Trovo collanine di caramelle, sciarpe di cashmire, preservativi usati, auricolari Apple, lettere d’amore fatte a pezzi, cellulari con lo schermo bloccato sulla foto della mamma morta, forcine e spazzole per capelli, brugole Brico, chiavi di Maserati e Mustang, borracce dell’ultimo festival di Cannes, mutandine di pizzo, macchinine Hot Wheels, biglietti omaggio per l’ultimo spettacolo di Finzi Pasca, antidepressivi, antimicotici, Daffalgan, aspirina, mucolitici, popper, tabacco, filtri per sigarette, palline d’eroina, Barbie, permessi di soggiorno, occhiali Ray Ban, orecchini d’oro, rimedi omeopatici, dispense universitarie, chiavi di casa, monopattini, gonne H&M, scarpe, mascherine, carte di credito, forcine, skate, unghie finte.
7 e 30 di mattina e trovo il tuo collo sotto a un sedile mentre cerco di aspirare mezzo chilo di popcorn dolci. Mi inginocchio e lo vedo che continua a riempirsi di ossigeno briciole polvere moscerini. Sparito il resto del tuo corpo. Solo il tuo collo con quella cicatrice che ti ha regalato un pastore tedesco qualche giorno prima di compiere dieci anni.
Ieri mi hai detto che se fossi morta avresti voluto che fossi io a scrivere alla tua famiglia.
Mi hai detto: Prendi un foglio di carta qualunque e scrivici: Sono morta. Ciao.
Raccolgo il tuo collo che non perde sangue ma un rivolo di lettere dell’alfabeto che sembrano denti e lo poso su un sedile. Niente testa. Niente busto, braccia, gambe. Lettere su lettere mi cadono addosso prima di ammuffire sulla moquette. Mi guardo intorno. Potresti essere stata esplosa sopra a uno qualunque degli altoparlanti appesi alle pareti.. Oppure nella fossa davanti allo schermo. Prendo una scala ma niente. Mi inginocchio e ancora niente.
Davanti allo schermo solita merda lasciata dai clienti che vogliono farsi i selfie coi titoli di coda.
Apro l’aspiralpovere Taski 15. Magari sei finita qui dentro per sbaglio. Il sacco è quasi pieno. Recupero due monete da cinque franchi e una banconota da un dollaro. Per il resto popcorn, tappi, Maltesers, patatine, matasse di polvere. A questo punto non mi resta che prendere il tuo collo e infilarmelo nel cappuccio della felpa. Dietro di me lascio una striscia di lettere.
Tobia chiede se sto per caso giocando a Scarabeo. Gli rispondo di tornare a fare ciò per cui è stato pagato invece di dormire. Stanare i topi. Pure il diploma federale si è preso per stanare i topi.
Chiamo Lorena e le chiedo se per caso ha visto il tuo corpo da qualche parte. Mi risponde che sta cercando di raschiare con la punta della lingua gli avanzi che stanno nel fornello dove riscaldano le pizze surgelate. Cinque ore che lavora e si è fermata solo per cambiarsi l’assorbente. In due si sono dimesse dopo aver perso la lingua ripulendolo quel maladetto fornello. Nessuna causa intentata. Si sono messe in disoccupazione. E pure la penalità hanno ricevuto perché si erano dimesse senza una giusta motivazione. Non si sono opposte alla decisione. Nemmeno la pensione d’invalidità hanno ricevuto. Adesso fanno i bersagli in un lunapark sull’A2 esclusivamente dedicato ai camionisti dell’Est Europa.
Andiamo avanti tutta mattina a cercare la tua testa e il resto del tuo corpo e liberiamo anche i cani se per caso ti stai abbronzando nel parcheggio esterno che va verso il fiume.
Alla fine ti troviamo.
O meglio troviamo la tua testa.
Ti troviamo che stai pulendo con la lingua i rubinetti e i lavandini del bagno al meno uno riservato al custode.
Dopo la rottura del collo devi essere stata probabilmente sparata fuori dalla sala e rotolata giù a velocità pazzesca per le scale e finita nel bagno che puzza di sigarette, grasso, fritto. Forse non te ne sei nemmeno accorta. Di non avere un collo. Di non avere un corpo. Di spargere lettere.
Stai lavorando come se non ci fosse un domani.
