Insetti

Oggi mi sono sentito padre per la prima volta. Forse un poco in ritardo, ché Francesco ha otto anni. Pensavo che fosse normale che per me arrivasse dopo rispetto a mia moglie, ché mica me lo sono sentito in pancia che cresce come un seme.
Oggi mi hanno chiamato dalla scuola e le maestre hanno detto che volevano avere un colloquio con me e Anna. Che Francesco ogni giorno ne combinava una, e ormai andava in seconda e doveva maturare. Era da quando era all’asilo che tutti dicevano che era un bambino vivace, e sempre quella storia del maturare che io ogni volta pensavo alle mele lasciate sui rami a scaldare dal sole, che poi cadono per terra marce e se le mangiano le vespe. Non ne potevo più di quelle parole, dicevo sempre ad Anna che aveva tutta la vita per maturare, e mi sembrava improbabile che dovesse succedere tutto adesso, che spesso se la fa ancora addosso. Cosa si aspettano da un bambino.
Mentre mi preparo per andare a scuola sono nervoso. Non ci ho messo piede praticamente mai. Anna mi guarda muovendo la testa da su a giù, cercando di focalizzarsi su quello che potrebbero vedere le maestre.
«La maglia. È macchiata, levala.»
Mi guardo, con quella macchia pigra di caffè addosso, e mi sento un po’ coglione, con lei con quella gonna che le arriva fino alle ginocchia, che svolazza mentre cammina da una parte all’altra della casa, a racimolare fogli, documenti, taccuino, chiavi della macchina, mentre le pieghe del tessuto le si infilano tra i passi, lasciando intravedere la forma sottile delle gambe. Mi cambio.

***

Arriviamo a scuola e c’è anche Scheggia. Non sapevo che lo avessero chiamato. Il figlio suo e il mio sono amiconi. Scheggia faceva le elementari con me, pure noi eravamo amiconi. Lo chiamavamo tutti così – Scheggia – perché quando leggeva in classe balbettava e non finiva più, che la maestra si stufava e mandava avanti qualcun altro. Chissà se ci rimaneva male. Quando non era più il suo turno lo sentivo sciogliersi sul banco accanto al mio, scivolando piano piano sulla sedia. Poi respirava a fondo, forse è quello che chiamano “sospiro di sollievo” ma forse non era proprio quello, perché lo faceva piano. Lo sentivo solo io, come se sperasse che gli altri si dimenticassero che occupava quella sedia, quella vicina alla finestra.

