Saresti la ragazza perfetta se ti tagliassi le gambe, dice e si accarezza la guancia.
Io la guardo, guardo le mie gambe e le butto in avanti per camminare. Penso a quelle statuette giapponesi di un monaco rosso senza arti, li ha persi meditando.
Potrei sedermi qua, sulla veranda di questa casa non mia e meditare su tutte le cose che dicono gli altri e aspettare che anche a me caschino le gambe. Le braccia mi sono già cadute.
Preparo la borsa, allaccio le scarpe ai piedi che sono attaccate alle gambe che mia mamma vorrebbe non avessi.
Ti sei offesa? Faccio no con la testa e esco. In macchina fa caldo, fa sempre caldo in macchina e sa sempre tutto di benzina.
Penso di avere la benzina nel naso. Scrivo Sto arrivando anche se non è vero, il telefono s’illumina e dice Ok, ricordati le birre.
Il traffico m’innervosisce, le auto non fanno quello che dovrebbero. I parcheggi dei supermercati sono anarchia, le regole si sospendono. Là nessuno fa le multe. Prendo quelle birre che piacciono a tutti. Avrei dovuto prendere la Vespa, si è più liberi e si usano meno le braccia. Il peso del corpo la sposta come fosse una vela e scivoli su un asfalto che è lì per te, per lei, per portarti velocemente in un posto dove pensi ti sia riservato il tuo quarto d’ora di felicità. Parcheggio male la macchina e gli scrivo sono qui.
Non mi piace suonare i campanelli, sono invadenti.
Com’è che si chiamano quelle statuette? Dora qualcosa.
Quelle rosse del monaco. Si usano per esprimere i desideri: disegni un occhio quando lo esprimi, l’altro quando ciò che hai chiesto si realizza. Non ricordo.
Apre la porta in mutande, è molto bello. L’appartamento è tutto bianco, il pavimento è di marmo bianco è Carrarino, dice.
Tolgo le scarpe, si lamenta dello smalto viola. Il viola è il mio colore preferito.
L’aria è fatta di jazz, una playlist preconfezionata. Qualcuno gli avrà detto che è un buon modo per creare l’ambiente giusto per scopare. Ti piace la musica? E mi sfila dal pugno il sacchetto con le birre. Ti piace respirare? Gli rispondo.
Ridacchia e si abbandona sul divano. Ha i capelli biondi, sottili come ragnatele, si arrampicano sulla sua faccia fatta di spigoli.
È molto bello, sembra un tedesco nelle foto della Seconda guerra mondiale. Mi lecca le labbra, io guardo se ha dei libri in casa.
Ha le mani grandi e penso menomale. Non vedo libri, solo un paio di volumi della UTET stanchi appoggiati alle mensole.
Sta parlando del suo lavoro. Mi ricordo che avere le mani grandi non è sinonimo di niente. Che essere grandi non è sinonimo di niente. La birra è calda e la mano di lui si muove sul mio collo.
Sento i suoi palmi sulle cosce, lo bacio e sa di mora. Le more sanno di quando sei bambino.
Scopiamo e non sento più la musica jazz. C’è il suo corpo sopra al mio, la pelle che cambia colore diventa, gialla, bianca e rossa. Penso che se non avessi le gambe non credo mi scoperebbe.
Gli lecco l’orecchio e si eccita ancora. Le mani grandi non sono garanzia di niente ma se alla fine delle mani, là, sui polpastrelli o nel palmo trovi dei calli allora puoi sperare nell’impegno.
La dedizione l’avverti, è lì nella sua lingua che cerca tra le mie gambe e penso Doru… Doru è giusto, ma manca un pezzo. Come cazzo si chiamano le statuette.
La tecnologia ci ha rovinati. Gli uomini non sanno leccarla, le donne hanno inventato il succhia clitoride. Per gli uomini è finita.
Mi viene in bocca, passo la lingua su quello che rimane di questi dieci minuti. Mi da un bacio in fronte e cammina verso la doccia.
Ha un bel culo, me ne accorgo ora. Arrivo sempre in ritardo.
Le lenzuola sono di cartone ma il materasso è morbido. Ha un armadio a vista, sua madre gli stira le camicie. Anche la mia me le stira. Quindi siamo pari.
Torna con un bicchiere d’acqua, si sdraia di fianco a me.
Hai degli occhi bellissimi. Penso di vomitare.
Fazzoletti? Chiedo. Col dito indica il cassetto del comodino in noce. Lo apro e tintinna. Prendo il fazzoletto, tocco una cosa fredda. Forse le camicie non gliele stira sua madre e lo stomaco si annoda.
Facevi sport da bambina? Dice, massaggiandosi un polpaccio che ha la forma del calcetto del venerdì sera. Forse anche io ho la forma del calcetto del venerdì sera.
Scherma, dico e zampetto verso il bagno. Odio camminare nuda.
Ah, ecco. Mi lavo la faccia, vorrei sbiadisse. Aveva meditato per vent’anni quel monaco. Il 75% della mia vita. Gli spazzolini sono due, uno è rosa. Che stronza penso.
Hai una maglia larga? Dico, mentre m’infilo i pantaloni, perdo il reggiseno e cerco le scarpe.
Ecco, perché infatti hai le gambe più grosse del busto. Ah. Ecco, ho scopato con Johann Winckelmann, penso. Questo ha studiato con mia mamma.
Ma stai bene eh! Vorrei tagliargli la lingua. Vorrei avergli staccato il cazzo con un morso. Grazie, dico Sai che mi rimetto questa, non ti preoccupare per la maglia, devo andare.
Daruma. Le bambole si chiamano Daruma. Sono portafortuna.
Accartoccio la multa nel pugno, salgo in macchina, apro lo specchietto. Il mascara mi è rimasto solo a sinistra. Prendo una salvietta dal portabagagli e porto via quello che rimane. Non ho più gli occhi. Esprimo un desiderio.
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in racconto