I fascisti di via Rapallo

1

Il Cipolletta l’appuntamento me l’aveva dato a Sperlonga. «È meglio» aveva detto, «ci vediamo alle nove e trenta in Piazza della Libertà». Ed è certo che per lui era meglio: lui abitava là, a Sperlonga, mentre io invece dovevo prendere il Cotral Gaeta/Terracina – aspettando biglietto alla mano sotto il sole di agosto – e poi attendere che l’autobus superasse il lungomare di Serapo, e che superasse la Flacca, e che finalmente fermasse dove doveva fermare.
Però era lui, il capo.
Fossi stato più grosso avrei potuto farlo io, ma con due metri d’altezza – 1,96 metri – e un torace aperto e coperto da una barba scura doveva per forza farlo lui, il Cipolletta. Voi dovreste vederlo. Scommetto che ve la fareste addosso. Questo colosso fascista con un’aquila tatuata sopra al petto che quando muove i pettorali pare che l’uccello muova la testa. «Vuoi che la faccio fare pure a te?» mi disse un giorno il Cipolletta. E io accampavo scuse dicendo che forse era troppo grande, che forse avevo paura degli aghi, che a me i tatuaggi provocavano l’allergia, che i miei genitori… ma lui niente. Era irremovibile: «Se vuoi essere dei nostri, devi avere un tatuaggio».
Allora trovammo un accordo.
Optammo per una testina del Duce sopra al fianco sinistro. Quello, il Cipolletta, insisteva per farmela disegnare sopra al cuore, ma io: «No, è troppo evidente», e quindi mi guardava storto, e mi domandava: «Sei fascista oppure no?» e io certo, certo che ero fascista, però se proprio devo essere costretto a tatuarmi il Duce, permettete almeno che me lo tatuo dove voglio io? Altrimenti cos’è, il fascismo?
Quando alle 09:43 arrivai in Piazza della Libertà il Cipolletta stava facendo colazione riparato da un gazebo bianco; sul tavolo vidi un bicchiere con il cappuccino, bustine strappate di zucchero di canna, e il tovagliolo rugoso da bar, zeppo della cioccolata del cornetto.
Subito balzò in piedi ad abbracciarmi. Poi disse: «Qui non è sicuro» concludendo che avremmo dovuto parlare tra le salite, tra le discese dei viottoli di Sperlonga. E a me onestamente pareva un eccesso di prudenza: a chi interessava origliare quello che dicevamo io e il Cipolletta? Mica eravamo terroristi; noi avevamo soltanto stampato dei volantini con scritto: MANGIA ITALIANO!, e li avevamo appiccicati sulle serrande dei negozi stranieri.
«Siamo andati forte» commentò il Cipolletta, «tutti i giornali locali hanno riportato la notizia. Quasi quasi a sinistra parlavano di terrorismo!» e ridevamo mentre dai balconi pendevano costumi, teli da mare, fiori delle piante in vaso.
«E questo è niente» continuò. «Andiamo avanti così: propaganda. Sennò quando le cambiamo le persone? Sennò quelli continuano a comprare dagli stranieri e gli italiani crepano di fame. Ma a te pare giusto» il Cipolletta mi afferrò l’avambraccio, «che la globalizzazione debba distruggere ogni cosa? Prima c’erano i negozi italiani. C’era l’artigianato. Il piccolo commercio. Oggi uno compra un panino, e la carne viene… che Cristo ne so da dove viene? E intanto qua crepiamo di fame!»
Arrivammo sulla spiaggia. Il Cipolletta gettò via la canotta e mentre continuava a dire: «Voglio fare qualcosa che serve, Stè, qualcosa che possa cambiarlo veramente, questo Paese!» noi già eravamo dentro l’acqua, coi capelli bagnati, colle goccioline luccicanti e coi tatuaggi scoperti. Qualcuno salutò il Cipolletta chiedendo: «Oggi giorno libero?» e lui rispose che sì, che il mercoledì era sempre libero.
Adoravo il Cipolletta perché non fingeva: quello davvero ci credeva, nelle cose; il Cipolletta quando si indignava era indignato seriamente, e quando s’emozionava era emozionato altrettanto seriamente. A me invece pareva che fossi convinto, ma sempre fino ad un certo punto. Ed aveva ragione il Cipolletta: se fossi stato davvero convinto, il Duce me lo sarei tatuato sopra al cuore.

