La scala

Doveva scendere in cantina a prendere una bottiglia di vino per la cena. Tommaso sarebbe arrivato di lì a un’ora.
Quando sua madre la spediva in cantina a prendere il vino per il padre, all’ora di cena, vi andava sempre controvoglia. Non le piaceva quella sensazione: arrivava circospetta alla porta, accendeva la lampadina che penzolava dal soffitto – una luce troppo debole per vedere bene – pescava una bottiglia impolverata e scappava fischiettando con la sensazione che qualcosa si stesse affacciando dall’ombra per seguirla.
Fischiettare le ha sempre scacciato i fantasmi.
Claudia uscì sul pianerottolo e chiamò l’ascensore.
Nell’androne del palazzo non c’era nessuno. L’unica luce era quella del piccolo lampione che filtrava dalla porta di ferro e vetro del cortile interno, uno spazio che non aveva niente di allettante: dalla finestra della sua camera da letto aveva potuto vedere delle chiazze d’erba secca, tre rastrelliere per le biciclette e quel lampione al centro, che spesso rimaneva acceso tutta la notte rischiarando il soffitto e tenendole compagnia insieme alle ombre quando non riusciva a dormire.
L’ultima volta che Tommaso era stato a cena da lei si erano addormentati e Claudia aveva approfittato della luce di quel piccolo lampione per spiare le linee scolpite del viso di lui. Riposava serio, con una piega in mezzo alla fronte come se stesse pensando a ciò che aveva appena fatto.
Si incontravano sempre a casa di Claudia. Le sarebbe piaciuto essere invitata almeno una volta nell’appartamento di Tommaso, scoprire come disponeva le proprie cianfrusaglie, se ne aveva. Capiterà, si diceva ogni volta, ma non capitava, lui non glielo proponeva mai e lei sopiva la delusione con la convinzione che offrirgli la propria casa fosse come coccolare un gatto che si era perso.
La porta per scendere in cantina si trovava sotto la prima rampa di scale. Aprendola saliva sempre un forte odore di umidità. Era una porta più piccola del normale; anche lei che era piuttosto bassa doveva abbassarsi per non rischiare di sbattere la fronte all’architrave. Cercò nel mazzo la chiave giusta per aprirla: una chiave semplice, in ottone, con la testa tonda e il corpo indistruttibile.
In casa dei suoi genitori le chiavi delle porte interne erano simili: piccole, fredde e color rame. Erano tutte passe-partout.
Era impossibile per lei chiudersi in stanza con i suoi pensieri: sua madre temeva l’adolescenza come una malattia. Stare soli è pericoloso, le diceva. Quando lei si rifiutava di farla entrare, la madre prendeva la chiave da un’altra porta dopo pochi minuti, entrava e la abbracciava come se l’avesse persa nella folla.
La palazzina in cui Claudia viveva ora doveva avere ormai una cinquantina d’anni, forse sessanta. La prima volta che l’agente immobiliare le aveva mostrato le cantine, Claudia aveva trovato quei sotterranei labirintici e asfittici, illuminati da lampadine da un voltaggio insolitamente basso. Le erano parse delle catacombe dove le persone potevano nascondersi durante i bombardamenti. I lunghi corridoi erano disposti in parallelo tra loro, ogni sette porte un passaggio di raccordo li univa. Non c’erano piastrelle in terra, solo cemento vecchio, i muri non erano intonacati. Le vecchie porte in legno erano crepate e sconvolte dall’umidità. Alcune erano più curate, i loro padroni le ridipingevano regolarmente di bianco, mostravano solo delle spaccature, altre avevano perso intere placche di vernice da cui emergeva il loro vero volto di compensato. Qualcuna era stata divelta e la cantina era stata saccheggiata o messa sottosopra, per noia o per curiosità.
Nella sua cantina Claudia conservava le bottiglie di vino, l’attrezzatura per lo sci e scatoloni di vecchie cose che non si decideva mai a portare all’isola ecologica. Scendeva di rado: beveva vino solo in occasione di cene con altre persone e andava a sciare una volta l’anno, un fine settimana in cui raggiungeva casa dei suoi genitori.
Il prossimo Natale avrebbe potuto far conoscere Tommaso ai suoi, forse. Non sapeva se chiederglielo. Forse era troppo presto, ancora; del resto si frequentavano da un paio di mesi. Sicuramente non avrebbe accettato.
