Immagina questo scenario.
Una festa di ragazzi di liceo, musica dance, una tavolata di alcolici del discount, gente che vomita. C’è una ragazza carina, è andata lì per incontrare uno che un po’ le scrive, un po’ la ignora, le hanno detto che scrive anche ad altre e c’è rimasta male, alla festa gli lancia occhiate e battute. C’è un tipo grassottello che fa il filo alla ragazza carina ma lei è tutta presa dall’altro e allora niente, il tipo grassottello si dedica alle gare alcoliche con gli amici, vince la gara a chi beve più shot in 60 secondi, si batte il petto con fare da primate, è felice, lancia un altro giro di sfide. Intanto la ragazza carina e il tipo che le piace si chiudono in una camera.
Un’altra ragazza, l’amica di ragazza-carina, si ritrova sola. Altra-ragazza è bruttina. Ha il naso grosso, la pancia grossa, le braccia grosse. Una frangia piastratissima che va di moda, ma che a lei sta malissimo. Sugli occhi ha un chilo di matita. Altra-ragazza tira fuori il cellulare. Comincia a scorrere la home di Instagram, a guardare storie senza farci attenzione. Aggiorna la pagina, ma meccanicamente: l’importante è sembrare impegnata.
A questo punto possono succedere varie cose: altra-ragazza comincia a bere per nascondere il disagio (o attirare l’attenzione) e finisce completamente ubriaca; oppure, per non stare con le mani in mano, aiuta la padrona di casa a mettere in ordine e pulire; o ancora – ipotesi più probabile – resta incollata con la faccia sul cellulare per tutta la sera.
Ecco. Se ci fosse uno scrittore, uno bravo, sceglierebbe il punto di vista di altra-ragazza per raccontare la festa. Farebbe risaltare la bellezza di una personalità sensibile, nascosta sotto strati di mascara e falso menefreghismo. Proverebbe a portare il lettore più cinico, quello che nella vita reale sarebbe spietato con lei, a empatizzare col suo senso di solitudine
Tutte queste cose me le sta dicendo la mia fidanzata, Isabella, mentre io mi sfianco sulla cyclette (modalità “hard climb”) e lei parla a fiume, appollaiata sul congelatore a pozzetto, accavallando e scavallando le gambe.
È un discorso che mi ha già fatto più volte in varie salse, per cui lo so dove vuole andare a parare: «Tua zia Fiorenza», sta dicendo.
Anche se un po’ l’ascolto e un po’ no, so che mi sta elencando le ragioni per cui uno scrittore, uno bravo, scriverebbe una storia su mia zia Fiorenza.
Mia zia Fiorenza non è mai uscita dalla nostra provincia, non ha mai saltato una messa in vita sua e non ha mai letto un libro: burbera, testarda e lamentosa.
Le sue passioni? Una sola, al singolare, la cucina. Ma una cucina declinata in una sua versione particolare, demodé, tutta unti e grassi. Una fanatica della panna.
Mia zia Fiorenza secondo la metafora isabelliana è l’equivalente della ragazza della festa. Anche se io ho difficoltà a far coincidere l’immagine di una sedicenne ciccia con la frangia con quello scheletro con quattro fili grigi in testa che era la zia.
Isabella l’ho conosciuta a un corso di scrittura creativa.
Io c’ero andato senza grandi ambizioni, perché mi divertiva mettere insieme le parole. Isabella invece era partita determinata, seria, con tutto un set di taccuini in pelle nera acquistati per l’occasione.
Io il corso l’ho frequentato fino alla fine perché c’era Isabella.
Isabella l’ha seguito con molta diligenza, ma poi ha mollato la scrittura, dice di aver capito che non è veramente portata, che deve trovare un altro canale per dare forma alla creatività e alle idee che (lo sente) premono per uscire dalla sua testa.
Io invece, secondo Isabella, il talento per la scrittura ce l’ho davvero. Solo che è una materia grezza che andrebbe coltivata, levigata, mentre io lo uso malissimo, sprecandolo in storie demenziali a uso e consumo dei miei contatti Facebook. Potrei fare di meglio: per esempio scrivendo la storia di mia zia Fiorenza.
Da quando zia Fiorenza è morta, lasciandoci in eredità il suo congelatore a pozzetto industriale da 600 litri, con tanto di menzione nel testamento, è diventata la fissa di Isabella. A un mese dalla dipartita, il congelatore troneggia intoccato al centro del seminterrato, perché io e Isabella non ci siamo ancora messi d’accordo su cosa farne.
Ogni volta che scendevamo giù a giocare, lo scrutavamo con diffidenza (il seminterrato ospita anche il tavolo da ping-pong su cui ci sfidiamo in sfiancanti partite che durano pomeriggi, Isabella e io).
Ci giravamo attorno.
Lo annusavamo.
Ci abbiamo sbirciato dentro, intravedendo, nella penombra del seminterrato, mucchi e mucchi di sacchetti antigelo dal non ben identificato contenuto.
Ma lo abbiamo sempre richiuso.
Ci siamo interrogati a lungo, sulla questione congelatore:
«Dobbiamo metterlo su Ebay. Che ce ne facciamo?»