Due maestre ci parlano per un’ora, tipo. Sono italiano e matematica. Ci siamo Scheggia, Anna e io. La moglie di Scheggia non c’è, quella non c’è mai, è sempre in giro. Chi la conosce per sentito dire dice che fa la puttana, o è una puttana, che sono cose un po’ diverse. Si parla spesso di lei, ma Scheggia non dice niente. Una volta ho provato a chiedergli se era vero, e lui ha detto che sono tutte stronzate ma dopo ha bevuto più bicchieri del solito, quindi non so. Alla fine avere una moglie che la dà a tutti non è poi così una tragedia ma io c’ho la mentalità aperta. Almeno sarebbe felice, la moglie di Scheggia, ad andare a letto con tutti, e infatti non ha l’aspetto di queste due maestre, che non so manco dire se sono quarantenni o cinquantenni per come sono sciupate dai bambini e dai loro genitori. Hanno la pelle sottile, visi tirati, sono vestite con tanti colori primari che mi sembrano uno dei cartelloni che hanno appeso in classe e nei corridoi. Non pensano per niente bene di Francesco. Dicono che lui e il figlio di Scheggia stanno prendendo una brutta piega, o qualcosa del genere. Ci suggeriscono di non farli più giocare assieme. Che esercitano una cattiva influenza uno sull’altro. Di iscriverli a calcio o qualsiasi cosa li stanchi così in classe rompono meno a loro. E poi ci chiedono cosa fanno nel tempo libero, e Scheggia dice che suo figlio gioca tanto con l’Xbox, che giocano assieme. Le maestre fanno una faccia come disgustata, e dicono con parole gentili (che non c’entrano niente con la loro faccia) che ora i bambini sono in un’età speciale dove imparano tante cose e sarebbe meglio fare insieme attività più costruttive tipo leggere un libro. E poi i tanti videogiochi potrebbero pure quelli incentivare la violenza. Dicono che ai nostri figli basta un nulla per fare a botte, Francesco ha tirato un calcio pure a una di loro. Scheggia si zittisce, e lo sento che si scioglie un po’ sulla sedia, e so che sta pensando che per quella Xbox ci ha buttato mezzo stipendio e col cavolo che non la usa più. A me poi sembrava che giocare alla Xbox fosse anche un bel modo di stare con i figli, ma mi sa che mi sbagliavo. Almeno è divertente. C’è la vena sulla tempia di Anna che si gonfia, forse sarà perché siamo sposati ma giuro che la sento ticchettare, mentre le sue pupille scivolano a destra e sinistra, tracciando una retta tra me e Scheggia, e non so perché ma un po’ mi ricordano le sue gambe che vanno su e giù veloci per il corridoio in cerca delle chiavi della macchina che come al solito sono sempre perse da qualche parte, con il tessuto della gonna che vola senza mai stancarsi. Eccola lì quella gonna, che adesso cade senza vita sulla sedia di legno della scuola statale, mentre lei sta con le gambe tese: seduta ma in punta di piedi perché la mia Anna non ha mai superato il metro e cinquanta, e ora con le punte delle scarpe cerca le piastrelle come se dovesse scappare via. So a cosa sta pensando: che pure Francesco gioca troppo con l’Xbox, ma che quando sta lì è buono per minimo un’ora che si può estendere fino a cinque (ma poi basta eh). Ché lei intanto che lui sta lì può cucinare e pulire e lavorare da casa. E a volte va anche a fare la spesa e lo trova lì dove lo aveva lasciato. E l’ultima volta che gli abbiamo letto un libro non si ricorda nemmeno bene quand’era, mi sa troppo tempo fa, anche se pure il pediatra ci aveva detto che leggere era una bella idea e che invece gli schermi elettronici non lo erano, nemmeno quelli dei telefonini, e nemmeno quello della televisione.
«Be’ certo, a Francesco leggiamo», dico io in aiuto di Anna, appena prima che le pupille le schizzino via dalla testa. Ma le maestre hanno capito che è una bugia, ci tartassano per il resto del colloquio. Intanto sento qualche particella d’aria che mi sfiora la guancia, è il sospiro di Scheggia che grazie alla mia stronzata non è più sotto ai riflettori.

Quando usciamo Anna parla con i denti stretti, che mi sembra pure strano che le parole riescano ad uscire, e la vena sulle tempie vibra ancora, ma un po’ di meno. A me pare carina così, mi pare una furia, e stavolta il tessuto della sua gonna sbatte sulle ginocchia arrabbiato:
«Ma poi è normale che ci fosse anche il tuo amico? E la privacy? Ci hanno fatto firmare tre fogli per la gita, e poi sbandierano i fatti nostri di fronte a tutti?!»
Sto zitto, cerco le chiavi in tasca e intanto mi maledico per aver scelto la macchina nera, ché trovo sempre parcheggio al sole e diventa un inferno. Apro la portiera e mi assale un’ondata di calore letale. Mi giro e vedo Scheggia che si avvia verso la sua utilitaria verde scarabeo, parcheggiata sotto i rami come se dovesse anche quella svolazzare tra le fronde. Alza un braccio salutandomi e mi urla da un lato all’altro del parcheggio:
«A stasera!»
Anche io alzo il braccio e lo saluto, poi entro in macchina. Anna si è già messa sul sedile, bollente, che si scioglie.