Con la mano destra cominciò a cercare l’interruttore sulla parete per accendere la luce delle scale. Non aveva acceso la luce dell’androne e quella del lampione dal cortile interno non arrivava fino a lì, avrebbe dovuto usare il tatto per trovarla. Sapeva che l’interruttore si era leggermente staccato dalla parete; temeva di infilare le dita tra la placca e il muro e toccare involontariamente qualche filo.
Non riusciva a trovarlo.
Non sapendo a quale altezza fosse, fece uno scalino e allungò la mano davanti a lei, alzando e abbassando il palmo sulla parete. Scese un secondo scalino anche se non era convinta che si trovasse così distante e la porta dietro di lei si chiuse, lasciandola nel buio completo.
La sensazione era sempre la stessa: il terrore dello scherzo che la madre aveva fatto a lei e al fratello di ritorno dal loro primo film horror al cinema.
Chiuderli in garage e spegnere la luce.
«Attenti al gatto nero», aveva detto.
Claudia continuava a cercare l’interruttore. Il muro perdeva polvere e muovendo su e giù la mano le sembrava di scartavetrarlo e ripulirlo dall’umidità. Continuando a strofinare la parete, scese un altro scalino.
Spalancò gli occhi nella speranza di raccogliere anche solo un briciolo di luce ma niente, il nero si faceva opprimente.
Sapeva che in fondo alle scale avrebbe trovato la luce per illuminare i corridoi sotterranei.
Gli stretti scalini seguivano un’ampia curva. Il soffitto era alto. Claudia si appoggiò al corrimano e cominciò a scendere lentamente. Temeva di inciampare al buio. La mancanza di punti di riferimento visivi le aveva cambiato la percezione del proprio corpo: si sentiva insicura, aveva un corpo da spostare in un mondo sconosciuto, l’insieme dei suoi muscoli e delle ossa, sparsi, da concentrare in quel punto scuro.
Con una mano seguiva il corrimano e con l’altra si teneva alla maglietta, come da bambina, come per sentire di esserci ancora.
Quanti scalini potevano esserci fino all’interruttore? Una ventina, forse. Non si ricordava più. Forse trenta. Quanti ne aveva già scesi?
Ora che era immersa nel buio e il silenzio era anch’esso nero e pieno non riusciva nemmeno a fischiettare, niente poteva venire fuori da quell’ombra né da sé stessa. Gli occhi continuavano a sbarrarsi e a cercare dritto davanti a loro, ma cercare cosa?
Sentiva lo stesso odore acre di escrementi di topo, ragnatele spesse e cascanti, metallo troppo vecchio della stanza degli attrezzi per l’orto nella cantina di casa dei suoi, dove c’erano una vanga, una zappa e un rastrello, innaffiatoi di metallo incrostati dagli anni, la diagonale della scala soprastante, una bicicletta vecchissima e in terra sempre trappole a molla per i topi. Ne aveva trovato uno ancora vivo, una volta, che si dibatteva per liberarsi. Avrebbe voluto aiutarlo ma non sapeva come fare. Temeva di ferirsi, di essere morsa. Fu la sola spettatrice della sua agonia.
Ora un silenzio profondo accompagnava la notte artificiale. Non arrivava nemmeno il rumore dalla tromba dell’ascensore o qualche passo sulle scale, attutito dalle passatoie rosse. Niente di niente. E quel silenzio le comprimeva le orecchie, tanto era forte. Le faceva girare la testa.
L’unico elemento che la univa al mondo era il corrimano di metallo: gelido, molto liscio, con qualche protuberanza fastidiosa a intervalli regolari, dove due pezzi erano stati saldati male tra loro.
Claudia sentì odore di detersivo, lo stesso che usava la madre quando lavava le lenzuola: collegava un tubo al rubinetto del lavatoio per riempire un grande mastello azzurro dove raccoglieva le lenzuola ricoperte di detersivo in polvere. Claudia la guardava immergere le braccia fino al gomito, alzare e riabbassare le lenzuola finché non si formava una spessa schiuma bianca dall’odore forte, quasi nauseabondo.
«Posso aiutarti, mamma?»
«No.» rispondeva senza guardarla «Sono troppo pesanti per te e sei troppo piccola, le faresti strisciare sul pavimento e dovrei lavarle di nuovo. Vai a giocare.»
Quel profumo stava salendo le scale e sentì un conato di vomito afferrarle la gola.
