Le dissi che avremmo lasciato Barcellona e che saremmo andati a vivere da un’altra parte, magari in Italia, o più lontano. Doveva solo dirmi di sì.
«Non me lo puoi chiedere. Io… lo amo ancora».
Pedro era sparito da più di tre mesi. I Mossos parlavano dell’ETA, e della possibilità che fosse stato rapito. Per me era morto, anche lei doveva convincersene.
«Mi ha chiesto di sposarlo, non può essere m…»
Come se una promessa di matrimonio rendesse immuni dalla morte.
«Era un così… È, è! un così…»
Già iniziava a chiamarlo al passato, bene.
«… bravo ragazzo».
Era il 18 giugno 1987.
Vi assicuro che una vita con due voci non è vita. Soprattutto se una vi esce da dentro così come ve l’aspettate, con ampi movimenti della mandibola e delle labbra, mentre l’altra vi sembra lontana, e potrebbe suscitare in un passante lo stesso sguardo rincitrullito di fronte al manichino di un negozio che all’improvviso gli dicesse ciao.
Capii di essere bravo a far parlare le cose fuori da me nell’estate del 1980, a vent’anni. Ma solo quando ne ebbi ventitré smisi di vederla come una maledizione e lo feci diventare il mio negocio. Santiago all’epoca contava poco più di ottantamila abitanti, ottantamila bocche da sfamare. Per arrotondare qualche peseta a Santiago, solo i tonti non sapevano che l’unico modo erano i pellegrini.
E cosa volevano, secondo voi, i pellegrini? Il santo.
E io glielo diedi.
Mi ci vollero quasi tre mesi per costruire un busto credibile di San Giacomo: mantello e libro, spada e bastone, conchiglia, barbetta e scriminatura ai capelli. La testa? Quella la feci staccabile, per l’evenienza. Cominciai allora a esibirmi per strada: tra i miei numeri più ricorrenti c’erano scenette di finte baruffe per il miglior posto in cielo, partite a baraja con Mosè ed Elia sul Tabor, fluorescenze galiziane con Pelagio, spade sguainate e Matamoros! Matamoros! sbraitati nella battaglia di Clavijo.
Accadde così che, in una mia versione particolarmente estatica della pesca miracolosa, Monsignor Varela mi notò. Il vegliardo quasi non svenne per l’emozione e seduta stante mi fece firmare un contratto di un anno con il Santuario. Ogni martedì, giovedì e sabato cominciai a esibirmi nella Sala de Obradoiro, con fiotti e fiotti di pellegrini dai piedi pustolosi e i sorrisi imbecilli che riversavano nelle mie tasche e in quelle di Varela laute offerte in cambio di fervori mistici e fedi ritrovate.
Cosa avrebbe detto allora mio padre, se mi avesse scovato in mezzo ai preti? «Il mondo si divide in due gruppi» mi diceva quando ero piccolo, «quelli che si prendono quello che vogliono e quelli che sono troppo deboli per farlo». A quest’ultima categoria, quella dei perdenti, facevano parte secondo lui i cosiddetti buoni – «Non esistono i buoni, ricordatelo» – gli indipendentisti, i democratici e i preti. E dopo il 23 febbraio 1979, quando lo condannarono a trent’anni assieme al suo amico Tejero e a sedici compari della Guardia Civil, mentre ululava il suo ultimo ¡Quieto todo el mundo! ¡Quieto todo el mundo!, pensai a mia madre, e a come fosse strano che si fossero amati. Lei era debole. Lei era buona. Ma lui non l’accusò mai di nulla. Forse se sei donna puoi anche permetterti di essere buona. E nel dicembre dello stesso anno, quando mia madre morì lasciando solo al mondo il suo unico figlio, nel campo di battaglia della mia mente la voce di mio padre fu così forte da prendersi quello che voleva; l’altra invece se ne andò per sempre, con la donna a cui era appartenuta.
Non esistono i buoni, ricordatelo.
Passò poco, e da quella sola voce iniziarono a uscirne due.
