Non ce l’hanno mai presentato il mare

Ci ho pensato.
Provengo da un albero di gelsi.
Non un albero qualsiasi di gelsi, ma quello nel cortile di Via Savoia.
Mia nonna aveva pure le galline, mi facevano ribrezzo le galline.
I gelsi, invece, mi piacciono, anche se non li mangio mai, non so dove trovarli, non so nemmeno se possono fisicamente cadere dentro le vaschette.
Per me, una volta raccolti, finiscono direttamente in bocca, oppure scompaiono: è questa la mia soluzione.

Come te la spiego la mia geografia emotiva, quando cammino, spesso, trascino i piedi; sono leggera, non è per il mio peso corporeo, non soffro neppure di pigrizia, c’entra la forza di gravità che mi ha partorita, spinge verso il basso.
Come se il cielo sopra la testa fosse un concetto troppo astratto e lontano, meglio la terra.
Mi sono messa a coltivare la terra sotto i miei piedi, scavo sempre nello stesso punto, dev’essere l’ostinazione ruvida delle montagne, dalla finestra della mia cameretta si vedeva la cima della Maiella, siamo cresciute assieme, io e la Maiella. Si vede ancora oggi.
Ti penso parecchio, ma non ti ho più cercato, ho i pensieri bloccati all’ultimo saluto, la tua mano aperta, troppo aperta.
Così ho chiuso, le spalle soprattutto. Ricurve. Le potresti persino scalare, ma non è un invito.
Se te lo stai domandando, la risposta è sì: pure le montagne crescono, di perseveranza e perpetuità.

Dice che Nicole quando parla ha la voce sguaiata, come quella di mia madre penso io.
Mia madre urla pure la lista della spesa, noi abbiamo la voce calibrata sull’urgenza di essere ascoltati, se sussurri non ti capisco, ma non sono arrabbiata, anche se te lo ripeto gridando.
Nel mio paese non l’ho mai dovuto spiegare, le voci si accavallano spesso, sono chiassose, è un modo di stare assieme e accettarsi senza fronzoli.
Deriva da un istinto di sacrificio.

Rubavamo i gessetti dalla stanza per cucire di mia nonna, faceva la sarta, a lei servivano per contare le misure sulla stoffa, a noi per scarabocchiare la pavimentazione stradale.
Mia nonna si infuriava, ci inseguiva per tutto il quartiere, Nicole correva più veloce di me, aveva più fiato, mentre io una volta per sfuggire a nonna stavo per essere investita da una macchina.
La macchina ha frenato, la mano di mia nonna invece no.
È stato uno schiaffo di paura, l’ho proprio sentita lungo i bordi della faccia: era terrorizzata.
Le ho chiesto scusa, ma i gessetti abbiamo continuato a rubarli, a firmarci e imbarazzarci sull’asfalto, sono innocui i gessetti, basta un acquazzone a lavare via i nomi dei ragazzi che ci piacciono, e pure i nostri.
Sono scritte reversibili dentro un’azione scolpita dentro la testa, ma forse non è nella testa che rimane impressa. In qualche parte del corpo, te la devo insegnare con le dita.
Giocavamo con i paradossi: era questa la bellezza smaliziata di Via Savoia.
Lo abbiamo capito solo adesso, dici che è tardi per svoltare?

«Mi ricordi il mare e il sale che tira sulla faccia dopo il bagno, crea aloni biancastri in controluce, pizzica pure qualche volta».
«Forse nel tuo mare ci sono tante meduse».
Sì, è vero.
Una medusa l’ho portata spiaccicata sul braccio, nuotavo vicino ai frangiflutti come i grandi.
Me l’ha tolta mio padre e io, in quel momento, ho deciso che volevo diventare lui da grande.
O, forse, solo che volevo essere grande, come i grandi.
Non sono diventata lui però gli somiglio, a parte gli occhi i verdi; mi sarebbero serviti, vedere attraverso una lente verde, forse vale una fortuna.

«Tieni troppi pensieri per la coccia, poi non dormi e ti sciupi.»
«Non sono i pensieri» le dico.
Tengo il cuore sparpagliato.
Tenere che somiglia più a perdere, nel mio paese si racconta che stiamo su questa terra solo per aspettare disgrazie, meglio soli che accompagnati da qualcuno che non è preparato.
Non sono brava con la speranza e ormai entro nella chiesa di San Nicola solo per i funerali, mai per pregare, ma non mi hanno scomunicata, sono persino migliorata con gli anni, me lo dicono sempre quando passo a salutare i parenti.
Anche gli amici della piazzetta me lo dicono, forse è solo che non abbiamo grosse novità da scambiarci, ormai le rotatorie hanno occupato ogni incrocio pericoloso, avevamo tutti il motorino a sedici anni.
Così, è più semplice riscoprirci nella preistoria dei motorini che non abbiamo più e nell’essere, tutto sommato, brave persone. Non c’entra tanto con i sacramenti, piuttosto con la buona creanza, qualunque cosa voglia dire; per esempio, essere gran lavoratori che non c’è mai da stancarsi o lamentarsi della fatica.
Poi capita che smetto di essere carina, o mi scappa la pazienza.
Quando accade incolpo la spigolosità della mia terra che mi ha fatto in questo modo appuntito e scomposto. Storto.
Ci conosciamo da troppo tempo, io e la mia terra, per ferirci di piccole bugie, o verità parziali e così, in qualche modo, troviamo sempre il tono per tornare ad accoglierci di nuovo.