***

Scheggia la sera è triste. Fa rigirare nel bicchiere il suo rosso della casa, quello che sa d’aceto e lo devi bere più veloce per non sentire il sapore. Pensa di aver rovinato il figlio a forza di sparatutto che mi fa quasi ridere.
«La violenza dai videogiochi? Davvero ci credi?» gli chiedo.
Annuisce guardando il vino che si rigira nel calice macchiando il vetro (misto piombo) con degli aloni che fanno pensare a un eczema. Non si ricorda mica come eravamo noi, piccoli senza Xbox, e allora dico:
«Te lo racconto io come nasce la violenza, anche se devi darmi un attimo perché è una lunga storia», già quando gli dico così so che ho bevuto troppo. Sento le mie parole trascinate, ma poi quando ho bevuto ancora di più parlo meglio e allora vado avanti, ché tanto Scheggia sembra che tra un po’ cada dentro al bicchiere e non gli interessi molto del resto.
«Da piccoli avevamo un gioco: sasso, carta, forbice. Lo facevi anche tu?»
«Non mi ricordo neanche cosa ho fatto ieri.»
«Be’ noi giocavamo, e a chi perdeva, penitenza, che era la parte più bella, giocavamo solo per quella. Poi avevamo creato delle nuove regole, per rendere le cose più divertenti: la penitenza doveva avere a che fare con il gesto che ci aveva fatto perdere, così toccava pensarla bene. Pensavi anche bene a cosa buttare giù perché alla fine ti fregavi da solo e forse il bello era un po’ quello.

Sasso.
Porta a casa lo zaino pieno di sassi.
Lancia un sasso sulla finestra della casa abbandonata.

Carta.
Scrivi una lettera d’amore a Chiara. Lasciagliela nella cartella.
Scrivi una lettera di addio a tua madre. Lasciagliela nella borsa.

Forbice.
Taglia le ali di una farfalla.
Taglia le gambe di una formica.

E un mio amico, Capo, ci stava incasinando il gioco. Sceglieva sempre sasso, e noi dopo un po’ ci eravamo stufati di vederlo portare i sassi nello zaino o nelle tasche, e allora ci dovevamo inventare cose nuove. Però coi sassi era un casino. Con le forbici ci potevi tagliare un po’ di tutto: io avevo fatto incazzare mia mamma tagliando un pezzo del tappeto del salotto, che ha in soggiorno ancora quel tappeto che gli manca l’angolo. Possibilità infinite no? Anche la carta lasciava possibilità infinite, potevi scrivere parolacce, potevi strappare qualche pagina dai libri della biblioteca, di tutto. Ma con i sassi, non so, e non so perché Capo sceglieva sempre sasso. Sceglieva sempre quello e allora perdeva sempre.