Presto la mia fama come doppiatore di San Giacomo si diffuse in tutta la Galizia e nell’ambiente cattolico spagnolo. Neanche un anno dopo lasciai per sempre Santiago e iniziai a vivere da itinerante: Pontevedra, Valladolid, Siviglia, Madrid. Fu l’idea di un prete di Vigo quella di battezzarmi “Boanērghēs”, Figlio del tuono, il nome che Cristo aveva affibbiato al mio pescatore galileo preferito.
Un giorno, proprio quando meno me l’aspettavo, conobbi il bravo ragazzo. Per qualche tempo credetti fosse stato proprio mio padre a mandarmelo. Questa figura mitologica si materializzò al telefono un caldo pomeriggio di aprile nella voce di Pedro Pereira. Aveva un timbro flautato e languido da salmo domenicale, prono alla volontà divina fino alle più piccole oscillazioni. I suoi lunghi capelli, che avrei ammirato in realtà solo più avanti, lambivano dolcemente le guance asciutte e glabre, frusciavano nel vento con naturalezza. Era nato a Bilbao, Pedro, e fin da giovanissimo si era iscritto al Partito Nazionalista Basco (PNV, PNV!, quante volte avrei visto quella dannata scritta). Da qualche anno studiava filosofia a Barcellona, dove viveva la sua vita santa da focoso cattolico. Non molto dopo, nei momenti in cui davanti a me avrebbe rievocato il sogno indipendentista dei suoi Euskadi, la voce cherubinea avrebbe virato verso le regioni baritonali, ostentando una saccenza non violenta da difenderò fino alla morte quello che dici, ma io comunque ne so più di te.
Per festeggiare i sette anni dallo Statuto di Guernica, quel giugno del 1986 Pedro mi invitò a Bilbao per tenere un’esibizione a quattro voci. Oltre alla mia e a quella del mio fedele canonizzato, feci scendere in campo due fantocci molto realistici del Generalissimo e di Carlos Garaikoetxea con una sfavillante divisa rossa dell’Ertzaintza e un altrettanto rosso basco. Tutta l’aula magna della Sabin Etxea esplose in un’ovazione nel climax finale in cui San Giacomo (sorretto dal mio braccio destro) benedisse il Garaikoetxea in cartapesta (nel sinistro) e lo invitò a prendere a calci un timido Generalissimo che, comparso a destra dopo una rapida dissolvenza del Santo, si ritrovò con me a darsela a gambe biascicando inutili lamentele, proprio mentre l’ex presidente del Consiglio Generale Basco infuocava le sue chiappe di stoffa con sonore pedate.
«Ci prenderemo gli Euskadi, Boanērghēs. Vedrai» mi disse Pereira quella notte alla fine dello spettacolo.
«Questo non ci voleva, Boanērghēs» continuò a dirmi meno di un mese dopo su un treno per Barcellona. Il 14 luglio l’ETA aveva fatto esplodere un’autobomba a Madrid. Dodici agenti della Guardia Civil morti. «No… con la violenza non andiamo da nessuna parte, no. Ora ce li avremo tutti contro, sta un po’ a vedere».
Quegli avvenimenti a essere onesto mi tangevano ben poco. Badavo solo al mio negocio io, e a poco altro. Il 29 luglio, festa del mio amato San Giacomo, ero già infatti a esibirmi nel salone della Iglesia de San Jaime. A invitarmi era stata Clara Morales, ragazza di Pedro e catechista nella parrocchia. Se avessi chiesto a mio padre di pensare a un inferno sulla terra, credo sarebbe stato come quella platea di bravi ragazzi e ragazze. A tutti loro con solennità il mio Boanērghēs dispensò una serie di consigli pronti all’uso per la salvezza eterna. Pedro e Clara in prima fila sorridevano, e a farlo era anche l’uomo che sarebbe diventato il mio futuro datore di lavoro: Salvador Gallego, rettore dell’Institut del Teatre e per fortuna cattolico. Alla fine dello spettacolo si trascinò verso di me con le sue gambettine tozze, i baffetti ricurvi e quella che immaginavo una voce megafonica da sala d’attesa. Mi offrì una posizione da assistente al corso di Burattineria e Ventriloquia. Fu così che mi trasferii a Barcellona.
Andai a vivere in casa di Pedro in una stanzetta che, da sistemazione di un paio di settimane, divenne presto definitiva. In casa eravamo solo noi due, e molto spesso Clara veniva a trovarci.
