Non c’è niente di mio qui

Arrivo mezz’ora prima, entro dal cancello in ferro battuto che dà sul cortile, uno spiazzo tra palazzi di inizio secolo. Ci sono già stata qui, mi dico. Due casupole si fronteggiano unite da una pergola con rampicanti e lampadine sospese, sotto ci sono una manciata di tavoli.
Me lo ricordo, una decina di anni fa qui c’era un piccolo cinema indipendente con un bistrot.
Avete cambiato gestione?
Uno dei due camerieri, il ragazzo, scuote la testa e si scusa, non sa rispondermi.
Certo, gli dico, tu sei giovanissimo e dicendolo mi sento più vecchia di mia madre.
Alle diciannove e trenta è già buio, è diventato buio mentre passavo Corso Francia. Un buio con strisce di nuvole nere, che piomba dall’arancione al blu intenso nel tempo in cui supero il ponte. Il Tevere ribolle, metto le quattro frecce e parcheggio facile. Mi siedo. Chiedo un prosecco e leggo dal Kindle, sono nella penombra, perciò meno male che l’ho portato.
C’è un piccolo cane, nervoso e insipido, che ogni tanto si avvicina. Ha gli occhi troppo distanti e i denti un po’ storti. Si accuccia, resta fermo qualche secondo, poi riprende a trotterellare per il cortile.
Riconosco il rombo della vespa px 125, la marmitta scoppiettante, il movimento con cui viene issata sul cavalletto.
Sono qui, mi scrive.
Io digito che sono già dentro.
Arrivo, mi risponde.
Ha la barba lunga ben curata e i capelli tagliati di fino. Camicia celeste e pantaloni beige, quando gli faccio i complimenti per come sta bene sottolinea che si è solo vestito da uomo. Con due battute se la prende con i facili giovanilismi, io butto le mie Dottor Martens sotto il tavolo. Chiudo il Kindle e lo infilo in borsa.

Si avvicina la cameriera e ci informa che la gestione è sempre la stessa dal 1980, conduzione famigliare, in cucina ci sono madre e figlia. Devo averlo confuso con un altro posto. Lui si lamenta del tavolo, troppo in pendenza, fa il puntiglioso e chiede di cambiarlo. Ne sceglie uno alle nostre spalle, ci spostiamo di un metro e mezzo intanto che finge di farsi beffa dei suoi capricci; lo prego di smetterla di costruirsi auto-narrazioni per sguazzarci dentro.
Strizza le labbra in una smorfia che conosco e ordina anche lui un prosecco.
La cameriera ci lascia soli, negli altri tavoli del cortile non si è seduto ancora nessuno.
Cose di cui parliamo: celiachia, intolleranze, medici, farmacia, spesa, sapori, la mia dieta a base di salsicce.
Ordiniamo il vino con un altro suo siparietto sulle etichette.
Assaggiamo due bianchi, scegliamo il Pecorino e ci portano il Trebbiano (ma me ne accorgo solo a fine serata).
Mentre ci versa il vino la cameriera tradisce un accento meridionale, tiriamo ad indovinare, è calabrese e si rammarica di non avere una buona dizione. Capiamo che vuole fare l’attrice. C’è un’età entro cui ancora dici che vuoi fare l’attrice, da un certo punto in poi diventa che sei un’attrice al di là di quante opere hai interpretato. Perciò è giovanissima anche lei.
Il cane si avvicina ancora, mi guarda dal basso verso l’alto, accucciato in un angolo morto del tavolo dove lui non può vederlo. È in una posizione di attesa vigile, probabilmente aspetta del cibo, ma io immagino voglia vedere come me la cavo. Non ne ho idea, gli dico.
Come?
Niente, scusa, dicevi? Mi riprendo.
Parla ad un volume molto basso, gira spesso la testa a destra e sinistra. Gli faccio presente che lo sento a malapena e mi risponde che ha un grave problema al timpano. Lo fulmino, c’ero anche io su quel gozzo a Cala Inferno, dietro l’isola Piana.
Bevo e fumo troppo durante tutta la serata, lui non ha portato la pipa e ha decisamente imparato a regolarsi con l’alcol.
Cose di cui parliamo: il vaso di terracotta che mi ha regalato Nanni e che è rimasto a lui, Milano, come mi sento quando scrivo. Mi chiede se non è struggente. Si lo è. Dice che sta diventando un maniaco del bucato, gli è proprio venuta la fissa, fa lavatrici e stende e stira con una cura da massaia. Non mi trattengo e gli dico che ce l’ha sempre avuta -La fissa del bucato ce l’hai sempre avuta- e poi penso che dovrei evitare di spiattellargli ad ogni occasione quanto lo conosco.
Ordiniamo, ci sono pochissimi piatti senza glutine. Veramente pochi: mousse di tonno, melanzane grigliate, tortino di uova patate e carne, finocchi. Ordiniamo tutto. L’antipasto che la cameriera ha chiamato mousse in realtà è tonno e Filadelfia, con una carota cruda tagliata a la julienne.
Siamo qui per pagare l’intimità della location.
Alle sue spalle si è seduto un tavolo di tre persone, due uomini e una donna. Sessantenni, no anche settantenni. Lei ha una chioma rossa che le arriva alle spalle, crespa e voluminosa. Quando butta la testa indietro per ridere le cadono gli occhiali, ma i capelli restano di pietra. Cerco di immaginare che relazione hanno e mi convinco che lei è stata a letto con entrambi. Nell’arco della vita, non per forza contemporaneamente, non per forza di recente.
Nell’arco della vita anche io e lui siamo stati a letto insieme e ora nessuno potrebbe indovinarlo, credo. Il mio primo pompino completo, mi domando se da fuori si capisce. Quanto mi è piaciuto fare i pompini dopo di lui, vorrei dirglielo, ma non lo faccio.
Cose di cui invece parliamo: Testaccio, la pizza di Remo, la programmazione di un noto festival teatrale, una cena in cui si ritrova seduto accanto a Giorgio Agamben. Mi dice nome e cognome casomai avessi il dubbio. Strozzo il mio sarcasmo, butto giù altro Pecorino, lui vira sull’Università Pontificia. Ha preso ad insegnare anche lì.

