“My batteries are full. I am completely satisfied and I am ready to go.”
Una voce femminile dal tono robotico eppure non privo di una certa malizia annuncia che la carica delle batterie è andata a buon fine, ammiccando a un’idea postmoderna di appagamento sessuale. Non è Siri, non è Alexa. È una qualunque tra la folla di pupe senza volto che popolano l’home tech. Una a cui non è stato dato l’onore di un nome, ma che ha ricevuto dai suoi padri ingegneri il dono dell’ironia.
Nina irrigidisce leggermente le spalle nel ricevere l’informazione, fa sempre effetto sentire un elettrodomestico, sexy o no, comunicare il proprio stato emotivo. Prende il cavo della radio in questione e lo stacca dalla presa con la mano ancora infilata nel guanto da forno.
Poi torna a ispezionare la focaccia, che quella non avverte se si brucia. L’alito incandescente del forno a 220 gradi la investe, con gli occhi socchiusi per il calore appoggia la teglia sul piano dei fornelli. Il vapore ne nasconde parzialmente la vista, poi la nebbia si dirada sul soffice rettangolo ed emerge il rosso dei pomodorini ben arrostiti, affondati nella nuvola di lievito e patate. Con una spatola Nina palpa la superficie tosta ma elastica. Niente male. Quasi come quella di nonna Adele.
Ancora un’interruzione di tipo elettronico, questa volta è gradita. Il nome di Giovanni si illumina sul display e anche il sistema nervoso di Nina si accende, rispondendo agli impulsi cerebrali attivati dalla vista delle otto lettere in questione.
«Oi.»
«Oi. Finito il meeting?»
«Sì.»
Ha la voce cavernosa di chi non ha metabolizzato il jet lag e Nina, grazie alla doppietta di monosillabi, non ha bisogno di sentire altro per sapere che Giovanni è a disagio.
«Tutto ok?»
«Siamo… L’ufficio. È al sessantanovesimo piano di un grattacielo.»
Ora le è anche chiaro come i fiori di Bach che è riuscita a infilargli nel beauty siano come la ninnananna di un carillon nel mezzo di una discoteca. Perfettamente inutili a placare la sua fobia delle altezze.
«In realtà ti chiamavo per altro… Purtroppo perderò il volo. Mi mettono sul prossimo domani alla stessa ora. L’amministratore non si è ancora presentato e si parla di rinviare. Scusa se non ti ho avvertita prima… il fuso orario mi ha completamente sballato.»
«Cavolo, mi dispiace. Gli altri li chiamo io e riorganizziamo per la prossima settimana.»
«No, ho già confermato con tutti. Ci sei tu, sono contenti di venire. Divertiti anche per me.»
«No ma aspetta.»
«Ecco, ci fanno entrare. Salutami tutti stasera, ti amo.»
Nina rimane col telefono nel guantone trapuntato. Apre il frigo sovrappensiero: peperoni, fiori di zucca, il tappo dorato dello champagne che fa capolino dietro all’involucro bianco del pescivendolo con dentro gli scampi. Uno di loro, in bilico tra vita e morte, ha squarciato uno spiraglio di carta con le chele. Strabuzza gli occhi a spillo e Nina gli restituisce uno sguardo sconsolato.
Otto persone a cena, tutti amici di Giovanni. E deve badare a Lorenzo, il figlio che ha avuto dall’ex moglie. Di certo il problema minore, pensa Nina gettando un’occhiata furtiva al novenne arruffato che colora sul divano.
Si sfila il guantone e attraversa il salotto, una stanza che le è ancora estranea nonostante i sei mesi di convivenza, poi si avvicina circospetta a Lorenzo. Si abbassa quasi carponi e gli poggia le mani sulle ginocchia.
«Lore, era papà al telefono. Purtroppo può raggiungerci solo domani.»
Lui poggia l’album accanto a sé, la guarda.
«Lo so, ho sentito» dice. Un rimprovero paziente, giusto una precisazione rispettosa riguardo al suo grado di comprensione.
A Nina viene da sorridere, abbassa lo sguardo sul quaderno a quadretti pieno di figure geometriche concatenate, riempite di colori diversi.
