Col buio le ombre non esistono

Dopo che le guardie di Sollicciano hanno aperto il cancello, mi sono fatto subito una pisciata in fondo alla strada. Il vento di un camion me l’ha buttata sulle scarpe di camoscio.
«Ehi Diego», urla uno di loro, «ora che vai via, posso chiederti una cosa?»
«No.»
«Quel tatuaggio sul braccio?»
Mi tiro su la zip, gli mostro la curvatura del bicipite e dico: «Sai di cosa si occupa un apicoltore di ottant’anni?»
«Non ne ho idea.»
«Nemmeno io.»

La sera è finita e l’aria ha già il colore del nero caverna. Coi fari abbaglio le ortiche di un muretto, i tubi scoperti mi picchiano sul parafango. Ho comprato un suzukino usato, sobbalza in curva ma sullo sterrato tiene bene. Vado un po’ alla cieca, piegato sul volante da uno sciame d’api che mi sbattono sul cofano. Forse sono solo falene. Proseguo la salita, scollino e prendo per il macchione davanti. Si apre la vallata. Le prime finestre a chilometri di distanza sono quelle dei contadini, oltre i frantoi. Sembrano piccoli accendisigari. Chiudo gli occhi e m’appollaio sul davanzale, guardo dentro. Sono solo lampadari di poveracci sopra una cena mangiata piano. Poi c’è il padrone che ciancica una scorza di parmigiano, si stravacca al camino con ancora il terriccio secco sugli scarponi. Sprofondo nel pantano, torno in me. Sgommo, sgomito, esco con gli occhi venati di sangue. Un ceppo di quercia mi batte sotto l’asse. Sterzo, ci monto sopra, impreco, costeggio il fossato. Un roseto mi riga la fiancata. Fanculo a questo sottobosco pieno di rovi mai tolti da nessuno. Ingrano la prima. La strada si sgretola di ghiande e pietrisco. Mi fermo di colpo.
Una farfalla è in mezzo alla strada, sbatte le ali, è viva, ma è mezza schiacciata. Non posso passare se rimane, aspetto che voli. Non si muove. Scendo di macchina, la guardo, ha i colori del castagno in autunno, un miracolo di sfumature. È la farfalla più bella che abbia mai visto. Mi avvicino, vorrei dirglielo, ma no non mi sente. La sollevo con le dita, l’appoggio su una catasta di mattoni. Rimonto in macchina.
Trovo uno spiazzo, accosto e proseguo a piedi. Ho ancora una cinquantina di metri da fare. Intravedo la casa dell’apicoltore. Prendo la borsa col grimaldello, il trapano e due cacciaviti. Accendo una lucetta, la copro con la mano. Con l’altra scanso le ragnatele dei vitigni e avanzo basso come un soldato. Stringo la borsa per non far tintinnare niente. Arrivo alla recinzione. Lo vedo. È lì nudo alla finestra, assorto, con la pipa in bocca e il collo chino. Ha la pelle flaccida, il corpo misero, un vecchio che gioca a fare il giovane. Ecco di cosa si occupa un apicoltore di ottant’anni. Quand’ero piccolo passava davanti a mia madre col petto in fuori e lo stecchino in bocca. Mio padre non lo sapeva, era sul retro a spaccarsi la schiena. Ma io lo sapevo. E sapevo anche che il vocione di quell’uomo scuoteva la terra. A volte però me ne fregavo e andavo a spiarlo. Mi infrattavo dietro le querce e gli tiravo i noccioli di pesca, lui pensava fossero ghiande. Spesso rimanevo a guardare la scrematura del miele e ne rimanevo incantato, mi scendeva in gola fino allo stomaco, non bastava mai. Un giorno però quell’omone dette di matto, prese una vanga e divelse tutte le arnie, quelle che non riuscì a rompere le prese a calci. Non contento attaccò l’aspirapolvere e fece una strage. Da tempo si parlava che aveva problemi di testa. Ma che c’entravano le api? Che voleva dire avere problemi di testa? Persi la cognizione del tempo e dello spazio. Mi ritrovai a correre giù per le scarpate, a tirare i pietroni nel canale, a darmi i colpi in testa per smettere di urlare. Mi calmai solo giunto in paese, e allora ridussi il mondo a un cono gelato che mi pagarono al bar. Quando lo finii rimasi a fissare il cielo oltre le campane della chiesa, avevo bisogno di veder volare qualcosa. Dopo un’ora passò una farfalla.

