Tre sorelle

Prologo
Ci sono idee che se ti vengono a vent’anni ti senti un genio, ti carichi di un’energia che poi, nella maggior parte dei casi, evapora da sé, si consuma nella fiamma dell’autocompiacimento e tutto finisce lì, senza grossi strascichi o danni. Se la stessa idea viene invece a cinquanta l’indulgenza vacilla, perché a vent’anni certe cose si possono anche perdonare, a cinquanta non più. A me quest’idea è venuta a trentacinque, a metà strada tra l’esaltazione di chi ha pochi termini di confronto e l’inadeguatezza di chi non ha fatto il salto. A mia discolpa devo aggiungere che tre lustri sono uno slittamento comprensibile per chi, come me, nella vita è in ritardo su tutto, a partire dall’adolescenza che non sono certa di avere superato completamente, o dalla cosiddetta «prima volta», un’esperienza in ragguardevole differita rispetto ai miei coetanei e per niente liberatoria, tanto da non meritare neppure una menzione nel diario. In un’età in cui la mia generazione metteva su famiglia e faceva il mutuo per la casa, io barattavo i risparmi destinati alle lezioni di scuola guida con una videocamera digitale semiprofessionale, un cambio di rotta legittimato dall’ammissione al «Corso di Formazione in Videoripresa e Videoediting» cui la disoccupazione prolungata mi aveva dato diritto. Era il miraggio di una svolta in quaranta ore di lezione più stage. Lì avevo conosciuto Annetta, chiamata così per distinguerla da Annona, alta un metro e ottantacinque, e da me, soprannominata Anno non so bene per quale motivo, forse perché ero la più vecchia, o perché mi taglio i capelli dal barbiere, il che è una faccenda di costi. Noi tre Anne, insieme a Veronica, eravamo le uniche femmine; i maschi del gruppo avevano, devo ammetterlo, nomi più vari. Lo stage conclusivo si sarebbe svolto a settembre presso una rete televisiva locale dove temevo mansioni da vivandiera o da assistente operatore nel programma di cartomanzia. Prima però, durante la pausa estiva, c’era il tempo per realizzare il progetto di fine corso, che, sebbene facoltativo, era l’occasione che tutti aspettavamo per mettere in pratica i nuovi saperi. Della mia idea da ventenne Annetta era entusiasta – del resto lei di anni ne aveva ventitré. Si era proposta di occuparsi del suono, il montaggio lo avremmo fatto insieme. Mi rallegravo dei futuri scambi di idee e cominciai a fantasticare sul destino del «nostro» cortometraggio. Poi invece è arrivata l’estate che da sempre crocifigge l’italiano alla sdraio, e mi sono rassegnata a fare tutto da me. Certo, il crollo motivazionale non aiutava, e la dose di autostima inclusa nella confezione della nuova Sony non sostituiva il sostegno mancato, essenziale per affrontare con serenità il parentado nel casolare da cui non sarebbe stato facile scappare. Ma il proposito era più forte dell’intoppo, e così una mattina di giugno sono partita da sola, in bus dato che la patente era stata sacrificata a più nobili intenti, con la telecamera nuova, un microfono preso in prestito dalla scuola, e il copione del dramma di Cechov.

