Mi scusi, lei vive da sola?

Sono arrivati in cinque. Francamente mi è sembrato un dispiegamento di forze eccessivo. Non tanto i tre della guardia medica, ma i due poliziotti, quelli proprio non me li aspettavo. Come mai la polizia? ho chiesto alla ragazza che mi misurava la pressione.
È la prassi, mi ha detto lei sorridendo, non preoccuparti. Intanto però un poliziotto aveva acceso una torcia – una piccola torcia che mi ricordava quella che usavamo io e mia sorella da piccole quando restavamo al buio e disegnavamo figure luminescenti sulle pareti della cameretta – e aveva preso a percorrere il corridoio, senza neanche chiedermi il permesso, aveva aperto la stanza dell’abbandono, quella dove dopo due anni c’erano ancora scatole da cui con Luca tiravamo fuori cose al bisogno – libri, vestiti, vecchi film – era un po’ il segno del nostro cedimento, o della nostra poca costanza, e mi dava fastidio che un poliziotto fosse lì con una torcia a mettere in luce la cosa. Poi per fortuna ha richiuso la porta ed è andato avanti, fino alla camera da letto e al bagno: sarà stato deluso di non aver trovato tracce di sangue nemmeno laggiù.

Ho solo preso troppi sonniferi, ho detto sempre rivolta alla ragazza che sorrideva. Ma certo, ha risposto lei, capita a tutti. Insomma, può capitare a tutti. In momenti particolari, s’intende. Chi glieli prescrive? C’è qualcuno che la segue? Sì sì, ho annuito, intanto pensavo a quando passavo in farmacia dalla mia amica e le dicevo, Senti, non riesco proprio a chiudere occhio, puoi darmi qualcosa? E lei me lo dava. Idem con gli ansiolitici, che sarà mai. Nessuna ricetta, nessuno che mi seguiva. Mentre la ragazza, che ho poi scoperto chiamarsi Gaia, compilava il referto coi miei dati anagrafici, i miei valori, il nome dei farmaci che avevo preso e gli orari degli eventi – svegliata alle nove ha preso cento gocce di Minias e mezza boccetta di Lexotan per continuare a dormire, si è risvegliata alle diciannove circa, ha bevuto un te caldo e poi è tornata a letto, alle ventuno ci ha telefonato perché si sentiva molto debole – l’altra che era arrivata con lei aveva preso a gironzolare per l’ingresso e si era soffermata a leggere il titolo di un libro abbandonato sul tavolo. Ti piace leggere? Dal divano dove mi avevano stesa ho annuito di sì. Roba allegra, eh? Io ho sorriso del fatto che aveva ragione, e che potevamo finalmente cambiare argomento. È che mi piacciono i libri tristi, ho confermato. Però mi sarei aspettata almeno Sylvia Plath, ha commentato lei con una voce che mi è arrivata dolcissima. Io ho sorriso, o forse ho soltanto tentato di farlo. Mia madre è ossessionata da Sylvia Plath, ha continuato lei muovendo in aria una mano come a scacciare un pensiero. Il pensiero della madre, o forse qualcosa di ancora più antico. Anzi, direi che è ossessionata dalla letteratura in generale. Davvero, le ho chiesto? Uhm, ha fatto lei, e si è avvicinata al divano. Qui tutti i valori sono regolari, ha detto Gaia sollevandosi, sei sicura di non volerci seguire comunque in ospedale? Sicurissima, ho detto. Allora metti una firma qui, e io l’ho fatto. Intanto l’altra ragazza, quella con la madre ossessionata come me, si è appoggiata sul bracciolo del divano. Mia madre detesta la Ferrante, tu che ne pensi? Che sono solo opinioni. Dal bracciolo è scivolata alla mia destra, io ormai mi ero raddrizzata, stavo seduta con la testa sollevata da un paio di cuscini. L’altro giorno le ho detto che stavo leggendo un libro, ora il titolo non lo ricordo, ma c’entra con l’acqua e coi fiori, ce l’hai presente? Ho fatto un cenno che poteva voler dire di sì come di no. A momenti mi caccia di casa. Sono scoppiata a ridere. Giuro, non sto esagerando, mi ha detto che andava bene per appoggiarci la testa sul telo mare in spiaggia. Ah, la spiaggia, chissà quando ne vedremo una, ha detto il tizio del pronto soccorso che ancora non aveva parlato e stava in piedi immobile davanti alla porta. Finora lo avevo visto solo aprirla arrivando, richiuderla, e aprirla di nuovo quando un paio di minuti dopo di loro erano arrivati i due poliziotti. Anche a me piace leggere, ha aggiunto, e pure scrivere. Però pubblico sotto pseudonimo. Cosa, ma scherzi? ha detto Gaia. Io mi sono voltata a guardarlo, non c’è limite ai miei pregiudizi, lo so, anche sotto sedativi. E che cosa scrive? gli ho chiesto. Roba erotica. Erotica? Qui Gaia e Emma – la figlia della donna molto colta e schizzinosa – sono esplose in un’esclamazione di totale incredulità. C’era da dire che niente nel tizio faceva pensare a qualcosa di erotico, ma voglio dire, non c’è mica bisogno di essere chissà quale adone per scrivere di sesso. Anzi, il più delle volte è vero il contrario. Mi scusi, ma quando scrive? gli ho chiesto immaginandomelo in ambulanza in compagnia di casi più seri del mio. Oh, beh, tutte le mattine prima del turno. Avrei tanto voluto alzarmi – avere la forza di alzarmi, non avere cinque persone in casa che me lo impedissero – e raggiungere quel benedetto flacone di Lexotan. Tutto ciò era insopportabile, quell’uomo aveva già pubblicato due libri. E dunque scrive ogni mattina, ho ripetuto. Uhm, ha annuito lui, da anni ormai. Ma la squadra lo sa? ha chiesto Gaia che era rimasta ferma alla questione erotica e si stava chiedendo se – come tra il libro aperto sul mio tavolo e l’evento di quella sera che poteva essere interpretato come un’aspirazione al suicidio – c’era da temere da lui un qualche improvviso cambio di rotta nei loro confronti, sì, insomma, se dopo questa rivelazione sarebbe cambiata la loro visione di lui e se lui si sarebbe sentito autorizzato a qualche lettura erotica fuori contesto, magari in attesa di una chiamata o addirittura in ambulanza. Gli scrittori, si sa, sono senza pudore.