Il vecchio se n’è andato e ha chiuso la finestra. La sua ombra passeggia sul muro di cucina e non so se si è accorta di me. Di solito le ombre hanno le palpebre sigillate, ma questa ha due incavi che sembrano occhi. Non so cosa fare. Credo che scavalcare il cancello sia la cosa migliore, sbloccarlo invece porterebbe solo baccano. Comunque la recinzione è troppo alta e appuntita, non ho scelta, scavalco. Metto il piede sul traversino che regge le sbarre. Faccio per tirarmi su ma rimango impigliato. Mi divincolo. È colpa di un cartello d’alluminio piegato, fissato alle sbarre. Tiro fuori il cacciavite, lo alzo. Scopro la lucetta, strizzo gli occhi e leggo: At…enzion…cancell… elettr… llarm… serito. Poss…bili tra…mi…inf…tili… Non capisco, le parole sono sbiadite. “Attenzione”, ok. “Cancello elettrico”, ok. “Allarme inserito”, ok, ma Poss…tra…mi, che vuol dire? Ok ci sono, dice: “Attenzione cancello elettrico. Allarme inserito. Possibili traumi infantili”. Possibili traumi infantili? No no devono avere sbagliato.
Il vecchio spegne la luce e si rintana nei corridoi. È il momento giusto, ma rimango a cavalcioni sul cancello. Scavalco o no allora? No non ci riesco, ho le gambe paralizzate. Riscendo piano dalla mia parte, sbatto il ginocchio, mi cade la torcetta. Finisce nella proprietà del vecchio. Non ci voleva. Mi accorgo che è rivolta verso di me, dritta sul tatuaggio, la posso prendere. Non ci arrivo, ho bisogno di un legno. Non lo trovo. Rifletto. “Scavalca”, dico a me stesso. “Scavalca…il cancello non è poi così alto”. Sì, ma la storia dei traumi infantili? Che stupidaggine. E il vecchio, dov’è finito? E se mi spia lui stavolta? Se a spiarmi è la sua ombra? Ma che scemenza, col buio le ombre non esistono. Scavalco o non scavalco?
Poi perché andava a petto in fuori davanti a mia madre?
Geronimo, l’apicoltore, aveva ereditato un pezzo di terra sotto casa nostra e per lui le api erano solo roba di smercio. Essendo l’unico fornitore di miele del paese spesso lo usava per i suoi comodi. Un giorno venne da mio padre e disse: “Che ne dice se col mio miele mi prendo un po’ del suo olio?” Mio padre gli dette una pacca sulla spalla e lo portò a fare un giro col trattore. E così in quella primavera capitava di vedere quell’omone di centodieci chili passare con la zappa davanti alla veranda, con quel vocione da cantante d’opera. Un giorno però tornai prima da scuola, la maestra si sentì male. La preside poco prima che lanciassimo le cartelle in aria ci disse: “Visto che oggi è giornata di festa, prendete foglio e penna e una volta a casa scrivete cosa vi ha fatto vostra madre per pranzo, ok? Domani la maestra leggerà i vostri compiti”. Pensai che la cosa fosse divertente. Arrivato a casa entrai dal retro, posai la cartella e spiai mia mamma ai fornelli. Aveva un vestito leggero e i capelli sciolti. Era scalza, come quando andavamo in piscina dagli zii. Per terra c’era del fango, sui divani sentivo uno strano odore di acacia. Lei guardò l’orologio, coprì la pentola e spense il gas. Poi corse accaldata al piano di sopra. Appena chiuse la porta di camera m’avvicinai al bancone e addentai una mela. Presi una biro e su uno Scottex scrissi che mi madre stava preparando la minestra di ceci con del pane raffermo appena tolto dal forno. Compiti finiti. Uscii fuori per riprendermi la cartella, ma vidi una cosa che non dovevo vedere: mio padre accasciato sopra un ulivo con la cesta vuota e le olive per terra. Era uno degli ulivi vicini ai capanni, quelli di fronte alla camera da letto. Gli andai incontro, lo chiamai, non rispondeva, gli dissi di scendere dall’ulivo. Non rispondeva. Gli dissi che il pranzo era pronto. Non rispondeva. Allora m’arrampicai, gli strinsi forte la mano, come m’aveva insegnato lui una sera davanti al camino. Lui però non strinse la mia. Volevo chiamare mia mamma. Non lo feci. Guardai invece il vetro della finestra. Ci batteva il sole, e il suo riflesso specchiava la forma floscia del fieno lontano. Le tende beige che cadevano sul davanzale avevano lo stesso colore della minestra di ceci.