“Ciao Nicole,
ti scrivo perché mi sono svegliata con un ricordo che credevo nitidissimo, ma col passare delle ore ho cominciato a dubitarne.
Andavamo a Pescara a comprare i vestiti all’ingrosso, nonna Coletta aveva ancora una specie di convenzione, noi crescevamo in fretta, potevamo risparmiare, chissà quanto costava andare a Pescara in benzina.
A me non piacevano quei negozi, non c’erano le vetrine con gli abiti esposti, non c’erano neppure i camerini per provarli, facevamo tutto a occhio; non lo accetteremmo mai adesso, confidiamo nella sacralità di un guardaroba stracolmo, o forse abbiamo scoperto la tua grazia nell’abbinare i colori e io voglio scegliere le tue scelte.
Però, c’era questa vecchia pizzeria lungo la strada, pizzette rosse tonde, unte, la crosta bruciacchiata: un locale storico diceva la targa esposta accanto all’ingresso.
L’ha conosciuto prima nonna, poi babbo, poi tu e io questo locale.
Tutti abbiamo mangiato le stesse pizzette rosse, tonde, unte e con la crosta bruciacchiata a Pescara.
O, almeno, così mi pare.
Potevo conservarlo intatto e in segreto questo ricordo e se non era vero potevo continuare a crederci.
Ma te lo scrivo perché non sopporto di mentirmi, di intortarmi la memoria e addolcirla a comando, cerco di fare le cose a modo, di ragionarle, anche se mi prendono per sfinimento, soprattutto negli ultimi mesi.
Mi manca la semplicità delle case che conosciamo sia dentro che fuori, che non dobbiamo immaginare: come sono arredate, o se sono abitate e da chi.
Non come a Roma; qualche volta pure la mia casa non so come raggiungerla se il Muro Torto è chiuso per un’interruzione.
Riacquisto la nostra cadenza per pochi giorni ogni volta che torno, poi la perdo di nuovo, e di nuovo, e di nuovo: sono un impostore. Non ne dovrei parlare.
Fammi sapere delle pizzette rosse tonde, unte e con la crosta bruciacchiata.
A presto, Nicole.”

Lara mi ha raccontato una storia curiosa, dice che gliel’hanno detta una sera a cena, ne era rimasta così affascinata che quasi non ci ha dormito; l’ho scoperto da poco che anche suo padre viene da dove veniamo noi.
C’era questo terapeuta che aveva una penna bicolore per prendere appunti durante le sue sedute: il colore del tratto doveva, in qualche modo, corrispondere alla densità di quello che ascoltava.
Quasi tutto doveva annoiarlo, o non impressionarlo perché scriveva sempre di nero, come se in mano avesse una semplice e comune bic e non una penna bicolore.
Una volta soltanto aveva cambiato il colore della penna e da quel momento sul foglio erano comparse righe di colore rosso, risaltavano parecchio sul bianco.
Lo aveva fatto quando era venuto fuori, per caso, che il suo paziente era nato in Abruzzo.
Una specie di allarme.
Siamo penne rosse, Nicole.
Di quelle cene in cui tiri fuori le cose che senti ma senza pensarci, di getto, che non ti metti paura di sembrare strano. O un paziente. Finanche un forestiero.

Sistemo in fila i volti, le strade in cui ci siamo nascoste e mai, davvero, liberate facendo tana libera tutti, le parole in dialetto che ci fanno ridere, ma che ci vergogniamo a pronunciare a voce alta.
Dovremmo tornare a camminare in montagna, a respirare l’aria buona, se ancora esiste aria buona, quell’abitudine di alternare il mare alla montagna, noi li abbiamo avuti entrambi, siamo state fortunate.
Eppure, ce ne siamo andate, tu per prima.
Che cos’è una casa, Nicole?
Sono pareti, un indirizzo di residenza, un domicilio fiscale, un armadio per il cambio di stagione, le briciole sulla tovaglia che significa che hai un tavolo stabile dove fare colazione; forse pure una libreria in ordine.
Chissà cosa si prova a rimanere nel paese in cui sei nata e a non andarsene mai, a essere interi dalle radici alla testa, a staccare le braccia dai fianchi, agitarle nell’aria e non perdere mai l’equilibrio.
Una volta mi sono quasi giustificata: non sono di Roma, ci vivo da anni, ci sto anche bene, ma non mi affeziono ai luoghi.
Credevo che i trabocchi fossero ovunque sulle coste, che li avrei trovati pure in Norvegia: ci sono rimasta malissimo.
Per dire, il mare non ce l’hanno mai presentato, ce lo hanno messo nelle mani strette a conca, dentro un secchiello, fin sopra le ginocchia, ci abbiamo nuotato in superficie con i braccioli, poi senza: questo è tutto, funziona così. Le cose che puoi vedere e toccare esistono, stanno lì, non devono diventare nient’altro.
Può apparire persino un pensiero frettoloso, distaccato e incurante se non si conosce la punteggiatura del pudore per come l’abbiamo imparata sin da bambine.
Noi neppure ci sfioriamo il più delle volte, basta solo vederci, un cenno con la testa e un sorriso a mezza bocca che allora vuol dire che siamo contente.

Ho cercato un posto in cui stare, per il momento credo di averlo trovato; sono partita dal posto in cui sono nata, ho cominciato da lì la mia ricerca.
Ho pensato che potevo lasciarlo il posto in cui sono nata, ma non l’ho mai imbrogliato.
Forse è anche questo una casa: lasciare ma portarsi sempre dietro, dentro.
È come la lezione del mare, mi guardo e mi tocco: non sono mai diventata qualcos’altro.
Anche se vagabonda, sono rimasta solo una paesana.