si china ad afferrare un piccolo ramo umido di marcio. Lo lancia nello stagno, facendolo roteare. Cerchi concentrici si allargano fino a sciogliersi in se stessi.
Sì.
Ora non sembrano amici.
Sono passati tanti anni e sono successe tante cose. Tuo zio è un tipo un po’ così. Non è facile stargli accanto.
Tu gli vuoi bene? Come fratello, intendo.
Certo che gli voglio bene.
Gli vorresti bene anche se non fosse tuo fratello?
Non so. È mio fratello.

Mia madre è nella sua camera. Coricata sul letto, legge un libro a cui ha nascosto la copertina con della carta da regalo.
Mi saluta sventolando le dita affusolate.
Ricambio e me ne vado.
Mio padre si sta facendo la doccia. Esco, percorro il giardino e arrivo al limitare del bosco. Faccio dondolare l’altalena spingendola con un piede.
Dall’unico sentiero spunta lo zio, regge sulla spalla una borsa Ikea che, probabilmente, ha trovato in casa. So per certo cosa contiene.

L’ho ritrovato nel bosco – dice chinandosi e infilando nella borsa entrambe le braccia.
È stata la mamma – dico e qualcosa mi brucia all’altezza della nuca, bollendo le orecchie. Il senso di colpa.
Lo so – sfila dalla borsa il serpente e, delicatamente, se lo porta in grembo. Lo lascia strisciare adagio intorno al busto e al collo, si aggroviglia e infine poggia la testa sull’avambraccio. Sembra essersi accoccolato.
Te lo ha detto lei? – chiede.
No, l’ho vista che portava il serpente dentro il bosco dopo aver litigato con papà.
Non essere arrabbiato con lei – dice lo zio.
Perché lo ha fatto? – gli domando ipnotizzato dai guizzi impercettibili della lingua del pitone.
La differenza la fa il dolore.
Non capisco cosa significa – dico.
Le spire del Re si stringono attorno al braccio dello zio.
Sai cosa fa il prestigiatore? – dice lui – Crea un’illusione della realtà. Un oggetto che pensavi fosse nella mia mano ora non c’è più. C’è un coniglio nel mio cappello a cilindro e c’è una donna divisa a metà nel mio baule, ma è ancora viva e ti sorride.
La pupilla verticale del Re è nera, screziata da schegge d’oro, sullo sfondo profondo di un’iride che si confonde tra il grigio e il verde smeraldo. Il serpente sembra chiamarmi nel suo baratro infinito e vuoto. Sento l’eco di qualcosa che cade nella sua profondità.
Lo zio dice – l’uomo non nasce prestigiatore, ma quando acquisisce la capacità per comprendere la realtà che lo circonda, crea una specie di illusione che va a modificare, trasformare, alterare la percezione. Abbiamo bisogno di eroi e di serpenti che rappresentino ciò che è cattivo. Abbiamo bisogno di una guida che ci dica cosa fare. L’uomo ha bisogno di un dio a cui aggrapparsi, perché è debole – poi inclina un poco la testa di lato, perché il pitone ha cominciato a stringersi attorno alla nuca e alle spalle. Noto la sua mano pulsare, sbiancare.
Ciò che sta dicendo lo zio non mi sembra suo. Paiono le parole di qualcun altro.
Sai cosa ci rende tanto vulnerabili? La nostra intelligenza – dice – però le illusioni sono dei trucchi e la realtà non lo è. Arriva sempre il momento in cui lo spettacolo finisce e il prestigiatore deve tornarsene a casa con la sua valigia di meraviglie. Allora davanti si trova la realtà della vita.
Abbassa il mento a guardare il suo Re Serpente, sembrano cercarsi tra la carne e la pelle dell’uno che si tende nell’altro.
Sai cosa penso? Credo che voi, qui dove state, con il bosco davanti e tutto il resto, state davvero bene.
A volte mi sento solo – dico.
Cosa ti fa sentire solo?
Non so, che lo sono.
Tutti i ragazzini della tua età si sentono soli, ma non lo siete veramente. Avete bisogno di sentirvi abbandonati, per imparare a capire quanto è bello essere cercati.
Ora percepisco una sorta di distacco tra noi, ma non riesco a rendermi conto se lo sto mettendo io oppure lui. Il pitone, in modo sempre più evidente, strattona il braccio serrando, provando a stritolare. Una tenaglia, una morsa che, colpo dopo colpo, minimizza lo spazio.
Lo zio sembra non badare al meticoloso lavoro di sfinimento che il serpente sta attuando. Il suo sguardo è immerso in un punto oscuro nel folto del bosco, dietro di me. Distante.
Sento la porta della veranda aprirsi. Noto mia madre a braccia conserte, dall’altra parte del giardino rispetto a noi. Ci osserva.
Vai, io arrivo fra un po’ – dice lo zio.
Non ti farà male? – indico il serpente con lo sguardo.
Oh no, la differenza la fa il dolore, te l’ho detto.
Mi avvio e dopo qualche passo sono davanti a mia madre. La supero ed entro in casa. Lei rimane. Mi volto ancora una volta. Si osservano.

Lo zio Alfredo parte due giorni dopo, mentre io sono a scuola. Senza salutarmi.
Alla sera entro nella camera degli ospiti. Sul pavimento noto la borsa dell’Ikea, piegata e poggiata in un angolo. Per il resto la stanza è stata riordinata, intonsa come se lui non ci fosse mai entrato.
Prima di mettermi a letto, infilando una mano nella tasca dei pantaloni per svuotarli, mi pungo un dito. È un dente di serpente. Aguzzo, bianco avorio.