I.
Il bus arriva a Castelricco di buon’ora. La prospettiva di lavorare in solitudine ha già calato un’ombra sul mio entusiasmo. È giugno. In estate la casa si anima. Tutti, a parte mia madre, vi trascorrono alcune settimane. Zia Pierina e zia Olga sono tornate a viverci dopo la pensione, nostalgiche di una giovinezza campestre che era stata tuttavia povera di svaghi. «Noialtre gavemo sempre lavorà per mantenere nostro pare», le sento ripetere sin dall’infanzia. Un Pare Paron che sperperava i terreni al Lotto.
Scampanello per annunciare la mia presenza, so che il cancello è sempre aperto. Le ortensie in fiore intorno al pozzo, il gelsomino, il glicine mi investono, onde di colori e profumi si accavallano. Chi lo dice che i fiori sono gentili? Sopraffanno i sensi, invadono retina e narici senza chiedere il permesso, accendono immagini e sensazioni, innescano un meccanismo di associazioni che sballotta l’animo qua e là, in un tempo senza tempo. Molecole volatili che si insinuano nell’apparato olfattivo, che attivano ricettacoli, producono stimoli elettrici e raggiungono il cervello: è droga, e in quanto droga perturba. Sento vanificare il senso della mia venuta, le mie ambizioni artistiche infrangersi. A che serve sprecare le proprie energie se l’effetto che ne scaturisce non potrà mai avvicinarsi neppure vagamente a quello che queste piante così comuni suscitano in me ora?
Le persiane della camera da letto di mio padre sono chiuse. È la stanza più bella, col balcone che dà sul giardino e i colli che azzurreggiano in lontananza. Lui va orgoglioso della carta da parati posata ancora nel XIX secolo, scollata in più punti e tana per nidiate di insetti. Nel resto della casa, se mai c’è stata, è stata tolta da chissà quanto. L’unica ad essere stata intonacata e ritinteggiata in tempi recenti è la stanza di zio Antonio, fratello minore che mio padre considera uomo privo di sensibilità e gusto, difetti che riconduce alla natura contadina e piccolo borghese da cui lui stesso, il letterato, l’artista, l’unico in famiglia con un titolo di studio superiore, si è affrancato. Nella lotta per l’autoaffermazione mio padre ha lasciato alle due di poco più vecchie e rassegnate sorelle il compito di adempiere alle funzioni familiari e di compensare alle mancanze di un capofamiglia che si giocava il pane sulla ruota di Venezia.

II.
Non ricordo come mi fosse venuta l’idea balzana di far recitare alle mie vecchie zie le Tre Sorelle di Cechov, e cosa ci trovassi di speciale. L’universalità di Cechov, dicevo al bar con gli amici, e le incredibili coincidenze. Tre sorelle, di cui una maestra, una che lavora nell’amministrazione, una sposata, tutte e tre che vedono le proprie ambizioni allontanarsi fino a scomparire; un fratello su cui ripongono speranze e sogni e che si rivela una persona da poco, sposato a una donna altrettanto da poco, se non addirittura subdola. In realtà però si tratta di similitudini tirate per i capelli, e le differenze con l’opera teatrale sono maggiori delle analogie. Per cominciare, nella mia famiglia esiste un secondo fratello, mio padre, di cui avrei taciuto, e la moglie di lui, mia madre, da sempre oggetto di malignità e invidia da parte delle non-proprio-virtuose sorelle. Le mie tre zie sono inoltre quarant’anni più vecchie delle protagoniste del dramma, maestre e impiegate sì, ma in pensione, e la città che talvolta riaffiora nei loro ricordi non è la grande Mosca, bensì la piccola e immota Padova.
Ma c’è anche una dissomiglianza che, almeno a mio vedere, rende queste donne simili tra loro e vale la pena raccontare. Mentre le giovani protagoniste di Cechov erano un unicum nella provincia del governatorato in cui vivevano – conoscevano molte lingue, erano colte, saperi inutili in quei luoghi, come dice Maša già nel primo atto -, le mie zie sono, a modo loro, altrettanto speciali in quanto archetipo di due tipi di donne: quella zitella, bigotta e provinciale per vocazione – Olga e Pierina -, e quella priva di volontà ed espressione del desiderio altrui – la maritata Mariuccia. Il comune denominatore tra tutte è il loro essere succubi, del padre, del marito, del fratello. Come nel dramma di Cechov, anche nell’esistenza delle zie sono gli uomini a innescare i cambiamenti, con la loro presenza ma anche con la loro assenza. A tutte le donne è invece destinata l’immobilità.
Ad ogni modo, le incredibili coincidenze che avevano acceso la mia fantasia erano altre, tanto banali quanto sensazionali, ovvero gli onomastici e la corrispondenza di stato civile e di mestieri. Ol’ga, Irina e Maša (ipocoristico del nome Maria) le sorelle di Cechov; Olga, Pierina e Mariuccia (diminutivo di Maria) le tre zie, un’analogia tale da non poter rientrare nella categoria del caso, ma in quella ben più eccitante del destino.