Clara e Pedro si erano conosciuti anni prima a un corso per fidanzati cattolici nella cattolica Iglesia de San Jaime. Clara, barcelonina di nascita, era cresciuta all’ombra della chiesa. Era la tipica ragazza che immaginereste bene nell’iconografia di una vergine martire: capelli castani schiariti dal sole della beatitudine, sottili lineamenti di un viso pronto all’immolazione, labbra contratte di chi è risoluto nell’offrirsi a Dio. Lavorava ormai da anni in un’erboristeria nel centro commerciale Hipercor, nel quartiere di Sant Andreu. L’unico suo desiderio era quello di sposarsi e avere dei figli il prima possibile.
Ogni dieci, quindici giorni Pedro andava a Bilbao per le riunioni organizzative del PNV e, di volta in volta, ne tornava più sconfortato e deluso. Un giorno sbottò dicendo che con l’ingresso nella Comunità Europea e la nuova guida di Arzalluz al PNV – «Un viscido, senza spina dorsale!» – l’indipendenza era un sogno sempre più remoto. Ma era certo che Dio avrebbe trovato la via per liberare il suo popolo oppresso: la trovava sempre.
Una sera di ottobre Clara passò da casa quando Pedro era nei Paesi Baschi, e si fermò a cena. I suoi occhi emanavano una sfumatura viola che si intonava perfettamente con la voce calma, superficie senza increspature di un oceano profondo. E dopo una bottiglia di Cigales, senza che ne compresi bene il motivo, il neon sfarfallante e il puzzo di insetticida all’angolo della cucina riorientarono le mie percezioni, rivelandomi che ero attratto da Clara. Aveva da poco finito di dirmi che Pedro qualche mese prima le aveva chiesto di sposarla, e lei quasi strozzandosi per la felicità aveva accettato.
«Ottobre dell’anno prossimo» ribadì. «Un anno esatto».
Pereira rientrava senz’altro nei canoni del fidanzato perfetto ma, nonostante tutto, negli ultimi tempi era sempre più assente. Scoprii che per sedurre Clara era sufficiente stare ad ascoltarla, perché il filosofo basco con manie indipendentiste non lo faceva spesso.
In breve: finimmo in camera mia. Capitò per caso? No, fui io a volerlo e lei non si oppose. Ci stendemmo sul letto che in quei mesi aveva conosciuto la solitudine, e la baciai. Tra una risata di vino e l’altra la spogliai lentamente. Nudi, sdraiati su un fianco con la testa sull’unico cuscino, ci guardavamo. Le coprii una guancia con il mio palmo, e notai ancora il riflesso viola nei suoi occhi. Fu come se la sua voce riecheggiasse in me e le tre voci diventassero una. Fece per parlare, ma la interruppi.
«A, golfi d’ombra» e con il polpastrello le accarezzai l’ombelico. Lei sorrise. «E, lance di fieri ghiacciai, bianchi re» e le sfiorai i denti. «I, risata di belle labbra» e con le sue labbra mi inumidii l’indice. Poi le accarezzai una mano e la guidai sulla mia fronte. «U, pace di rughe che l’alchimia imprime nelle ampie fronti». Mi avvicinai, i nostri occhi adesso erano a pochi centimetri. «O» bisbigliai, «raggio viola dei suoi occhi».
Quella notte Clara perse la sua verginità e io, lo ammetto, mi sentii in colpa. Solo dopo mi disse che per quello aveva pensato di aspettare il matrimonio con il suo Pedrito. Ma non fu così. E non riuscii mai a capire perché di fronte al mio debole invito lei avesse ceduto così facilmente.
Da quella sera iniziammo a incontrarci spesso. Passavo all’erboristeria o lei veniva alle mie lezioni all’Institut del Teatre. I weekend in cui Pedro era a Bilbao ci concedevamo lunghe passeggiate a Parc Güell o a Parc del Guinardo, nei meandri del Barrio Gótico o a Barceloneta, sulla spiaggia. Chi ci conosceva, incontrandoci non aveva alcun dubbio su di noi: lei era la catechista e io il coinquilino del suo futuro marito, Pereira; c’era senz’altro un motivo se ci trovavamo insieme. Un innocente motivo.
