Soglie, limiti e confini stanno più sotto i piedi che davanti agli occhi, penso. E nonostante sia vero che un cancello è inequivocabilmente un segnale di passaggio, così come una porta o una finestra, tuttavia il suolo dove poggia il tuo prossimo passo è cruciale, e ti sostiene: sei tutto dentro un posto, non sei costretto a vederlo da dietro a un vetro.
Se alla Cappella del Tesoro di San Gennaro ti ci porta qualcuno che ci tiene davvero, ti dirà di fermarti un passo fuori e guardare non il cancello scuro e magnifico, non le opere d’arte che ti aspettano oltre come un panorama mozzafiato, ma il pavimento. Allora tu obbedisci, abbassi lo sguardo e noti una cosa abbastanza neutra, cioè che il pavimento del Duomo è diverso da quello della Cappella, come in una ristrutturazione fatta male. Chi ti ha accompagnato ti guarderà compiaciuto perché sta per raccontarti che questo fatto non è neutro per niente e anzi, in quei pavimenti scompagnati c’è il senso di stare tutti interi dentro Napoli.
I tempi d’oro delle tv locali sono finiti da un pezzo, eppure il logo di Canale21 – un arcobaleno che abbraccia la semplice scritta bianca – fa fatica a venir via dai giri di zapping. Succede perché lo zoom che queste emittenti fanno sul territorio è ancora oggi strettissimo e sembra che non abbiano timore di apparire démodé mostrando quanto è importante e grande il quartiere, la strada, il negozietto, oltre che il mondo. Per chi guarda è stranamente calmante tornare a un orizzonte che si può toccare. Ma tre volte all’anno, in occasione dei tre miracoli di San Gennaro, non si tratta di noia da telecomando: ci sintonizziamo su Canale21 di proposito. La rete offre una lunga diretta dal duomo con inviati e giornalisti in studio. Il busto d’oro del santo e l’ampolla contenente quello si crede il suo sangue vengono spostati dalla loro sede naturale – la Cappella del Tesoro – e portati sull’altare maggiore della chiesa. Il vescovo recita una messa che è tesa e nervosa per il fatto stesso di essere introduttiva, perché ritarda il momento che tutti aspettiamo: il prodigio vero e proprio e cioè che qualcosa di liquido si muova dietro i vetrini opachi di secoli.
Spesso non accade.
L’alto clero sta lì sull’altare a scuotere l’ampolla e mormorare a capo chino.
Dal basso delle panche sale allora la nenia delle parenti di S. Gennaro, il gruppo di anziane donne che la tradizione vuole discendenti da colei che raccolse il sangue del santo nei momenti immediatamente successivi al martirio. Lo pregano in napoletano, gli dicono di sbrigarsi, lo prendono in giro fino addirittura a offenderlo, perché è il santo del popolo e deve fare il miracolo: non sta bene farsi attendere così. A volte l’intervento delle parenti risulta decisivo e il sangue si scioglie. Sembrerebbe che preferisca essere preso di petto.
L’esistenza stessa delle parenti e la comunicazione che instaurano col santo – ovviamente riconducibile alle forme e ai significati della preghiera, ma senza dubbio confidenziale, diretta, scevra di formalità – è l’aspetto che preferisco della devozione per S. Gennaro perché il rapporto che abbiamo con lui è laico, urbano. È sopra di noi, certo, e infatti aspettiamo un suo segno che ci dica che andrà tutto bene. Ma è anche un cittadino in mezzo ai cittadini: possiamo parlargli senza intermediari, da pari a pari.
C’è voluta la pandemia perché potessi trovare un termine di paragone per le sciagure del biennio 1526-1527, uno dei più terribili per la città. I miei antenati dovettero fronteggiare la peste, le lotte tra angioini e aragonesi, le eruzioni del Vesuvio con la conseguente attività sismica. In città non c’era ancora un luogo dedicato al culto di Gennaro (o meglio c’era, ma era scomodo e per niente sfarzoso, in cima a una torre) e una tale concentrazione di sventure fu il segnale per la popolazione: il 13 gennaio 1527 la città, rappresentata dagli eletti dei Sedili nobili (Capuano, Nido, Montagna, Portanova e Porto) e dall’eletto del Sedile del Popolo, stipulò un atto notarile col santo. Nel pubblico istrumento rogato da notar Vincenzo de Bossis, la città si impegnava a erigere una cappella nuova e più bella all’interno del Duomo in cambio di un futuro più sereno.
Gli eletti versarono le quote stabilite per l’impresa e venne istituita la Deputazione, una commissione laica con il preciso compito di promuovere e curare il progetto.
Il fondo superò enormemente la cifra preventivata senza mai ricevere nemmeno un soldo dalla chiesa.
La Deputazione esiste ancora oggi e ancora oggi, come al momento della fondazione, ribadisce e difende la laicità e l’autonomia della Cappella del Tesoro in quanto nata dalla volontà diretta del popolo napoletano.
Nel 1927 Papa Pio XI confermò la validità delle bolle papali che nei secoli precedenti avevano sancito il diritto di patronato della città sulla Cappella, sull’amministrazione dei beni, sull’elezione dei cappellani e questo è ancora oggi lo stato delle cose.
Così sei un passo fuori dalla Cappella del Tesoro e stai guardando i diversi disegni del marmo perché ti ci ha portato una persona che ci tiene. Gli ori e i dipinti di De Ribeira e del Dominichino ti aspettano superata la soglia, come un panorama. Oltre alle croci e agli angeli e a tutta la simbologia cattolica, intravedi sugli altari gli stemmi cittadini – Capuano, Nido, Montagna, Portanova, Porto e Popolo – una circostanza davvero non neutra, c’è da convenire su questo. Varchi il cancello, i piedi sono entrambi dentro, su un terreno che è legalmente della città e non più della curia. Un’isola urbana nel mare della cattedrale. In nessun posto sei più a Napoli che su quel pavimento.