La lucetta si è spenta. Non voglio più scavalcare. Un’ondata di calore mi rallenta il respiro. Il frusciare dei larici ora è stonato, è fuori tempo coi grilli, coi canti d’allarme dei barbagianni. Sento che devo andare, che devo allontanarmi il prima possibile da questo cancello. Ma senza luce come faccio? Il suzukino è giù lontano, e mi tremano le gambe. In mezzo c’è roba che si muove. È una palude, la sua aria, un oceano sotto il silenzio. Non vado affondo, vedo un crinale e gli abissi partono da subito. Ho paura. Raccolgo la borsa e mi discosto a passetti, in discesa. Il silenzio è puntellato da piccoli stridii che non definisco. Ora sono gravi. Le suole scivolano sulla ghiaia, su tratti d’asfalto sopravvissuto. La corda è lanciata. Allungo il braccio e tamburello le dita sulle frasche. Scendo, non muoio, però mi pungo, fa male. Un vocione mi strappa il tatuaggio, è una scena, un odore di acacia, i piedi scalzi di mia mamma. Stringo i denti, lo ricucio sulla pelle. Fa ancora più male. Continuo, un passo alla volta. Trattengo il fiato e stavolta vado affondo, l’acqua mi arriva fino agli occhi. Faccio a botte coi pescecani, sono tanti. Alzo la testa. Da un cipresso spoglio vedo una decina di stelle. Non mi servono ora, non fanno luce. Pesto una mela vecchia. Riprendo fiato, proseguo a camminare. Ho i pensieri in fiamme per quella scritta sbiadita. Traumi infantili. Ma che vuol dire? Rivedo la minestra è ancora lì, congelata, nessuno se n’è accorto. Passo il cipresso, gocciolo acqua salata sulle stringhe delle scarpe. Vedo lo spiazzo, la lamiera che conosco. M’avvicino, è il suzukino. Tocco riva, la terra. Ti saluto oceano. Monto su, accendo i fari e riabbaglio il mondo.
Col pedale schiacciato scendo a tutta velocità. Schizzo polvere e sassi, questo posto non mi deve più rivedere. E ancora sterzo, sobbalzo, rigo le fiancate. Schiaccio le ghiande, schiaccio il pietrisco. Ancora una macchietta in mezzo alla strada. Freno di colpo. È la farfalla, è scesa dai mattoni. Esco, m’avvicino, sbatte un paio di volte le ali, poi si piega di lato. L’appoggio sui mattoni di nuovo, ma la cosa non mi piace. Dietro m’accorgo che la boscaglia schiarisce. È una luce fra i rami, riluccica a tratti. Mi volto. È la finestra di Geronimo. È la sua, si è svegliato lo stronzo. M’affloscio sul sedile, mano chiusa sul cambio. Il ronzio è assordante. Stavolta le falene non c’entrano niente, sono api. Un’esplosione di api. S’infilano fra i pruni, fra le querce, attraversano le arnie fracassate. Poi vanno su, sulla strada che ho fatto. Senza timore e senza chiedere permesso. Sono tante, infinite. Non so cosa fare.
O forse c’è solo una cosa da fare. Ingrano la retromarcia. Da sotto il sedile prendo un piede di porco.