«Che bello. È un mandala?»
«No, è una griglia di cerchi sovrapposti. Per imparare i colori secondari» precisa lui, compito e con una punta di orgoglio.
È un ragazzino riservato e lui e Nina stanno bene insieme. I loro silenzi, di natura e densità differente, si intersecano senza imbarazzi.
Nina si tira su, indietreggia uscendo dalla bolla di concentrazione che avvolge Lorenzo e torna in cucina. È sollevata dall’assenza di compiti di matematica. Era già capitato durante una trasferta di Giovanni che Lorenzo le sottoponesse un problema di geometria. Un quesito elementare per un adulto numericamente normodotato, ma che per lei corrispondeva proprio al significato comune del sostantivo: era cioè un problema.
Il pomeriggio allunga le ombre in giardino, e Nina prepara pietanze a ritmo febbrile.
Immagina gli ospiti interrogarsi l’un l’altro sulla serata. Giulia che guarda Stefano con i suoi begli occhi truccati, e dice qualcosa del tipo “certo andiamo per educazione, ormai abbiamo accettato. Ma quella già è impacciata con Giovanni, da sola sarà come un soprammobile.”
Cerca di razionalizzare; no, sono solo paturnie, gli amici di Giovanni sono calorosi, colti, pieni di umanità e interessi. Le sue sono paranoie meschine su persone squisite. E via a grattugiare scorza di limone, a sminuzzare cipolle. Periodicamente però – di nuovo in preda al malessere – butta un occhio al telefono, sperando in un messaggio che annunci l’arrivo di Giovanni.
Alla fine è il cordless a squillare, ma è Giulia. Dice che ci saranno, che non vede l’ora, che Giovanni le ha tanto parlato della sua bravura ai fornelli. Ah – dice – a proposito: Stefano è intollerante al latte.
«Sì, ricordo, ma grazie per il reminder!» chioccia lei, e mentre monta la panna per il semifreddo si fa un appunto mentale: comprare delle frappe.
Finché ha le mani occupate Nina è salva. È così da sempre. La sua indole ermetica, che nasconde caverne blindate dove rintanarsi, e fortezze inespugnabili in cui custodire i pensieri, è levigata dalle trasformazioni alchemiche della cucina e – seppure in segreto – Nina si lascia andare. Si fida dei processi che tramutano la materia in energia, combinazioni collaudate di acqua, tecnica e calore. Quella materia alimentare, così compatta, profana nelle sue essenze farinose, fatta di bucce, semi, fibre animali, diventa altro e subito viene sorbita dal corpo e dai suoi meccanismi. Non costruisce nulla, non è come un design che diventa obsoleto, non è un testo che rimane stampato anche quando lo si vorrebbe rinnegare. Questo la rassicura. Si sente anche lei così: effimera, informe tra uno stato d’animo e l’altro.
Erano state le mani a metterla nei guai da adolescente. Jacopo le aveva detto che c’era del lavoro per lei al “laboratorio”, che avrebbe giusto dovuto impastare delle sostanze.
«Vedrai che ci prendi la mano, sei svelta tu.» E poi in fondo, aveva detto ghignando, non era un po’ quello che già faceva tutte le domeniche con le femmine di casa?
E allora venisse a faticare un po’ anche con i maschi, che lì c’era bisogno.
Jacopino – cugino avvenente e sogno prepuberale di tutte le sue amiche – aveva bisogno di lei? Rispondere alla sua chiamata era un dovere e un onore.
Stette poche settimane in quello scantinato, e in effetti usò molto le mani: c’era da tagliare una pasta gessosa, pesarla, aggiungere altre polveri. Ne venivano fuori mattoncini bianchi racchiusi in un cellophan opaco che Jacopino distribuiva a suoi amici meno belli e più dannati di lui. Jacopo però la proteggeva sempre, la lusingava: Brava Rosì, ce ne fossero di più di donne come te! D’altronde quando lo presero non fece mai il suo nome, in paese l’omertà era un valore rispettato. Ne uscì pulita Nina, ancora Rosina all’epoca. Pulita ma con un odore sgradevole sulle mani, una scia penetrante che sapeva di chimico. Più del disinfettante che impregnava le pareti dell’ospedale dove giaceva nonna Adele, quando venne a salutarla un’ultima volta. Le disse solo «Apri la finestra per cortesia Rosì» e subito dopo non era più con lei. Spirò così, senza tante cerimonie e con l’odore di fenaticina nelle narici ancora attente.
