In scadenza

Quella volta ne era sicura: toccava a lei.
Si guardò di sfuggita nello specchio mentre si sfilava i guanti di lattice. La sfumatura color cartone della sua pelle la fece rabbrividire. Aveva paura. Del resto non era uno scherzo, essere in scadenza.
Con un gesto calcolato lasciò cadere a terra il camice bianco di TNT, poi cercò di spingerlo in un angolo con un calcio, ma quello non si lasciava spostare, anzi, più lei lo aggrediva, più il camice le avviluppava i piedi.
Si accorse che stava sudando: grasse, abbondanti gocce di sudore le cadevano dalla punta del naso. E anche questo non andava bene. Si raddrizzò e lasciò perdere il camice, tanto non sarebbe più tornata in quel posto. Fece due passi verso la porta.
Ma se invece si fosse sbagliata?
Era il caso di fare un’ultima prova. Aprì un’anta dell’armadietto chiuso a chiave, quello che conteneva i disinfettanti utilizzati per medicare le ferite. Svitò il tappo di una boccetta, poi se la portò alle narici, inspirò profondamente. Niente, non sentiva niente. Era quello il segno: era di sicuro in scadenza.
Quindi era ora di andare.
Infilò il cappotto, poi uscì con circospezione nel lungo corridoio verde. Si guardò intorno: nessuno. Si chiuse la porta alle spalle e si accorse di avere lasciato le chiavi all’interno. Comunque, quelle chiavi non le avrebbe più usate.
Si incamminò con lentezza lungo la corsia del reparto, cercando di esibire un’aria tranquilla, da scolaretta in vacanza. Dalle camere alla sua destra, quelle degli U, le arrivavano i tintinnii dei cucchiaini, le voci morbide, le luci velate, il chiacchiericcio rilassato dei parenti, le musichette dei gingle pubblicitari. Ma dalle camere dei B, a sinistra, tutte immerse nell’oscurità, non provenivano altro che rantoli e grida spezzate. E nessuno che rispondesse ai richiami dei campanelli, tutti accesi, uno sopra ogni porta. Le infermiere come lei avevano istruzioni ben precise: non entrare nelle stanze dei Bot più di una volta al giorno. Per lo Stato era più vantaggioso rottamarli piuttosto che sprecare forze e denaro per recuperarli, anche quando i loro malanni erano lievi.
Arrivò all’ascensore e si appoggiò esausta alla parete, tenendosi lontana dalla tromba delle scale. Quei settantotto piani le avevano sempre dato le vertigini. Quando ricominciò a muoversi, le giunture delle ginocchia emisero uno scricchiolio sinistro, altro pessimo segnale, e per un attimo vide tutto nero. Qualcosa si stava guastando, e in fretta anche. Era già in fase avanzata: doveva affrettarsi verso il più vicino ufficio rottamazione, altrimenti sarebbe stramazzata lì, e ci avrebbero pensato i suoi colleghi. Non voleva che la toccassero.
La porta dell’ascensore si aprì. All’interno c’erano altre infermiere, sfinite dopo un doppio turno in corsia, dalle sei alle diciotto. Eppure bisognava pur farlo quel lavoro, erano state riconvertite per quello, non esisteva alternativa.
Si domandò se fosse il caso di avvisare… Febbrilmente compulsò la tastiera sul dorso della mano sinistra. Sullo schermo impiantato nel palmo apparve subito un nome, che lei lesse avidamente: Chanca, dunque si chiamava Chanca sua figlia, che stava nel campus, dall’altra parte della città. Era il caso di avvisarla? Da tanto tempo ormai vivevano come due estranee: dal momento in cui lei, Lebra, aveva venduto il proprio corpo alla scienza. Del resto, come dare torto a Chanca? Dopo la prima iniezione di nanobot lei non era proprio più stata la stessa. Però, quello che la ragazza non sapeva, o fingeva di non sapere, era che grazie a quelle iniezioni sua madre le aveva pagato la scuola, i pranzi, le cene, le costose serate al Googledromo, il trapianto genetico per eliminare l’acne giovanile, e via dicendo.
Quindi, sotto certi aspetti, ne era valsa la pena.
Uscì dall’ascensore e cominciò a trascinarsi nell’atrio immenso dell’ospedale, cercando di non dare troppo nell’occhio.
Fuori, per strada, il sole splendeva sopra la cupola protettiva, lontano e sfocato. Lebra sentì caldo e si aprì i primi due bottoni della camicetta.
Ora si trattava di riuscire a raggiungere l’UFROT.
Si fermò appoggiandosi a un muro e schiacciò ancora i pulsanti della tastiera del suo IPSE. L’UFROT più vicino si trovava a due isolati di distanza.
Non avrebbe ottenuto il bonus post mortem, se non si fosse fatta rottamare immediatamente. Quel bonus che avrebbe permesso a Chanca di pagarsi il master, la ciliegina sulla torta di tutta un’esistenza.