Mi scusi, lei vive da sola? ci ha interrotti il poliziotto che ancora teneva la torcia accesa, aveva finito il suo giro e si stava probabilmente chiedendo perché dovesse perdere tempo in casa di una che dopo aver chiamato il 118 per avvelenamento si metteva a disquisire di letteratura con la squadra del pronto soccorso. Mi era difficile rispondere con esattezza a quella domanda perché, un po’ come la stanza dell’abbandono, anche io e Luca eravamo come due scatole buttate in un angolo da cui all’occorrenza tirare fuori affetto, compagnia e avanzi di tenerezza. Non ci eravamo lasciati, ufficialmente, ma non si poteva nemmeno affermare in tutta coscienza che eravamo ancora una vera coppia. No, ho un compagno. Lo può chiamare, allora? Avrei bisogno di fargli delle domande, è la prassi, e poi non è bene che stanotte lei resti qui sola. Prima di telefonare ho digitato in fretta un messaggio, Sto per chiamarti e dirti una serie di cose assurde, non ti spaventare, quindi ho fatto il suo numero. Luca ha risposto al primo squillo, Dimmi. C’è qui il 118 che avevo chiamato perché mi sentivo un po’ debole, dicono sia meglio se vieni anche tu. Arrivo subito, ha detto. Ho riferito al poliziotto che ci sarebbero voluti dieci minuti, un quarto d’ora massimo, dal suo ufficio – un pretesto assai poco credibile al sabato sera – e lui ha annuito che andava bene e con lo sguardo mi ha fatto capire che se anche “il mio compagno” fosse stato in un’altra casa non ci avrebbe trovato nulla da dire, anzi, forse lo capiva, considerato l’andazzo della serata. Non doveva piacergli Sylvia Plath e nemmeno la Woolf. Mi dispiace non potervi offrire niente, ho detto per smorzare quello che il poliziotto aveva intuito. Non si preoccupi, ha tagliato corto. Gaia invece ha raggiunto la cucina e mi ha riempito un bicchiere d’acqua dal rubinetto, me l’ha portata sul divano. Bevi, e bevi tanto anche nelle prossime ore. Ho eseguito obbediente come una bambina che infine ottiene quello che vuole, un po’ di premura, poi siamo rimasti in silenzio in attesa. Poiché Luca tardava, il poliziotto mi ha anticipato che avrebbero dovuto aprire un fascicolo, che in questi casi è la prassi. Ho annuito che lo capivo, avrei voluto spiegargli che non volevo ammazzarmi, volevo solo sparire un’intera giornata, non esserci per un giorno, assentarmi ecco, ma mi ero fatta l’idea che non avrebbe colto la differenza tra le cose e forse la differenza non c’era. Improvvisamente tutte le chiacchiere fatte, che pure mi avevano rianimato, mi avevano fatto ricadere in quella enorme stanchezza per cui li avevo chiamati. Volevo solo che tutto finisse, che se ne andassero da casa mia, e quando anche Luca se ne sarebbe andato – l’avrei convinto a farlo anche se lui avrebbe insistito di no per via di quella bontà che ancora sapeva trovare nelle nostre due scatole – sarei tornata in cucina, avrei versato altre gocce e sorriso di come avrei trascorso l’intera domenica a letto. Poco prima di addormentarmi avrei ripensato alla stranezza della gente, alla madre di Emma, alla dolcezza di Gaia, al tizio che scriveva romanzi erotici poco prima di salire in ambulanza, alla torcia del poliziotto – chissà se nella stanza dell’abbandono ci aveva disegnato qualcosa sulle pareti, ero tentata di alzarmi per vedere se erano rimasti dei segni – e soprattutto a quell’altro, di cui nessuno ha mai menzionato il nome, che se ne è rimasto zitto due ore senza far nulla, senza sdrammatizzare con una battuta, e senza ridere a quelle degli altri. È probabile che, tra tutti noi, fosse quello con più cervello. Questo sarebbe stato il mio ultimo pensiero prima di crollare, e un attimo dopo, Domani chiamo la madre di Emma.