Scese ancora e le parve di calpestare una pozzanghera, c’era dell’acqua sullo scalino. Si strinse più forte al corrimano temendo di scivolare. Sì, era acqua.
Sentiva le pantofole cominciare a bagnarsi e raffreddarle i piedi. Da dove veniva quell’acqua? C’era una perdita, forse? Alzò lo sguardo per cercarne la provenienza ma ovviamente non riuscì a vedere niente sopra di lei. Quel movimento le diede l’impressione di cadere all’indietro, ebbe una vertigine e cercò di ritrovare l’equilibrio raddrizzando la testa, che poi le cadde sul mento.
Si fermò.
Si coprì il viso con entrambe le mani per riprendersi. Fece qualche respiro ma l’odore di sapone, di polvere e di acqua stagnante non l’aiutavano.
Dovevano mancare pochi gradini alla fine delle scale, avrebbe acceso la luce, sarebbe andata a prendere la bottiglia di vino rosso e sarebbe salita per cenare con Tommaso. Voleva tornare al quinto piano, togliersi le pantofole bagnate e accogliere Tommaso, gli occhi dentro gli occhi. Un abbraccio.
Cercò il corrimano alla sua sinistra per appoggiarsi.
Non lo trovò.
Allungò il braccio, non doveva essere distante.
Niente da fare.
Si spostò verso sinistra, strisciando le pantofole e alzando l’acqua che le ricoprì i piedi. Due, tre passi. Non c’era ancora niente.
Allargò le braccia, la gabbia delle scale non era così ampia e avrebbe dovuto toccare entrambe le pareti, o almeno una di esse, ma non sentì niente. Si spostò di nuovo verso destra, forse aveva sbagliato lato. Strisciò ancora i piedi, aveva l’impressione di fare passi troppo piccoli, come se i suoi piedi si fossero rimpiccioliti, come se avesse cambiato statura ed età.
Riprese a scendere, instabile sulle gambe, le braccia aperte per non perdere l’equilibrio. Delle gocce cadevano dal soffitto e le si infilavano nel collo della maglietta bagnandole la schiena.
Respirava tutta l’umidità – come se si trovasse nella nebbia – gli odori forti di ruggine bagnata, di sapone chimico, di muri ammuffiti. Le ginocchia scricchiolavano ad ogni scalino.
Si dovette fermare, non respirava bene. Si sentiva affannata, confusa. Si sedette sullo scalino e appoggiò le mani sui due lati, nell’acqua fredda. Qualcosa passò veloce sui suoi piedi, lei li ritirò e si abbracciò le ginocchia.
Il gatto nero.
Si ricordò bambina, seduta di fronte alla porta a vetri del bagno: suo padre faceva la doccia, la madre preparava la colazione. Lei era in terra e si abbracciava le ginocchia come in quel momento. Aveva sentito nelle ossa la convinzione di non essere amata da nessuno. Nessuno si stava accorgendo del suo volto stravolto dalle smorfie del pianto.
«Come sei brutta quando piangi!» le dicevano.
Appoggiò la fronte sulle ginocchia. Era sola. Nel buio. Abbracciata a se stessa.
Non piangeva, ora, sentiva dei brividi percorrerle la schiena e gocce di sudore freddo scivolarle lungo le tempie. Chiuse gli occhi per cercare di sparire risucchiata dal buio.
Non provava paura, solo un senso di profonda e fredda solitudine dove non c’era possibilità di consolazione. Niente. Non l’avrebbero più ritrovata, Tommaso avrebbe suonato il campanello e se ne sarebbe semplicemente andato, sorpreso e scocciato della sua assenza.
Cominciò ad avere freddo. Strinse ancora più forte le braccia intorno alle gambe. Una specie di carapace stava crescendole sulla schiena per proteggerla, i piedi erano talmente bagnati che le dita sembravano sciogliersi, sapeva che le gambe piegate non si sarebbero raddrizzate mai più, si sarebbero fuse come quelle di una sirena. Stava diventando una crisalide malata, un bozzolo nero nel buio.
Le gocce continuavano a scorrerle lungo le spalle, le cadevano sulla nuca, tra i capelli, le scendevano sul collo e lungo le guance. Si lasciava percorrere come una pianta morente in una foresta inondata. Il muschio l’avrebbe ricoperta: una cosa antica e solitaria, ferma nel tempo.
Il gatto nero la guardava.