Guardo i segni del legno sulla panca, ci passo su un dito, mi metto a grattarli. Ora avrei dovuto tenermelo sempre, tutti i giorni. Mi alzo al cenno del prete: è la terza volta che ci fa alzare e sedere. Luca volta la testa di un niente nella mia direzione, vuole essere complice, farmi sorridere di questo continuo alzarsi e sedersi, farmi capire che conosce l’inutilità del tutto, lasciarmi intendere che siamo uguali anche se non è vero. Consolarmi dai miei pensieri anche se il padre nella bara è il suo. Torno col dito sui segni dei tarli. Ora avrei dovuto tenermelo in casa ogni giorno, tutte le mattine e tutte le sere. Certo, in mezzo ci sono l’alzarsi, il vestirsi, un caffè buttato giù in fretta, molto ore di lavoro, il pranzo fuori, altro lavoro, le commissioni della vita. Tuttavia rimane la sera. Niente più solitudine, niente più scrivere. Ora che è orfano ha solo me al mondo, solo me e quella casa dove finora ero riuscita a restare da sola, farlo correre all’occorrenza, mai nei weekend. Nei weekend c’è da scrivere, non perdere tempo.
«Preghiamo.»
Il prete ha una voce profonda, baritonale, porta una tonaca bianca con un profilo oro e verde, la indossa sopra un paio di jeans, chissà che uomo sarebbe senza la tonaca, chissà che cos’è quando resta coi jeans, quando niente più “alzatevi e sedetevi”. Niente più “pregate”. Quanto gli invidio la sua solitudine. Me lo figuro stasera, dopo il funerale del padre di Luca o forse di un altro – forse c’è tempo per un altro funerale più tardi – nella stanza in fondo al corridoio della sagrestia: un letto, un armadio, una scrivania. La finestra chiusa, la pioggia che batte sui vetri, una sigaretta fumata a metà tra l’indice e il medio, un bicchiere di vino annacquato. No, niente sigaretta. Un letto, un armadio e una scrivania, la finestra chiusa, la pioggia e un piatto di minestra riscaldata. No, niente minestra. Un letto, un armadio e una scrivania, la finestra aperta davanti alla pioggia e una donna tra le gambe, i jeans calati su un paio di mocassini sdruciti, le dita aperte tra i capelli di lei, la sua mano di prete che le preme la testa. Prima lento, poi spasmodicamente. No, niente donna, troppo scontato. Un letto, un armadio, una scrivania e dei fogli, un blocco di appunti o, forse, un computer. Luca appoggia la sua mano sopra la mia che gratta i segni dei tarli sulla panca e me la stringe, non sopporto quando fa così, quando si impone, mi interrompe i pensieri, sento il battito accelerare, con un movimento rapido ritraggo la mano, fingo di interessarmi al libro delle preghiere e dei canti. Lo scorro, scelgo una canzone che mi piaceva da piccola, Come un fiore che fiorisce, la canticchio a mezza voce anche se non è il momento dei canti, poi prego: dio, fa che io possa restare sola come il prete questa sera e le altre, dammi la forza di impormi. Solo io e quella casa. Ti supplico, ascoltami, ho bisogno di silenzio, concentrazione, ho bisogno di scrivere. No, niente computer, meglio il blocco di appunti. Nero, in similpelle, molto fitto, pieno di parole, di frecce e di segni.
«Sediamo.»
Lo faccio e Luca mi cerca di nuovo la mano, gliela lascio prendere, ma io non ci sono in quella stretta, abbandono semplicemente la mano al suo bisogno di consolazione, solo che la mano non è più mia, è altro da me. Luca, te la regalo questa mano, solo lasciami vivere. Il prete, la stanza, la sigaretta fumata a metà, la minestra, il pompino, quei fogli. Questa sono io, non il tuo amore, non tuo padre che muore, non noi due in quella casa. Prima di questo infarto improvviso, una sera sei passato allegro con un po’ di spesa – a sottolineare la mia mancanza di cura e il frigorifero vuoto? – hai messo pure del brillantante nella lavastoviglie e me l’hai voluto anche dire: «Ho messo il brillantante» – è una cosa normale da farsi? è una cosa sana da dirsi? dove si può finire a dirsi cose del genere? – hai sostituito la saponetta nel bagno con un liquido antibatterico. Dio, ti prego ascoltami, ho bisogno di vivere senza brillantante, di usare un sapone normale, anonimo, che non indugi sulla parola batteri, fammi essere libera, io non ne ho la forza, liberami tu. Un altro infarto? Dicono che sia una questione genetica. Forse la donna del prete è bionda, dell’est, o forse no, quante banalità, forse ha capelli nerissimi, se lunghi o corti va deciso. Addirittura potrebbe essere rossa naturale, un viso di efelidi, occhi azzurri vacui. Devo avere il tempo di deciderlo, il silenzio di deciderlo. Si chiama Clara, va da lui una volta alla settimana, di giovedì, le altre sere il prete scrive. La finestra leggermente aperta, la sigaretta tra l’indice e il medio. Una pioggia obliqua e sottile.