Alla fine Capo sceglie ancora sasso e non sappiamo più che fare, e l’altro mio amico, Vitto, se ne esce con questa: lancia un sasso a Massimo.
Ma te lo ricordi Massimo? I maestri ci dicevano che Massimo era speciale. Aveva una maestra solo per lui. Faceva dei versi brutti al posto delle parole. Non sapeva mangiare da solo e nemmeno pisciare.»
Guardo gli occhi di Scheggia che magari ha capito e mi segue ma mi sembra solo che ora stia cercando la barista, perché il suo bicchiere è vuoto, e non ho capito se mi ascolta davvero, così continuo.
«E insomma il sasso gli prende il naso e gli occhiali. Le lenti si frantumano in tanti piccoli pezzi e cadono a terra, tipo grandine. Il naso di Massimo inizia a sanguinare e continua. Il grembiule blu diventa blu più scuro. Massimo tira fuori la voce e inizia a urlare. E Capo prima di scappare si gira e mi dice “che voce di merda c’ha questo”. E ride.
Corriamo giù per la collinetta prima che arrivino le maestre, anche loro di matematica e italiano, quelle stronze, e facciamo finta che stavamo giocando a calcio.
E te lo dico, io contro questo Massimo non c’avevo niente. Anzi, mi stava anche simpatico, non rompeva mai le palle a nessuno, forse perché non sapeva parlare, ma comunque non le rompeva. Poi ci faceva perdere tempo in classe e allora potevamo fare meno roba. Insomma, un tipo a posto.
Nelle settimane dopo, tutti dicono a tutti quanto è stato grave quel gesto. Le maestre alle classi, il preside all’aula magna, pure gli altri bambini agli altri bambini dicono “che schifo chi ha fatto un gesto così” e qualcuno sputa pure per terra per dire che gli fa veramente schifo, quel gesto. Dicono che Massimo è stato aggredito e bisogna scoprire i colpevoli. Non diciamo niente. I maestri però continuano, perché i genitori di Massimo sono incazzati e parecchio, dico c’hanno ragione in effetti, eh, non è che dico che non ce l’hanno, comunque quel sasso non l’avevo tirato io. In classe ci accusano di omertà, che è una cosa folle per i bambini delle elementari, ma ti rendi conto? allora gli tocca spiegarci cosa vuol dire omertà e poi ci accusano di omertà di nuovo. Ogni giorno parlano di Massimo e dicono che ancora non può tornare, che ha paura ed è tutta colpa nostra.
Dopo un po’ tutti se ne dimenticano, e anche noi vogliamo dimenticare. E alla fine Massimo torna a scuola con gli occhiali con un po’ di scotch sulla stanghetta e tutto torna come prima.
Ma poi a una certa Capo dice: per fortuna che gli abbiamo preso gli occhiali e non la testa.
E ci chiede: ma voi se non urlava continuavate?
E allora noi silenzio, e che si doveva dire?
E Vitto risponde: mi sa di sì, ma non so.
E io rispondo: anche io se non urlava continuavo.
E Capo ci chiede: ma fino a quando avreste continuato?
E io rispondo: tanto. (O forse lo ha detto Vitto, non so).
E Capo chiede: ma fino a quando moriva?
Vitto dice: boh.
Io dico: non so.

Ché poi alla fine l’ho capito perché Capo sceglieva sempre sasso: si sentiva benone dopo che qualcuno gli ordinava di tirarlo. Gli piaceva stare senza sensi di colpa. Ché tanto non lo aveva deciso lui, era solo un gioco, un sasso, solo un pugno chiuso o quel che è.
E forse, ti dico, ancora oggi non lo so. Se Massimo non urlava, se te mi davi un sasso in mano e magari pure se Capo mi incoraggiava, non lo so che avrei fatto…», mi fermo e sento un sorriso che mi brucia agli angoli della bocca mentre sputo le ultime sillabe, «e quindi che cazzo c’entra la Xbox che dicono le maestre?»
«Ma era meglio che c’entrava», fa Scheggia. Sembra che si stia arrotolando su sé stesso come il vortice che continua a formare nel vino. Le gambe sono accavallate, incrociate, le braccia strette sul torso vogliono disegnare una piccola spirale. Persino la testa, storta e ancora chinata sul bicchiere prende parte a quel movimento. Mi guarda, gli occhi verdi scarabeo come la sua macchina, e vuole volare via.
«Che poi io questi due Capo e Vitto non so manco che fine hanno fatto».

***

Torno a casa e trovo Anna che non ha più quella gonna lunga. Ha un pigiama morbido e nonostante sia tardi sta ancora armeggiando in cucina. Mi fa ssh portandosi alla bocca un mestolo, di fare silenzio che Francesco dorme. Sento i miei passi fermi e leggeri, non più cadenzati a ritmo dell’alcol. Ha la pentola in mano, quella scomoda che non usiamo quasi mai ma che per qualche ragione tira sempre giù dall’armadio alto.
«Me la metti via?» chiede, sussurrando, e io prendo lei e la padella e le faccio lievitare su, fino all’anta dell’armadio irraggiungibile. Quando riatterra mi guarda: ora il suo viso è disteso dalla stanchezza ma mi sorride, è felice che io sia qui. Ma io a stare sui suoi occhi mi sento i sassi sul petto:
«Ma è colpa mia se Francesco è così?»
Le parole mi escono di botto, non più fiume come quelle dell’alcol, ma una goccia, quella che era rimasta nel bicchiere.