Poi Nina era stata mandata “al Nord”, a finire le superiori in un liceo romano.
Lì si era disfatta del suo nome di nascita, Rosanna. Odorava dell’acqua di rose di una zitella di campagna, era come un inutile centrotavola all’uncinetto, lo odiava.
Al laboratorio non pensava mai. Ora sapeva cosa c’era nelle confezioni bianche, almeno in percentuale, ma credeva in una damnatio memoriae pura e distillava con cura i ricordi consentiti da quelli da ignorare.
Succedeva a volte che qualcuno la scrutasse a occhi socchiusi. Somigli a qualcuno tu… Ma sì, sei la sosia di una ragazza che… e allora Nina trasaliva, tentando di riconoscere in chi parlava i segni inconfondibili di un passato comune: qualche brutta cicatrice, l’iride ingiallita dei suoi colleghi di scantinato.
No, ci sono forse altre Nine nel mondo, alter ego più reali e meno informi di lei che vaga tra le cose senza mai assegnarsi un ruolo, senza prendersi merito né responsabilità. Nulla le appartiene. È per questo che vede una sorta di purezza negli ingredienti che le passano tra le mani per diventare altro e poi consumarsi, senza alcun lascito delle sue azioni.
Un colpo sordo la scuote dalla trance, ma è solo Lorenzo che palleggia al canestro in giardino. Lo guarda e vede pezzetti di Giovanni: il naso allungato come le estremità affusolate, l’abitudine inconscia di sfiorarsi la nuca. Ha un moto di tenerezza per i due uomini che l’hanno accolta in un bozzolo di semplicità ed equilibrio maschile. Lorenzo se ne accorge e si gira di scatto, lei si vergogna e rifugia gli occhi sulle fragole che sta tagliando.
Le prime venature di rosa si stagliano dietro la sagoma in controluce del banano, è una bella serata e Nina apparecchia il tavolo in veranda.
Giovanni le ha scritto poco fa: «Beati i miei amici che cenano con te!» è una carezza di incoraggiamento al suo ego recalcitrante, la conosce bene.
Ora che ha preparato tutto può andare a comprare le frappe per Stefano. Calza le sneakers che ha lasciato all’ingresso e avverte Lorenzo, che intanto è passato ai cartoni animati.
Per strada c’è un albero di mimosa quasi infestante, coi rami che spandono dappertutto pallini gialli e profumo. Nina si guarda intorno e ne strappa qualche ramoscello laterale: saranno adorabili sulla tavola, anche se la fanno starnutire.
Attraversa la strada, per raggiungere il forno deve passare davanti al lavoro: la libreria dove lei e Giovanni si sono incontrati. Lui cercava qualcosa per Lorenzo, lei gli ha consigliato “La ribellione dei granchi pirati”, un’avventura a illustrazioni curata da una compaesana, che le ricordava il mare e le cose belle di casa. Oggi c’è Anna alla cassa, le due si scambiano un saluto attraverso la vetrina.
Il forno è sfornito a fine giornata, ma Nina si aggiudica l’ultimo vassoio di frappe e ripercorre il tragitto verso l’appartamento di Giovanni a passo sostenuto. Gli ospiti saranno lì a momenti.
La porta del palazzo è aperta, così Nina attraversa l’atrio e inserisce direttamente le chiavi nel portoncino di casa. Non girano, non entrano neanche nella serratura. Non ricorda di aver dato alcuna mandata prima di uscire, allora suona il campanello. Nulla.
«Lorenzo…? LORENZO?» Adesso sta proprio forzando, fa pressione con la chiave sul buco di entrata, poi ne osserva la forma sul palmo della mano. È diversa in modo ridicolo, non può combaciare. Estrae a fatica il telefono dal buio della borsa e chiama il numero fisso. Squilla, ma attraverso la porta non si sentono rumori. Arriva a poggiare l’orecchio sul legno freddo, ma non sente voci né suonerie. Poi un bip: il suo cellulare che muore.