2

A differenza del Cipolletta, che abitava a Sperlonga, io e Franco Mistrella eravamo entrambi di Gaeta. Lui girava coi capelli rasati e col baffetto, che a me pareva un vermiciattolo di peli pubici. «Ma vuoi toglierti ‘sta roba da faccia?» gli gridavo io, perché altrimenti la gente poteva pensare: «Allora è così, che sono i fascisti!» ed invece no, non era vero, perché solo Franco Mistrella portava quella schifezza sopra al labbro: mica i fascisti. Quelli davvero fascisti portano la barba del Cipolletta, oppure sono rasati come il Duce.
Insomma, io e Franco eravamo due compagni di classe al Liceo Scientifico Statale Enrico Fermi, e i primi tempi Franco della politica non voleva saperne niente: «Ma che me ne fotte, a me?» sbottava quando attaccavo a parlare dello Stato Sociale e del sentimento della Patria; ma successivamente ero riuscito a convincerlo, spiegando e rispiegando che una persona, oltre alla sua dimensione individuale, possiede anche una dimensione collettiva. E ora quando si trattava di fare propaganda elettorale, oppure di strappare i manifesti dei partiti di sinistra, oppure di strillare al mondo che eravamo fascisti, con me c’era sempre anche lui.
Appena dopo la storia dei volantini, c’eravamo piantati come gufi a sorvegliare alcuni negozi stranieri; c’accorgemmo che nonostante il nostro appello a mangiare italiano, le persone entravano e uscivano dai negozi degli stranieri con buste stracolme di prodotti stranieri. E questo mica riguardava solo l’alimentazione. Ma anche l’elettronica. E l’abbigliamento. E quindi un giorno decidemmo di agire davvero. Ognuno fuori ad un negozio.
«Ragazzino» rimproverai uno studente delle medie, «lo sai che è sbagliato comprare prodotti stranieri?»
Lo studente guardò il negozio cinese, con quei lanternoni rossi e cinesi che pendevano dall’ingresso; poi gli consegnai un volantino. E lo stesso feci con un altro. E con un altro ancora. Finché ad un certo punto sbucò il proprietario cinese del negozio cinese. E allora scoppiai a ridere, perché come puoi non ridere quando un tappetto cinese di un metro e sessanta ti ordina di spalile minacciandoti di chiamale una volante della polizia? Il coso cinese mi accusava di spaventargli i clienti; io rispondevo che vendeva pattume, che imbrogliava i compratori italiani con robaccia scadente. Ma qualcuno continuava ad entrare, e il proprietario cinese, l’unico lavoratore del negozio, correva avanti e indietro tra ingresso e bancone.
Quando d’un tratto l’uomo accennò una spinta, io allora risposi così forte che batté sul vetro del negozio, e cadendo strappò dall’ingresso le lanterne rosse.
Vi assicuro che l’avrei ammazzato. Ma purtroppo delle persone s’intromisero, e mentre io difendevo i diritti degli italiani, quelli, gli italiani, mi davano contro e parteggiavano per il tappetto cinese; e pure era stato lui a spingere per primo. E per cosa? Io che avevo fatto? Avevo ammazzato qualcuno?
Quello stesso giorno Franco Mistrella s’era appostato fuori ad un’attività chiamata: DÖNER KEBAB. Quello che faceva era mostrare alle persone articoli di giornale più o meno verificati che spiegavano come il kebab fosse un agglomerato di porcherie d’ogni tipo; il Daily Mail, addirittura, aveva riportato che a Nottingham 142 persone erano state ricoverate a causa della presenza di feci umane nella carne.
Vedendo i clienti che scappavano uno dopo l’altro, il proprietario del locale, dopo aver gridato e minacciato dal bancone, era uscito esasperato brandendo il coltello che usava per tagliare la carne. Ma Franco correva e urlava: MANGIATE ITALIANO! mentre sfrecciando in un grembiule sporco di tzatziki e impregnato di olio l’uomo fendeva l’aria con un coltellaccio da kebab.
Poi di colpo il turco è sopra Franco Mistrella. Gli tiene il coltello all’altezza della gola. Franco cerca di svincolarsi: deglutendo e piangendo, il pomo d’Adamo flippa avanti e indietro.