Il binario del treno era gremito di gente. UF e UM, gli umani, donne e uomini, riuniti in capannelli, si preparavano allegramente al rientro a casa: era venerdì sera e una certa atmosfera frizzantina si percepiva nell’aria. C’erano però altre persone, in disparte, persone come lei, sedute sulle panchine, o appoggiate alle pareti, che sembravano non divertirsi per niente. BF e BM: i Bot, quelli che la loro natura umana l’avevano persa, perché se l’erano venduta.
A Lebra sembrava di ricordare ancora, chissà come, il volto magro della donna, le sue labbra sottili e scarlatte simili a uno sfregio.
«Una firma qui, ecco, brava» le aveva detto indicando lo spazio bianco sul foglio.
«Farà male?» aveva chiesto lei.
«Ma no, cosa dici? Un’iniezione sottocutanea, come quelle per l’insulina, non la sentirai nemmeno.»
«E poi?»
«E poi te ne torni a casa tua. La tua ditta ti concede quindici giorni di ferie, e puoi farti un viaggetto, è tutto retribuito, non preoccuparti. Poi rientri e ti metti a disposizione.»
«Farete degli esperimenti?»
«Non finché sarai viva, non preoccuparti. Ti troveremo un lavoro adatto, per esempio in un ospedale. Lì potrai renderti utile perché non potrai più contagiarti con le malattie U. Un lavoro pulito. Alla fine di ogni mese percepirai l’indennità. Con quella potrai pagare la scuola di tua figlia e tante altre belle cosette, non dovrai più preoccuparti di niente. Dovrai solo fare il tuo lavoro nel miglior modo possibile. Ci aspettiamo tanto da te» aveva concluso con un sorriso grigio.
«E dopo che sarò morta?»
«Se ti farai rottamare nel modo adeguato, percepirai un bel bonus, che verrà versato direttamente sul conto di tua figlia. In cambio donerai il tuo corpo alla scienza e renderai un grande servizio al tuo Paese. Ma perché parlare di morte adesso?»
«Come muore un Bot?»
La donna aveva alzato le spalle.
«Oh, ci vuole tanto tempo, sai? Non devi preoccupartene ora.»
E invece non era andata così, pensò Lebra scuotendo la testa. Un uomo accanto a lei la fissò incuriosito, poi, non appena la ebbe vista in faccia, si allontanò di qualche passo riprendendo subito a conversare con il suo vicino.

Il treno entrò lentamente in stazione, simile a una lunga biscia silenziosa, sospeso a venti centimetri sopra le rotaie. La gente si affollò subito attorno alle porte che si spalancarono con un sibilo. Sembravano intenzionati a non lasciare nemmeno un sedile libero, pensò Lebra, ma poi si accorse che ne era rimasto uno, uno scomodo strapuntino senza imbottitura. Lo abbassò e gli si accasciò sopra, appoggiando la testa contro la parete. Le porte del treno si richiusero e il mezzo partì.
Lebra sentiva nausea, e quella nausea si mescolava alle immagini della città che le scorrevano davanti, creando un intreccio insopportabile.
Doveva essere ragionevole, pensò. Concludere in modo adeguato ciò che aveva intrapreso dieci anni prima. Doveva dimostrarsi all’altezza, una donna tutta d’un pezzo. L’UFROT era… digitò nuovamente sulla tastiera… era a tre fermate di distanza. Sarebbe scesa lì. Anche se aveva solo voglia di andarsene a casa. Di nascondersi come un animale ferito.
Chiuse gli occhi, li riaprì. La fine di un Bot arriva così, si sa: i sensi si attutiscono, le giunture si bloccano. E il corpo non è più padrone di se stesso. Allora mani estranee ti afferrano.
Anche se la sua fine, in realtà, era già iniziata molto, molto tempo prima.