Si precipita sul retro del palazzo e si arrampica goffamente sul muretto di tufo che racchiude il giardino. Ha sempre dubitato della sicurezza del piano terra. Si graffia un po’ ma riesce a emergere dal bordo e a schiacciare la faccia contro la rete metallica che sovrasta il muretto. Per un nitido istante riesce ad apprezzare la componente comica della situazione: lei, alta un metro e sessanta, aggrappata al muretto con i piedi penzoloni e le frappe nella tasca del trench.
Poi li vede. Ci sono tutti. La tavola che lei ha apparecchiato è ora gremita di persone che sorridono, si passano condimenti e pezzi di focaccia, si parlano un po’ l’uno sull’altro. È un banchetto ben riuscito, si vede dalla piega godereccia della bocca di Claudio che si serve un involtino di sarde impanate direttamente dal piatto di portata.
I coperti sono precisi, forse Nina ha dimenticato di apparecchiare per sé. Questo dettaglio la disturba, ma non più dell’arrivo di Sabrina dalla cucina. È raggiante nel grembiule del Gambero Rosso che Giovanni ha regalato a Nina, il busto snello quasi scompare, nascosto dalla padella di ferro che sorregge una collina di spaghetti allo scoglio. A Nina pare di poter zoomare su ogni particolare, ed è di nuovo lo scampo arancione ad attrarla: ora riposa in cima alla pasta e i suoi occhi sono lessi. Sabrina avanza e gli altri fanno posto sul tavolo così che lei possa appoggiare la pasta. «Sabri, che spettacolo!» Stefano fa partire un applauso seguito da fischi da parte di Giulia.
Ora sarebbe facile farsi notare, il giardino non è immenso e Lorenzo, che è seduto a capotavola rivolto verso di lei, la vedrebbe subito se lo chiamasse. Invece Nina si cala piano piano all’indietro sul marciapiede. Le gira un po’ la testa. Ha ancora in tasca quella chiave irriconoscibile. Per qualche minuto, come l’alone del sole che rimane dietro alle palpebre quando lo si guarda un secondo di troppo, ha dietro agli occhi solo la griglia di cerchi sovrapposti disegnata da Lorenzo.
Immagina una schiera di mondi paralleli, ognuno contenente una riproduzione della realtà, e vede sé stessa come molecola finita per accidente in un’intersezione tra due dimensioni, incapace di tornare all’universo assegnato. Torna davanti al cancello, stavolta si attacca al citofono e le casca l’occhio sull’etichetta plastificata corrispondente all’interno 2. L’aveva cambiata Giovanni inserendo anche il breve cognome di lei vicino al suo più complicato. Almeno così ricorda Nina, ma fissando il cartellino bianco nella plastica opaca del pulsante Nina si dice, con poca convinzione, che è la confusione a sabotarle la memoria.
Dal giardino nessuno si alza ad aprire.
Poi arriva il portiere dello stabile, attraversa la strada e imbocca il vialetto. Ha già un piede nell’atrio quando Nina lo saluta: «Buonasera!» così lei non capisce se non l’ha sentita, o se non la riconosce.
Allo sportello della stazione il bancomat non le funziona, nessuna carta le funziona.
Nina paga in contanti e sceglie un Intercity sgangherato, di quelli senza prese di corrente per il telefono né aria condizionata.
Prende posto sul primo vagone puzzolente e le sale in testa una sensazione di vuoto d’aria, di decollo.
Quando si risveglia non sa quanto tempo è passato, ma fuori è buio e, al di là delle campagne brulle, punteggiate di covoni e cascine sgarrupate, c’è il mare.
Ha le mani indolenzite e le orecchie tappate dalle gallerie che il treno deve aver attraversato. Il naso però le funziona ancora, e quando apre il sacchetto macchiato di fritto lo zucchero a velo delle frappe la inebria. Non mangia dal mattino.
Raddrizza un poco la schiena sul sedile e addenta uno dei rettangoli friabili. Domani andrà al mare.