In quei mesi non osai mai chiedere a Clara cosa fossi io per lei. Conoscevo la risposta, e per me non poteva essere nulla di buono. Celai il mio amore fino all’ultimo; un tacito accordo voleva che i nostri incontri fossero solo quelli di due corpi, nient’altro.
Pedro, dal canto suo, sembrava sempre più inquieto. A fine anno il blocco socialdemocratico si era scisso dal PNV e questo, secondo lui, avrebbe portato in breve alla morte del partito. La sua voce era molto lontana da quella che non molti mesi prima aveva esultato per le mie sculacciate al Caudillo.
L’inizio della fine fu una sera del marzo 1987. Gli bastò cogliere uno sguardo di intesa che Clara mi aveva lanciato a tavola e comprese tutto. Lo vidi alzarsi di scatto, corrucciarsi in volto e guardarmi come forse Cristo aveva fatto con Pietro dopo il rinnegamento. Si preparò a scagliarmi un pugno e non opposi resistenza. Le sue cinque dita richiuse tremavano paurosamente a un nulla dalla mia faccia. Poi si ritrasse e, in lacrime, uscì di casa.
I bravi ragazzi non picchiano, al massimo piangono.
Da quel giorno Pedro scomparve. Nessuno della sua famiglia, dei suoi colleghi d’università, dei suoi compagni di partito aveva avuto notizie di lui. Denunciammo la scomparsa alla Guardia Civil, ai Mossos d’Esquadra e all’Ertaintza, e per settimane non ottenemmo risposta. Clara, ovviamente, non disse mai a nessuno del modo in cui se n’era andato.
Dopo tre mesi iniziai a credere che Pedro fosse morto e mi ritrovai a gioirne. Mi dissi che non lo avrei mai detto a Clara, ma la sera del 18 giugno mi feci avanti.
«Andiamo via da qui. In Italia o più lontano. Farò tutto io. Devi solo dirmi di sì».
«Non me lo puoi chiedere. Io… io lo amo ancora».
«Pedro è morto, Clara».
«Mi ha chiesto di sposarlo. Non può essere m…» disse lei, con aria ebete.
Che non fosse morto lo scoprii solo dopo.
La mattina del 19 comprai due biglietti di sola andata per Firenze per me e Clara. Pranzai rapidamente. Poco prima delle quattro ero già in strada e avanzavo a passo spedito verso l’erboristeria, verso la donna che amavo, e per la prima volta glielo avrei detto: ti amo, voglio stare con te, andiamo via da qui. Non era ancora finito giugno e già c’erano più di trenta gradi, e il sole battente cominciò a farmi sudare la fronte e le ascelle.
Poco prima di giungere all’Hipercor mi capitò di ripensare all’afa dei miei primi spettacoli sotto il sole di Santiago. Rividi l’esordio al Santuario, i tour per la Spagna, il battesimo come Boanērghēs e Pedro Pereira a Bilbao, l’arrivo a Barcellona e la prima volta che avevo incontrato Clara. Sussurri musicali delle persone di una vita mi si riversarono in testa come una melodia polifonica. Man mano che avanzavo verso l’Hipercor e la voce fuori da me ripeteva il discorso che avrei fatto a Clara, le voci dentro cominciarono a deturparsi, contorcersi, trasformarsi prima in lamenti soffusi, poi sempre più acuti, poi in urla, fastidiose, laceranti, che premevano nel mio cranio per uscire, fin quando fui schiacciato da un peso insostenibile e caddi a terra, a pochi metri dalla porta d’ingresso.
Fu in quel momento che sentii un’esplosione violenta dentro l’Hipercor. Udii urla, urla vere, e vidi nuvoloni densi di fumo liberarsi dalle porte e fiumi di persone scappare fuori, inseguite dal fuoco e dalle sirene d’allarme. Con la schiena incollata all’asfalto assistevo inerme a quello spettacolo, mentre il rosso delle fiamme che baluginava alle finestre adesso mi colorava gli occhi.
Pensai all’ETA, e a quando Pedro mi disse che con la violenza non avrebbero mai ottenuto nulla.
Ottiene quello che vuole chi è troppo debole per farlo.
Solo qualche settimana dopo, i Mossos trovarono nella stanza di Clara una lettera breve, scritta con ritagli di giornale.