Non era andata affatto come diceva la donna, oh no. Le iniezioni erano state indolori a livello fisico, certo, ma altrettanto non si poteva dire dei loro effetti sulla mente.
La memoria, loro puntavano alla memoria: Lebra lo aveva capito quando ormai era troppo tardi, perché, certo, la donna dalle labbra sottili questo non glielo aveva detto. La sua memoria a lungo termine, per esempio, era stata la prima a scomparire. C’erano così tante cose che Lebra aveva dimenticato, non sapeva che cose fossero, ma sapeva di averle dimenticate. Doveva avere avuto un padre e una madre, per esempio, ma non ne conservava il minimo ricordo.
Una persona senza passato non si può definire una persona. Così era scivolata nel mondo dei Bot, un mondo senza chiaroscuri, dove la gente nasce già adulta.
Gli U, in generale, non facevano altro che parlare male dei B, di quanto fossero inaffidabili e avidi, ma certo non immaginavano cosa si provi a vivere senza una storia propria, senza radici.
Quello però era stato solo l’inizio. Presto i ricordi avevano incominciato a sgocciolare via da lei come acqua da un contenitore bucato. Per esempio, il padre di Chanca. Chanca era sua figlia, e un padre doveva pur esserci stato. Ma ovviamente non si poteva chiederne conto alla ragazza. Si dava per scontato che Lebra sapesse come aveva generato la propria figlia.
In casa non c’erano immagini di quell’uomo, e Lebra si sorprendeva a domandarsi come fosse stato fare l’amore con lui, o se invece avesse avuto quella figlia da un donatore anonimo, come fanno tante.
Quando pranzavano insieme lei e Chanca, Lebra di solito taceva e ascoltava avidamente le informazioni che la figlia, senza accorgersene, le passava. Che tipo di bambina era stata. Se preferiva il rosa o l’azzurro. Però Lebra notava che il padre non compariva mai nei suoi discorsi.
Giorno dopo giorno, poi, si era accorta di essere diventata ripugnante agli occhi della ragazza.
«Non me lo sarei mai aspettato da te, mamma,» le aveva detto gelida Chanca il giorno che Lebra si era dimenticata del suo compleanno.
Un’altra volta l’aveva sentita mormorare, e nemmeno a voce troppo bassa, che era stato giusto privare i Bot avrebbero del diritto di voto.
E quando un mattino si erano incontrate per strada, mentre Lebra avanzava incerta tra la folla del mercato, con il suo passo insicuro, Chanca, in compagnia di due amiche, si era voltata dall’altra parte per non doverla salutare.
Si sa, tutto in un Bot è sgradevole: quel suo sguardo un po’ fisso, quei gesti lenti e ottusi e quella parlata lasca, sgraziata.
Avrebbe voluto dire a Chanca che lei non era stata sempre così, un Bot, che era stata la vita a ridurla in quel modo. Anche lei era stata una neonata profumata che la mamma aveva appoggiato alla spalla per farle fare il ruttino, osservandola piena di aspettative e di trepidazione.
Ma adesso, sì era vero: si era trasformata in una cosa brutta, sciupata, di cui vergognarsi. Uno di quei vecchi soprammobili che non hai il coraggio di buttare via solo perché te l’ha regalato una persona cara che ora non c’è più: un veliero dozzinale in una bottiglia impolverata, o la palla che se la agiti fa scendere la neve sopra un orribile paesaggio di plastica.

Ogni Bot ha la sua precisa data di scadenza: lo aveva sentito recitare dagli istruttori in tutti i corsi di formazione e di aggiornamento. I Bot non morivano sul colpo, ma dai segnali del loro corpo avrebbero dovuto capire che la scadenza era sopraggiunta e affrettarsi verso il più vicino UFROT.
Li volevano vivi, tronchi vegetali privi ormai della più elementare sensibilità, incapaci di governare il proprio corpo, menti vergini immuni da ricordi, su cui impiantare nuove intelligenze artificiali: questo si sussurrava ogni giorno sul lavoro, in ospedale, fra i tessuti sterili, al riparo delle porte chiuse, davanti alla macchinetta del caffè. Un brivido, un accenno, perché i B fra loro non si abbandonavano mai a confidenze. Un B detestava ogni altro B, forse perché in lui vedeva riflessa la sua stessa avidità, la sua miseria, la sua nullità.

Il treno diede uno scossone. Lebra chiuse gli occhi e premette la schiena contro la parete, cercando di mantenere l’equilibrio. L’aveva mandato il messaggio a quella ragazza? A sua figlia? Non se lo ricordava più. Aveva tanta voglia di rivederla. Non si ricordava se le aveva mandato il messaggio. Ho tanta voglia di rivederti, vieni a casa. Sto morendo.
Si sentiva sfinita e non aveva più nessuna voglia di lottare. Non sarebbe scesa alla prossima fermata. Sarebbe andata a casa, sempre che fosse riuscita ad arrivarci. Sempre che si ricordasse ancora il proprio indirizzo. Si sarebbe gettata sul letto così, vestita com’era, avrebbe chiuso gli occhi e avrebbe aspettato Chanca. Forse sarebbe venuta.
Avrebbe aspettato la morte, in pace, senza aghi che la frugassero o lame che cercassero di tagliarle via l’anima.
Avrebbe aspettato Chanca, sua figlia. Forse sarebbe venuta.