Da quando lo conosco non mi ha mai detto che sono bella. Una volta ha asserito che da una certa distanza, mi pare fossero tre metri, funziono da dio e la gente, gli uomini, sono attratti da quelle come me. Sono una fica a tre metri, consolatorio.
Comunque non ho mai capito se fosse un complimento o un’accusa.
Nello stomaco sento lo sciabordio dell’alcol.

Mi dichiaro inabile all’auto imprenditoria, sono incapace di vendermi, di mettere insieme i contatti e dare forma al lavoro. È il cinquanta per cento del mio mestiere e lo ignoro. Annuisce, lui è sempre stato più bravo e lo sa.
Una volta eravamo ricchi, mi dice, ma come facevamo?
Mai stati ricchi, è che non hai mai fatto due conti o pagato una bolletta. Lo facevo io.
Ride, sta campando con la manciata di soldi che gli ho dato per tenermi la casa, all’Università Pontificia lo pagano una miseria e da giugno non ha entrate.
Fa freddo, mi infilo la giacca e penso che palle, è arrivato l’autunno.
Lui si perde in una deriva sui suoi studenti, nomina alcune persone che conosco, poi mi parla di una collega, una donna con i capelli lunghi fino al sedere e un po’ bigotta, schiacciata dalla sua ingenuità protestante, che gli recrimina di non aver avuto abbastanza appeal ad un aperitivo di lavoro; ma era un giorno in cui stava male, il giorno in cui mi ha chiamata, e così, finalmente, arriviamo al dunque.
Guarda di qua e di là con la testa e si scusa per avermi fatta preoccupare al telefono, dicendomi che non si sentiva bene. In realtà mi sono allarmata perché con voce rotta ha detto di sentirsi molto al di sotto della soglia del bene e poi è scoppiato a piangere, ma sorvolo.
Finisco il tortino di patate e carne e non so cos’altro, lo mischio alle melanzane e ai finocchi e al vino, i due giovani camerieri devono essersi seduti in cucina perché non li vedo da un po’, o forse sono sul retro a fumare, mi accendo una sigaretta anch’io. Lui manda giù un boccone e appena il groppo supera il pomo di Adamo mi dice che ha un’altra storia. Sembra un rigurgito.

Non mi giro per cercarlo ma so che il cane ha teso il corpo per vedere come sto, il pelo più irto.