Dalla tua bocca la solita puzza di alcool e candeggina che ci portiamo appresso da anni.
Mi sorridi quando ti chiedo se hai provato dolore. Rispondi che no, che va tutto bene. Anzi, che sriesci con facilità a rotolare da un lavandino e che a lucidare i rubinetti ci metti meno tempo rispetto a quando avevi un corpo.
Sai, a sciogliere il calcare è diventata una cazzata, mi fai. A infilarmi dentro a quel dannato pertugio sotto al pulsante del sapone che tanto ci ha fatto penare quasi mi è venuto un orgasmo.
Hai la lingua che gocciola sangue ma non smetti di sorridere mentre mi parli.
Il resto del tuo corpo lo troviamo che si dà da fare dentro al bagno dell’appartamento dei boss. La maglietta bianca sporca di grasso. I pantaloni macchiati di candeggina. Sollevi coperchi. Sostituisci sacchetti degli assorbenti. Raschi con le dita le setole dello scopino del cesso. Vedo la tua cintura nera coi buchi fatti coi chiodi che risucchia peli pubici. I tuoi jeans che puzzano di gatto e salsa chili. Le tue Adidas con la suola rotta e preghiere scritte a penna sulla plastica bianca per proteggerci dai fantasmi che occupano i nostri sogni.
Ora i tuoi occhi fanno scivolare le lacrime sul pavimento. Devo tagliarmi le braccia per non crollare. Le nostre colleghe che strofinano il pavimento per far sparire la tua sofferenza.
Meno di mezz’ora all’apertura.
Vedo il tuo collo e la tua testa scomparire dentro a un sacco dell’immondizia. Ma non mi oppongo alla scelta del Team Manager di farti sparire. Resto inerme. Non ti proteggo. Prego che il resto del tuo corpo sia riuscito a scappare.
La giornata finisce col timbro, otto birre, mezzo litro di vino, una scatoletta di fagioli.
Torno a casa. Ti cerco. Ti chiamo. Ti invio messaggi. Niente.
Il giorno dopo vedo la tua testa ricomposta col collo fasciato in una sciarpa esposta sopra alle casse. Una targhetta dorata col tuo nome e un Grazie che si compone con le lettere che non smettono mai di uscirti dalla gola.
Ti hanno truccato. Tagliato i capelli. Una corona di luci di Natale a illuminarti i capelli.
Ringrazi e sorridi.
I clienti lasciano un’offerta per i bambini malati di diabete e gli aironi in estinzione.
Continuano a versarti stipendio, contributi pensionistici, aspettative di vita.
Due mesi e c’è gente che viene al cinema solo per vedere la tua testa. Ci girano sopra un servizio nel magazine culturale della tv di stato elogiando la voglia di sperimentare nuovi contenuti multimediali.
I mesi passano come al solito.
La vita va avanti.
Sveglia alle 4 e 45. Pulizie, preparazione popcorn, otto birre, poche ore di sonno, i soldi sprecati nel peggiore dei modi. Si fa autunno. La casa è sempre vuota. La gatta piange la tua assenza. Si è mangiata tutti i tuoi calzini. Non smette un giorno di fare la posta davanti alla porta aspettando il tuo ritorno.
Una mattina, l’autunno che mi sta spolpando, trovo il resto del tuo corpo seduto in riva al lago. Ti prendo per mano. Mi accarezzi il collo. Le labbra. E resto così, con le tue mani che non smettono di toccarmi mentre i pescatori salpano in cerca di pesci siluro. I turisti si scattano foto ricordo. Non ti chiedo dove sei stata. Indossi una vestaglia color panna. Ciabatte e calze bianche. Le tasche sono gonfie di confezioni di miorilassanti. Hai le mani piene di tagli, cicatrici, vesciche, ascessi. Appoggi le tue spalle alle mie. Ti dico che andrà tutto bene. Ti racconto una storia che mi raccontava mia nonna. Quella con una bambina che scappava di casa e trovava una comunità di folli in riva al mare. Sento il tuo corpo rilassarsi. Guardiamo i pescatori tornare con le reti piene di immondizia e pesci che cantano Battisti. Il cielo si è aperto e dal cielo cala un fragore di benzina. Le tue mani stringono un’accetta. Vorrei non piangere. Ma non ci riesco.
•
in racconto