Fece le scale a quattro zampe, erano solo due piani, ma tutte le giunture del suo corpo adesso erano rigide, quasi paralizzate. Però non voleva rischiare di incontrare qualcuno in ascensore, qualcuno che avrebbe potuto avvisare la polizia.
Impiegò un’eternità ad aprire la porta, e poi, quando finalmente ci riuscì, vi si appoggiò contro e cadde all’interno, stremata.
Rimase lì, immobile, a lungo, annusando l’odore di detersivo che emanava dal pavimento, gli occhi che si aprivano e si chiudevano nella penombra della casa silenziosa. Talvolta il ronzio di un drone, fuori dalla finestra. Poi di nuovo silenzio.
Aveva mandato il messaggio? Quella ragazza sarebbe venuta?
Chanca, sua figlia. Avrebbe accettato di lasciarla morire in pace, o si sarebbe infuriata per il bonus post mortem che le veniva sottratto?
Doveva mettersi a letto. Non poteva farsi trovare in quelle condizioni, accucciata a terra, come una bestia.

Incominciò a strisciare, pancia in giù, con grande fatica, centimetro dopo centimetro, fino alla sua camera da letto. Impiegò forse un’ora, ma del resto aveva perso del tutto la nozione del tempo.

Ora era sdraiata sul letto, il petto che sussultava dolorosamente a ogni respiro, ma finalmente dignitosa, composta.
Una quiete la invase tutta. Forse quel messaggio non lo aveva mai mandato. O forse sì. Bene, se fosse arrivata, si sarebbe trovata di fronte un essere umano.
Dicono che, nell’istante prima di morire, tutta la vita scorra davanti a noi come un torrente ininterrotto di immagini. Ecco: Lebra adesso aspettava quel momento. Percepì che tutto, in quella giornata, era stato finalizzato a quell’unico momento: ogni gesto, ogni pensiero.
Rivedere tutta la vita poi… troppa grazia, non aspirava a tanto. Le sarebbe bastato un istante, il frammento di un ricordo che le avrebbe restituito se stessa, che le avrebbe dimostrato che era esistita per davvero, prima della resa ultima, quando i confini dell’io si perdono e la barca, invasa dall’acqua del mare, affonda.

Fuori il sole stava calando. Uomini e donne erano rientrati nelle loro case, avevano riabbracciato i loro bambini, si accingevano a preparare la cena. Qualcuno si vestiva per andare al ristorante. Due amanti si osservavano da un capo all’altro di una stanza, desiderosi di scavalcare d’un balzo il pavimento. I crani aperti dei B ancora vivi, all’UFROT, erano pronti per accogliere una nuova intelligenza, l’alba di una nuova era. Un’adolescente appoggiata a un palo della luce leggeva una lettera d’amore che non avrebbe mai immaginato di poter ricevere. La testa di un nascituro stava spuntando attraverso la vagina dilatata di una partoriente. Aveva i capelli neri. Qualcuno vendette una dose di eroina. Qualcuno azionò un detonatore. Qualcuno, osservando il tramonto, pensò che avrebbe voluto scrivere una poesia. Una giovane donna saliva le scale correndo Una cinciallegra scovò un verme nel tronco di una betulla nel parchetto dietro la casa di Lebra.
Ma lei, immersa in una pozza di luce, con gli occhi spalancati, offuscati, ciechi, ora vedeva, no, anzi, percepiva, con tutto il suo essere, la sensazione di quel contatto sulla pelle, la barba ruvida di un uomo sul suo viso di bambina.
«Fammi sentire ancora, papà!»
Lui la sollevò fra le braccia, e lei si sentì portare in alto verso il cielo mentre il respiro le si mozzava nel petto. Sentì il volto di lui premuto contro il proprio, lo sfregamento della barba contro la sua pelle tenera, il suo odore di colonia, il suo alito che sapeva di menta, vide il colore azzurro della sua camicia fresca di bucato e si strinse forte alle sue spalle. Tutto il resto non esisteva più, tutto il resto doveva ancora venire, e, forse, sarebbe stato diverso.