«E se un giorno mi mettessi seriamente a pescare? Potrebbe servirci.»
«Ma se al massimo peschi ciabatte e bottiglie.»
«Dobbiamo venderlo. Ma prima va svuotato e pulito. Si deve scongelare tutto.»
«Ci vorrà un mese. C’è roba per mangiare una caserma lì dentro. Che fai, butti tutto?»
«Ma secondo te cosa c’è esattamente? Tutti quei sacchetti, piccoli, grandi, trasparenti, colorati. Non si capisce.»
«E che ci deve essere? Le cose che cucinava lei.»
«Ma perché comprare un congelatore così grande, lei che abitava da sola? Questi li vendono solo ai gestori di ristoranti. Pare il banco surgelati del supermercato.»
Quella domanda era rimasta inevasa. Poi Isabella era partita con la storia del libro su zia Fiorenza. Aveva cominciato a farmi domande specifiche sulla zia:
«Ma a scuola, tua zia, non c’è andata?»
«Si è ritirata presto, a undici, dodici anni. Colpa del fango, diceva.»
«Del fango?»
«Per andare a scuola doveva tagliare dai campi, vicino al cimitero, perché nessuno poteva andare a lasciarla in macchina. C’era sempre un sacco di fango e arrivava in classe inzaccherata e tutti la prendevano in giro. E poi un giorno non ha voluto andarci più.»
«Come mai non si è mai sposata?»
«Mah, non le piaceva uscire, conoscere gente. Mia madre dice che lei il matrimonio lo avrebbe voluto combinato. Se le avessero detto tiè, sposati con questo qui, se lo sarebbe sposato. Secondo me era pigra, più che altro. Le seccava concentrarsi, scegliere, mettere impegno nelle cose. Per vent’anni ci ha regalato solo calze, per compleanni e feste comandate. Le piaceva solo cucinare, ma come diceva lei, quando diceva lei. Faceva certi cenoni di Capodanno che duravano otto ore. Se ti alzavi prima del dolce ti toglieva il saluto fino all’anno dopo.»
«Senti, ma il congelatore, secondo te perché lo ha lasciato a noi?»
Anche a questa domanda non sapevo proprio rispondere.
Sto sudando in modo imbarazzante. Porto la cyclette su una modalità più soft mentre osservo il viso pensieroso di Isabella.
«Secondo me dovresti partire dal congelatore» dice.
«In che senso?»
«Per scrivere la storia di zia Fiorenza. Era il suo segreto, e lo ha lasciato a noi. Dovremmo aprirlo, annotare bene tutto quello che c’è dentro, assaggiarlo. Potresti scrivere un capitolo a partire da ogni pietanza, una sorta di biografia culinaria. Il libro finisce quando il congelatore si svuota.»
Le do un bacio sui capelli.
«Ma perché non la scrivi tu questa storia, Isabella?»
SPAC!
La pallina picchia sul tavolo da ping-pong e schizza lontano per la stanza.
Non abbiamo concentrazione.
Il congelatore ronza forte, sembra che la sua vibrazione riempia ogni intercapedine della stanza.
Sono passati sei mesi e ancora non lo abbiamo aperto.
«Forse è meglio così» dice Isabella. «Meglio per la storia, dico. Così puoi immaginare che ci sia dentro qualsiasi cosa.»
«Ma tipo cosa?»
«Boh, qualsiasi cosa. Pure un cadavere.»
«Un cadavere nel congelatore? Che originalità.»
«Che ne so, qualcos’altro. Ostie consacrate. O organi da contrabbando. Cuori. Retine.»
«O magari un suo esperimento culinario che voleva lanciare sul mercato. Tipo le lasagne ai diciotto formaggi.»
Poi, non so bene quando, la storia comincia a sbocciare tra le righe di un file word. Il racconto di una signora introversa che passa le sue giornate cucinando. Anni e anni di routine culinaria uguale a sé stessa. Una persona con un suo mondo interiore ricco, variegato, insondabile dall’esterno. Piccole e grandi sofferenze quotidiane che si dipanano tra lunghissimi paragrafi di discorso indiretto libero. Sogni, progetti e segreti, uno più grande degli altri che ruota attorno a un congelatore a pozzetto di qualità superiore, il migliore sulla piazza per alimentari o gastronomie di paese.
È trascorso un anno dalla morte di zia Fiorenza e il nostro spazio vitale gravita ancora attorno al congelatore, sempre acceso, inesplorato, ormai irriconoscibile ricoperto com’è dal computer, dai post-it, dalle cartacce, dai bicchieri di plastica, dai posacenere. Il cavo del computer intrecciato a quello del congelatore in un abbraccio di polivinile.
Io e Isabella abbiamo discusso a lungo su quale poteva essere il segreto del nostro personaggio.
Ne abbiamo parlato con la guancia premuta sul fianco del congelatore, auscultando le vibrazioni in cerca di ispirazione.
Ci siamo sussurrati idee all’orecchio mentre facevamo l’amore sul coperchio del congelatore.
Abbiamo parlato anche nei lunghi pomeriggi in cui, fumando l’erba seduti per terra, con la schiena appoggiata al congelatore, valutavamo i pro e i contro di avere un bambino.
Poi ci è venuta una buona idea.