III.
Vado per tentativi. Non ho idee chiare, solo qualche intuizione. Non è così che si dice lavorino i geni? L’inesperienza mi rende temeraria.
Voglio che le mie attrici – anzi, i miei attori, poiché farò recitare anche zio Antonio – leggano le proprie battute come da un gobbo, fogli che mostrerò loro via via, scritti a grandi caratteri per via dei problemi di vista, ma rimescolati a caso come un mazzo di carte. «Noi sappiamo molte cose di nessuna utilità», «Il tempo passerà e noi scompariremo per sempre, ci dimenticheranno», «Più il tempo passa, più la vita vera, profonda, bella, si allontana, ti sembra di scivolare sempre più giù, in un abisso». Frasi che, come i Ching, avrebbero agito sulle necessità psicologiche di chi le interpreta, in questo caso gli attori. Poi, in fase di montaggio, avrei stabilito a mia discrezione se e come riordinarle, se dar loro sequenzialità. Nella vecchia casa dal grande giardino spalanco porte e finestre, posiziono lo stativo nel salone, fisso la telecamera, sistemo il microfono. Gli affreschi di anno in anno sono sempre più malandati. Manierismo di fine ‘800 li definisce mio padre. Mi ero immaginata il primo atto in questo grande spazio che ora mi appare poco vissuto ma sovraffollato di mobili e cianfrusaglie.
Olga, Pierina, Antonio e Mariuccia osservano il mio procedere, colpiti dalla professionalità del mio equipaggiamento. Sono in piedi, l’uno accanto all’altro in scala d’altezza, ma anche di grassezza e di generazione. La corpulenza della Pierina segue di poco quella della primogenita, non riesco a immaginarmi quando si sia creata la fama di donna magra. Per fare un’impressione ancora maggiore ho piazzato al margine dell’inquadratura due pannelli riflettenti argentati – specchietti per le allodole – ma un po’ a caso perché non so usarli.
Zia Olga legge esitante, in uno scamiciato a fiorellini, la divisa estiva di Castelricco. Mi piace che ci sia esitazione, mi piace il cantilenare dialettale.
«Ti ricordi quando è morto nostro padre, era il tuo onomastico, Pierina. Che freddo! Io credevo di non arrivare a sera. Tu eri disfatta.» Non le chiedo di attenersi al testo e di rivolgersi a Pierina con Irina, lo trovo coerente così, ma Pierina fraintende e scrolla le spalle infastidita: «Cosa te disi, me pare xe morto in aprile e el me onomastico xe in giugno». «No zia, devi dire quello che c’è scritto nel foglietto. La tua battuta è: ‘Perché ricordare?’». «Ma mi me ricordo ben co el xe morto. Tiente el to toco de carta.» Capisco che bisogna ripensare il copione in base al nuovo contesto.

IV.
Quando in TV mostrano le api che impollinano un fiore Olga e Pierina interrompono le loro attività per seguire il programma. «Scolta!», si esortano l’un l’altra, «che imparemo». Una vecchia coppia che convive da sempre, che si divide il letto sin dall’infanzia. Per Olga Pierina è una donna emancipata perché ogni tanto partecipa a un viaggio organizzato in paesi da cui torna con bamboline in costume tradizionale che mai escono dal cilindro di plastica trasparente che le contiene. Olga invece è stata una volta a Venezia e una volta a San Marino.

V.
Secondo tentativo: niente più gobbo, le battute verranno ripetute con parole proprie. Olga non si infila gli occhiali per leggere, li tiene con le stanghette chiuse davanti al viso. «Oggi xe morto me pare. Fataità xera el to onomastico Pierina. Che freddo che faseva.» Il dialetto si insinua nel dramma. Con il ritorno definitivo nella secolare casa di famiglia, dopo decenni in città, le zie si sono allontanate dall’uso dell’italiano. Olga si gira verso di me: «Va ben cusì?» «Non guardare in camera», le dico, poi ricordo che per lei la camera è soltanto quella da letto. Le porgo un altro foglietto. «E se il sugo se brusa?» C’è sempre qualcosa di cui valga la pena preoccuparsi. «Ci pensa lo zio», cerco di tranquillizzarla. La vedo ancora un po’ scettica, comunque cede. «Azione», grido per darmi importanza.
«Xe beo caldo oggi, se sta ben coe fenestre verte. Quando semo ndà a Mosca con me pare, xera anca beo caldo. Meo ricordo come fusse ieri.» Sembra un santino di fine ottocento quando raccoglie le mani in preghiera e con gli occhi rivolti alle travi del soffitto sospira: «Che nostalgia». Le lascio ancora un paio di secondi per lo stacco e poi applaudo. La Mosca delle mie zie non è il sogno di un futuro auspicabile, ma di un passato diverso e di diverse scelte.
La prima sessione di riprese finisce con la parola d’ordine con cui zio Antonio annuncia la cottura del grigliato: «Pronto!»