3

Oramai da mesi il nostro ritrovo era diventato una cantina su Via Rapallo. Lì avevamo stampato i volantini MANGIA ITALIANO!; lì avevamo distribuito a nostre spese cibo agli italiani in difficoltà economica. Consegnavamo gratuitamente pacchi di pasta, passate di pomodoro, e tutto ovviamente era al 100% italiano.
Il più grande finanziatore del progetto era stato il Cipolletta, che quasi il 70% dello stipendio – lavorava come bagnino su una spiaggia di Sperlonga – lo sperperava negli alimenti necessari a continuare la beneficenza; e mentre la gente ringraziava, i giornali, piuttosto che lodare iniziativa e altruismo, ancora una volta ci dipinsero come «FASCISTI CHE NEGANO CIBO AGLI STRANIERI». Ma scusate, dico io, ora fare la beneficenza è diventato un obbligo? Ma saremo anche liberi di spendere i soldi nostri come ci pare?
E però il progetto si arenò dopo poche settimane. Il crescente numero di richieste ci impediva di soddisfarle tutte, e sorgeva spontanea la domanda se si potesse o se fosse giusto preferire un italiano ad un altro. Così il Cipolletta disse: «O tutti o nessuno» e decidemmo nessuno.
Sulle pareti della cantina, oltre a fogli ammonticchiati e volantini sparpagliati, si alternavano le foto del Duce – quando era giovane, con cappello e sigaretta in bocca; quando, ormai Duce, arringava le folle dal balcone di Piazza Venezia – e numerosi libri di storia sulle violenze partigiane.
Mercoledì 13 agosto il Cipolletta era furibondo. Voi dovevate vedere come prese la notizia del kebabbaro: «Lo distruggo!» sbraitava, battendo i piedi, e contemporaneamente accusava Franco Mistrella d’essersi «Comportato da finocchio!» e «Non come un vero fascista!». Però la cosa che più lo fece imbestialire fu il commento dei giornali: ma come, diceva il Cipolletta, uno straniero con più di cinquant’anni che minaccia un bambino di sedici anni brandendo un coltello di mezzo metro, e voi scrivete pure che ha ragione? E allora sì che dobbiamo prenderle, le mazze! Perché se la giustizia non fa la giustizia, vuol dire che la giustizia la devono fare i giusti: e noi, si può dire quello che si vuole, che siamo dei fascisti e che siamo dei provocatori, e però avevamo comunque ragione, perché nessuno dei nostri aveva mai pensato di sgozzare un bambino di sedici anni con un coltellaccio da kebab!
«Voi lo sapete meglio di me» gridò il Cipolletta, «che cos’è che ho sempre detto sulla violenza. Io non l’ho sempre criticata, la violenza? Non ho sempre detto che è per colpa della violenza che il Duce… ma quando è troppo è troppo! Qua diventiamo la barzelletta del neofascismo laziale! Qua dobbiamo riconquistare la dignità!»
Se proprio devo confessarlo, io non è che fossi del tutto convinto che la dignità te la riconquisti bastonando un kebabbaro; e neanche bastonandone due, come suggeriva invece Franco Mistrella. Però il coltello l’aveva cacciato lui, ed era stato lui che aveva provato a sgozzare un bambino di sedici anni. O sbaglio?
Così, quando alle 03:47 di quello stesso giorno fuoriuscimmo dalla cantina di Via Rapallo, i marciapiedi di Via Bologna erano scuri, e deserti, e dagli alberi, dai cespugli, dalle piante rumoreggiavano gli insetti, grilli, cicale, scarafaggi, lumache, zanzare, falene.
E il Cipolletta proclamò: «Vivere è la lotta, il rischio, la tenacia!».