«Amore» mi ha detto Luca dopo il funerale «grazie che ci sei.»
Dopodiché è di nuovo scoppiato a piangere, io lo capisco, e avrei voluto consolarlo, davvero, invece sono corsa in cucina, ho aperto il terzo cassetto e mi sono versata venti gocce di Lexotan. Poco dopo andava meglio, riuscivo a tollerare il suono di quel pianto a singhiozzo, la sua disperazione, ma non ero lì, ero nella stanza del prete a chiudere e aprire la finestra, osservare la pioggia, sbirciare i suoi appunti. Il nome Clara tornava più volte, era scritto in maiuscolo, quasi sempre cerchiato.
«Come mai solo di giovedì?» chiedo.
Lui indica il blocco, poi muove in aria la mano distrattamente, io annuisco che so, che intuisco, in pochi passi percorro la stanza: è tutto come lo immaginavo. Pareti spoglie, qualche segno di cedimento nell’intonaco, un odore oltremodo consolante di incenso e tabacco. Mi appoggio sul bordo del letto, cigola come dovrebbe un materasso a molle, noi invece abbiamo comprato uno di quelli che si adattano alla forma del corpo: mi sveglio sempre col mal di schiena. Luca si affaccia in cucina, osserva distratto il bicchiere che tengo in mano, ha gli occhi ancora gonfi di pianto. Mi abbraccia.
«Vuoi mangiare qualcosa?» dico slacciandomi.
Lui scuote la testa di no, si siede sullo sgabello, appoggia una mano sul ripiano di marmo, l’allarga, di nuovo scoppia a piangere. Dio, ti prego, fallo sparire, non ce la faccio. Mi avvicino, appoggio la mano sopra la sua, sopra il freddo del marmo, con l’altra inizio ad accarezzargli i capelli fini, sottili, la cute arrossata di chi ha capelli fragili destinati a sparire. Allora si lascia andare a un pianto che non ha più niente di umano e io non so come fare a raggiungere il Lexotan, sento che iniziano a tremarmi le gambe, mi manca l’aria. Soffoco.
«Ti preparo qualcosa di caldo» dico allontanandomi «una minestrina.»
Luca fa un cenno che potrebbe essere un sì come un no, decido che è un sì, apro il rubinetto, ci metto sotto un pentolino in cui lascio cadere un dado. Accendo il fuoco.
«Vai a letto» mi sento dire autorevole «te la porto di là.»
Lui annuisce obbediente, si alza lento, sento i suoi passi trascinarsi lungo il corridoio. Mi verso altre gocce, apro la finestra anche se è novembre. Fuori la pioggia cade un cadere leggero. Il prete si alza dalla scrivania e mi raggiunge, mi allunga la sua sigaretta, aspiro, il filtro è umido della sua saliva, cerco di identificarne il sapore, non ci riesco, ma sento che è consolante. Quando spengo mi giro a guardarlo, non si può dire se sia bello o sia brutto, è un uomo, senza dire niente mi prende per mano, raggiungiamo la branda. Mi spoglia in piedi con delicatezza, mi percorre veloce senza far trasparire quello che pensa del mio corpo, è probabile che non gli importi, che io sia una prova per una scena, quindi fa cadere anche i suoi jeans e la maglietta per terra. Entriamo in letto. Lontanissimo mi arriva il pianto di Luca coperto dalla pioggia e dall’ansimare del prete che mi lecca le mani. Chiudo gli occhi, io sono.