VI.
Sediamo in cucina, Olga distribuisce le tagliatelle al sugo nei piatti, zio Antonio toglie salsicce e pezzi di pollo dalla brace, alcune patate riposano nella cenere. Ogni fine settimana lo zio viene a fare da padrone di casa dato che della sua lo sono la moglie e la suocera. Davanti al focolare pontifica sul segreto della grigliata, gira o spennella qualche coscetta con la disinvoltura di uno chef de cuisine e considera tutto il resto un compito da spignattatrici. Sopra il camino sono esposte spade da parata e fucili da caccia, sulle pareti una sega, un barometro, pentole e padelle di rame, altri oggetti dall’aspetto familiare la cui natura mi è sempre stata sconosciuta. Un cavallino di legno su uno scaffale, bottiglie e ampolle vuote, lampade a olio sparse su cassapanche e mobili in legno. Mai, dai tempi in cui si favoleggia vi stazionarono i soldati di Napoleone, in questa cucina è stato spostato un oggetto. Neppure i soldati tedeschi che occuparono parte della casa durante la seconda guerra mondiale osarono farlo.
Attorno al tavolo i discorsi di sempre. Caposaldo della conversazione parentale è mio cugino Carlo, da quando, svariati anni fa, la moglie lo ha piantato, e non per un altro uomo. «La xera tanto bea. Chissà parché la xe andà via?» La perplessità e il sospetto rimbalzano intorno al tavolo. La nuova moglie, perché una nuova moglie c’era stata come pure una nuova lista di nozze, non era mica tanto bella. Buona, devota, ma bella insomma.
Da mio cugino a me il salto è breve: «E ti? Te ghe el fidansato?» Nego sempre. Non do in pasto le mie sofferenze alla brama di esperienza altrui. Gli occhi neri di zia Olga lampeggiano. Credo sia la passione inespressa che sobbolle nel profondo. «Voi considerate il mio dolore come la conseguenza del peccato», mi immagino dire, ma taccio. Mio cugino ha sofferto per una singola separazione, il che lo rende virtuoso. Per quanto mi riguarda invece lo stato di abbandono è una condizione permanente, o meglio ciclica: un breve periodo di gioia, molti mesi di cruccio, le lacrime, la ripresa e via con un nuovo giro di giostra. Niente liste di nozze comunque. Le zie sono deluse anche questa volta, un’altra zitella in famiglia. La loro filosofia verte intorno al concetto del ‘sistemarsi’. Se non con il matrimonio almeno col lavoro: «Xe per la TV sta roba che te fé? I te paga?» Temo che perdano il già poco entusiasmo, e mento: «Sono in contatto con un festival di Milano, con uno di Roma e con qualche cineteca». Doppiamente deluse: «Ste cose… Noialtre semo vecie, ma to pare sì che xera bravo, nol faseva mica sempiade lu». Sempiada, o scemenza, nel lessico familiare, è tutto ciò che non porta soldi. Si passa quindi a parlare dello zio Tonino e della presunta badant-amante. Il mio insuccesso è decretato dalla velocità con cui si cambia argomento.
Dal salone penetra la litania di un rosario, forse la coroncina della divina misericordia su Tele2000, emittente che qualcuno ha salvato nel telecomando al posto del terzo canale, probabilmente mio cugino. Zia Mariuccia sorride e canticchia un motivetto della sua infanzia che a me fa pensare al mare.

VII.
Zia Mariuccia è l’unica delle tre che si è sposata, o maritata, come si dice qui. Il fatto che abbia dato alla luce due bambine e che sorrida persino nei momenti meno opportuni è la prova evidente – secondo le sorelle – dei piaceri di cui ha potuto godere. A me invece non sembra una donna in grado di capire cosa dia piacere e cosa no. Mio padre racconta che da bambina Mariuccia si era affezionata a una gallina, la vestiva come una bambola, la vezzeggiava, la portava a spasso con sé, finché un giorno mia nonna, sempre in pena per il pranzo, non se la trovò tra i piedi nel momento in cui si stava chiedendo quali ingredienti mancassero per il brodo. La piccola Mariuccia versò lacrime silenziose, ma mangiò una coscetta lessa e chiese un bis di petto. Non l’ho mai vista ridere, né arrabbiarsi, non l’ho mai sentita esprimere un’opinione né raccontare un’esperienza. Quando penso a lei penso al suo sorriso da maschera.