4

Scoccavano appena le 04:00 di notte. Gli ultimi clienti scomparivano da DÖNER KEBAB, e anche sul lungomare Caboto, dove solitamente le coppiette si slinguazzavano fino a tardi, non c’era più nessuno. Sbucammo, d’un tratto, noi tre da Via Indipendenza: il Cipolletta era riuscito a procurarci delle mazze ferrate, che nei giorni seguenti i giornali spacceranno per manganelli, benché sia falso, e che durante la strada avevamo tenuto rivolte verso l’asfalto.
Mentre il rotolo sfrigolava e friggeva, prima di chiudere il negozio il turco tranciava col coltello la carne già cotta, abbrustolita, e la gettava dentro un cassetto; il giorno seguente l’avrebbe riscaldata e l’avrebbe infilata colla paletta dentro un panino-kebab, e allora un italiano l’avrebbe addentata, e avrebbe addentato un panino-kebab del giorno prima.
Appena entrato chiesi: «Vorrei una piadina-kebab».
Il turco mi guardò, poi scosse la testa. Disse che era troppo tardi, disse che era l’ora di chiudere, ma subito dopo scattò per aprire il cassetto alla sua sinistra. «No» dissi io, «quella è roba vecchia, io non la voglio». Nuovamente uno scambio di sguardi. Nel posto c’era calore. Nel bancone rimasugli di chele di granchi, di würstel in camicia. Anche di pomodori, di lattuga, di cipolle, di peperoni, di patate fritte dentro contenitori metallici. Il turco torceva la bocca, increspava il naso: ma ecco che mosse la mano ed impugnò il coltello. Io ero immobile. Senza arretrare. Disarmato contro un turco in grembiule che sbraitava: «Fuori da mio negozio!» e che sventolando mezzo metro di coltello minacciava: «Questo è tuo turno!»
E tuttavia d’un tratto, vorticando e roteando nell’aria seguito dal mio sguardo imbambolato, qualcosa precipitò dentro un contenitore e lo gettò sul pavimento, rovesciando le foglie verdi di lattuga. Era un dente del turco, che era volato dopo la bastonata di Franco Mistrella, che era entrato gridando «Muori bastardo!» mentre il Cipolletta trascinava giù la serranda.
Rovesciammo a terra fette di pomodoro, e fette di cipolla, e peperoni, e patatine fritte, e mentre il turco strisciava per arrivare al coltello, e mentre allungava l’ultima falange del dito più lungo, quello, il Cipolletta, gli calpestò la mano, e dopo una botta al mento l’incisivo schizzò tra la polvere sotto al bancone. E nel frattempo Franco gli girava attorno, e una salsa dopo l’altra lo cospargeva di ketchup, e maionese, e barbecue, e piccante, e yogurt, e tzatziki.
Quando mi vide che afferravo il rotolo di carne, il turco singhiozzò: «No, io prego di no!» e però io lo rompevo di calci, il rotolo, e tra i gemiti del proprietario – come se fosse lui, invece, a prendere i colpi – e le grida indemoniate, tutti e tre bastonammo quel putrido ammasso di carne straniera. Sembrava la scena d’un delitto: carne schizzata da ogni parte; una carcassa dentro una pozza di sangue.
Poi si fecero le 05:03 tra gli improperi del turco: «Assassini! Criminali!» e le minacce: «Pagherete per tutta vostra malvagità!» e noi abbandonammo il rotolo di carne oltre gli scogli del lungomare Caboto: galleggiò per dei minuti prima di colare a picco.
Ma nei giorni seguenti – mentre noi eravamo segregati a Via Rapallo scolando birra – italiani e stranieri protestarono contro le «GRAVISSIME AGGRESSIONI NEOFASCISTE» e contro «IL RAZZISMO AL MANGANELLO DELL’ESTREMA DESTRA», e pure i partiti che avrebbero dovuto prendere le nostre difese manifestarono con gli altri, a Sperlonga, a Terracina, a Formia, a Gaeta, e leggendo i giornali il Cipolletta sbraitava: «Ma che aggressioni! Ma che manganelli! Pare che abbiamo ucciso un cristiano!» e come sempre aveva ragione lui, il Cipolletta, perché mica avevamo ucciso qualcuno.