Sbuffo via l’informazione con il fumo della sigaretta, sento la leggerezza di esser fatta d’aria, il corpo rarefatto che non trattiene nulla. Per la prima volta lo guardo e penso: non c’è niente di mio qui, e spero che il cane lo veda.
Così assorbo i dettagli, la libreria dove si sono conosciuti, la casa editrice per cui lavora lei, le serate a teatro a cui l’ha portata lui. La immagino con delle grandi tette, vedo il suo mento che trema mentre bisbiglia al telefono con lui, vedo la sua vita, i suoi fratelli, uno violento, un viaggio in Sicilia. La sorella di lui che si è comprata casa sui monti di Palermo e gli ha lasciato le chiavi. Una brutta litigata, una riunione di famiglia su un balcone barocco, lei che lo tiene sulle spine. Rido a qualche aneddoto, mi sento bene, avanzo consigli.
Ordino un altro calice ché la bottiglia è finita.
Derive sull’alcol, le notti romane, il teatro, il gender fluid che va benissimo ma non ci interessa e chissà perché tira così tanto. Le castagne, la noia mortale della campagna e quella sottile attrazione per lei di cui ci vergogniamo, la nostra presunzione, il silenzio nelle conversazioni rispetto al tanto rumore, quante persone mi interessano poco e quanto sono stronza che glielo faccio capire. Anche se so che non si fa, alla fine lo lascio trapelare.
Chiediamo un amaro e scegliamo il mirto e mentre la cameriera ancora sparecchia il nostro tavolo lui mi dice: così onoriamo quell’aereo perso a Cagliari.

Imploro il mio corpo di resistere almeno finché la ragazza non si sarà voltata verso la cucina, intanto il pianto gorgoglia nella pancia, poi in gola. La sequenza è frammentata e rarefatta, come quando a vent’anni ho tolto i denti del giudizio. Penso ai denti strappati via tutti assieme, l’anestesia che si affievolisce, il rumore sordo dell’attrezzo che colpisce il dente, le labbra stirate dalle quattro mani infilate nella mia bocca e la voce del chirurgo che suggerisce, ancora anestesia. Nessun dolore.
Non sento nessun dolore, ma per trattenere le lacrime chiudo gli occhi e le mie palpebre sono attraversate da fosfeni lineari: ci siamo io e lui sotto al castello di Cagliari, di notte, infilati in un bar stretto come le vie del centro, tutti pigiati. Io sono in tournée ed è inverno e fa freddo e mandiamo giù un mirto dopo l’altro; c’è sempre qualcuno che ce ne offre uno e siamo, quella notte lì, amici di tutti, di gente che non vedremo mai più, destinati a qualcosa di grande e ad una vita importante. Lui mi regala un anello di latta, no anzi, di fil di ferro intrecciato, sì, lo compra, oddio non lo so dove lo compra perché siamo dentro quel bar stipati e devono essere le due di notte e fuori non c’è nessuno, non c’è niente, ma insomma lui ha in mano questo anello e si inginocchia e anche se ci scappa da ridere ci diciamo: senti, non così non ora ma io e te ci sta che ci sposiamo un giorno.
La mattina dopo siamo così stonati che apriamo gli occhi due ore dopo l’orario limite per il check-in e quello è l’unico aereo che perdo in vita mia.
L’anello di latta deve essere ancora in qualche cassetto, arrugginito e accartocciato su se stesso dal tempo.

La donna con i capelli immobili si alza assieme ai due commensali e attraversa il cortile tenendoli entrambi a braccetto.
Credo di scusarmi un paio di volte, sono decisamente ubriaca. Credo mi prenda le mani. Faccio più fatica a ricostruire i dettagli delle chiacchiere successive, anche perché dopo il mirto ordino un porto bianco. Credo si parli della distanza, della scomodità di non saperci più parlare. Del desiderio di ricominciare a farlo. Credo di confessargli la nostalgia per la condizione di totale abbandono a cui potevo credere solo a vent’anni, che non si ripeterà più, perché non la desidero, e che però per questo si porta dietro la malinconia devastante delle cose morte.
Credo, non sono sicura siano queste le parole.
Lui mi abbraccia e sento l’odore del timo bianco e dell’alloro del suo dopobarba, penso che in un modo o nell’altro una parte di me continuerà a sentircisi a casa lì dentro.
Comunque è mezzanotte, il cameriere -il ragazzo questa volta- ci porta il conto e ci invita ad andare.
Alla fine di una piccola scenata paga lui.
Ottantasei euro, veramente eccessivo.