VIII.
C’è una crepa sul soffitto della stanza tappezzata di insetti, con questa crepa sono cresciuta. Ci ho visto Stanlio e Ollio, sagome di animali, farfalle sghembe e orme di piedi extraterrestri. Metamorfosi che hanno accompagnato le evoluzioni del mio corpo. Questa notte invece la trovo indecifrabile, ci vedo soltanto un’incrinatura dell’intonaco. Volevo fare una farsa di Cechov, così per divertimento, ma qui non c’è nessuno che si diverte.

IX.
Caffellatte, pan biscotto, e si riparte. Per tutta la mattina le zie si dimostrano pazienti ma sempre meno convinte. La notte porta consiglio, e a loro ne ha portato uno che non gioca a mio favore. Prima di pranzo collego la telecamera al televisore e tutti insieme guardiamo alcuni minuti di girato che mi sembrano particolarmente riusciti: le zie insaccano il collo tra le spalle e lo rialzano più volte su e giù, un gesto di diniego che ricorda l’incedere del tacchino: «Ah, Cara ea», sbuffano. Cara ea è una formula passepartout che annovera una infinità di significati che solo il tono e il gesticolio possono chiarire. In questo contesto una traduzione appropriata potrebbe suonare: «Cara nipote, le tue intenzioni sono ambiziose e per questo vuoi servirti di noi e della nostra ingenuità, ma noi ci rifiutiamo di coprirci di ridicolo per i tuoi turpi scopi». Sono amareggiata, ma mi sforzo di essere convincente: «Vuole essere un film comico, volutamente comico, non siete ridicole ma divertenti, è un’altra cosa. Che era poi nelle intenzioni di Cechov stesso». «Va là, va là», conclude Olga sventolando la mano come se scacciasse una mosca. Fine dello spettacolo. Si alzano, richiamate in cucina dai radicchietti di campo da curare. Rimango sola davanti al fermo immagine della Pierina infagottata in uno scialle nero con rose tipo babushka, e mi domando il significato della parola ‘ridicolo’. Chi è ridicolo? Chi ha una falsa percezione di sé? Rispetto a cosa, o a chi? Chi decide se una donna con atteggiamenti sexy sia seducente o ridicola? Chi decide se un vecchio con jeans e maglietta strappata sia giovanile o ridicolo? Chi decide se l’astenersi dallo strappare la carte igienica durante lo shabbat sia pio o ridicolo? Anche il Veršinin di Cechov si interroga sul suo significato quando osserva come nell’oggi si ignori ciò che nel futuro sarà importante e sublime e cosa meschino e ridicolo. È una guerra di prospettive in cui vince quella più conforme. Chissà, forse in un mondo perfetto il ridicolo non esisterebbe.
Nel filmato le zie si sono percepite ridicole, ai miei occhi invece ispirano simpatia. Non sono però i miei gli occhi che temono. Come spiegare loro che non devono temere neppure quelli di chi frequenta le cineteche a cui aspiro?

Epilogo (Monologo di Olga)

(Olga siede su una poltroncina tarlata, davanti a sé Pierina in piedi la guarda. Fanno da sfondo i pannelli riflettenti argentati retti da Mariuccia e Antonio da cui sporgono solo le teste.)
Tra pochi giorni sarà il tuo onomastico Pierina. Ti ricordi quando nostro padre faceva la barca di San Pietro, la barca con l’uovo? Sono vent’anni che è morto, ha fatto un rantolo e non si è più mosso. Ce lo ricordiamo appena. Al funerale è venuta poca gente, la pioggia, chissà. Ma perché ricordare queste brutte cose? Guarda che bella giornata oggi, il glicine è in fiore. Anche il giorno del mio pensionamento il glicine nel giardino della scuola era in fiore. Ah, che nostalgia dei miei piccoli alunni! Ci potevamo sposare, come Mariuccia, come Antonio. Abbiamo assistito nostra madre ancora qualche anno, poi ci ha lasciate anche lei, ma allora era troppo tardi per sposarsi. Saremmo state più felici? È felicità sorridere? Non sono questi gli anni più belli, Pierina? Io e te. Non sono questi gli anni migliori della nostra vita, sole io e te, e il nostro giardino?