La ragazza con il vestito a fiori
Le vecchie case dei pescatori hanno i balconi che sorridono al mare. Al tramonto il vento deposita un sottile velo di sabbia sui denti di metallo delle ringhiere. La ragazza con il vestito a fiori lo sente anche tra i suoi. La sera prima aveva preso la macchina e sua figlia. Ho bisogno di vedere il mare, le aveva detto. Arrivata al suo mare di bambina si era stupita fosse ancora lì, dove lo aveva lasciato. In quel mare erano entrate, avevano camminato senza nuotare fino al punto in cui la figlia poteva sentire ancora la sabbia sotto i piedi e la madre dentro i ricordi.
La ragazza con il vestito a fiori aveva iscritto la figlia a dieci lezioni di acquaticità, voleva che prendesse confidenza con l’elemento liquido, che imparasse a stare a galla. L’aveva fatto di fretta, prima ancora che la figlia imparasse a parlare: ne andava della sua sopravvivenza, come se avessero dovuto imbarcarsi a breve, per un lungo viaggio in nave, e volesse essere sicura che, in caso di naufragio, si sarebbe salvata.
Suo padre
Una piccola barchetta galleggia nella darsena di Chioggia, ai murazzi, vicino alla diga. È una barca a motore in vetroresina bianca, con un piccolo divanetto dietro la plancia dove sedersi. Non è una barca sulla quale è possibile navigare in compagnia. È di suo padre. E a lui piace starci solo.
Quando suo padre è triste prende la barchetta e la porta in laguna, inchioda i suoi dolori a una briccola e li lascia lì per il tempo necessario che diventino acqua, legno, vento. Quando suo padre è contento prende la barca in vetroresina bianca, accende il motore, la porta in mare, getta l’ancora e lascia che il mare gli porti il pesce che gli serve per tornare a casa, felice.
Sua madre
Sua madre non sa nuotare. Non ha mai imparato. Hanno tentato più volte di insegnarle, quanto meno a galleggiare, senza mai riuscirci. Ciò nonostante è sempre salita sulle barche con la sicurezza che mostrano i marinai navigati. Quando tutto ha avuto un nome, quando la sua malattia ha avuto un nome, è stato chiaro che avevano confuso il suo coraggio con la speranza di naufragare.
Al mare, il cibo nei loro piatti sapeva di sabbia e alghe insieme, c’era l’odore del ritorno, quello che si sente quando le vacanze stanno per finire e non è dato sapere quando ce ne saranno altre. Diceva, sua madre, “finalmente torniamo”, ma non era mai partita. Era sempre stata a metà, sua madre. Un po’ presente, un po’ assente. Le sarebbe piaciuto divertirsi.
Caroman
Alla spiaggia di Caroman, la ragazza con il vestito a fiori andava quando i suoi genitori dovevano ricordarle il significato di essere fortunata. C’era una colonia estiva per bambini con problemi di salute. Li ricordava con le gambe magre, rachitiche, che uscivano dai pantaloncini rossi e si confondevano con le canne di bambù; avevano le spalle curve, le scapole della schiena spingevano in fuori così tanto da sembrare aironi dalle ali spezzate. Da allora, aveva sempre pensato che alcuni animali incarnassero l’incapacità dell’uomo di sopportare le malattie e se ne facessero carico.
A Caroman una porzione di spiaggia era occupata da piccole tende beige, triangolari, ritagli di lenzuola lise che dovevano proteggere i bambini malati dal sole. Le suore della colonia annodavano un angolo di tessuto alla punta delle canne di bambù, alte più di un metro piantate nella sabbia, le altre due estremità venivano appoggiate a terra e fermate da grosse pietre prese dalla diga di Pellestrina. I bambini si stendevano a riposare all’ombra, nelle prime ore del pomeriggio; appena si addormentavano, gli aironi si alzavano in volo.
A Caroman sarebbero tornati ogni estate, per molti anni, in ognuno dei quali, la ragazza con il vestito a fiori si sarebbe sentita sempre meno fortunata. Non smise mai di cercare l’animale che potesse personificare la malattia di sua madre, e guarirla. Non smise mai, fino a quando le tende non scomparvero dalla spiaggia.