Guida per riconoscere i tuoi canti

Casanocillo è un piccolo villaggio nella parrocchia della Trinità, a sua volta frazione di Piano di Sorrento. È a circa quattrocento metri sul livello del mare nella zona montagnosa della penisola sorrentina, è scomodo da raggiungere, ha pochissimi abitanti e quando ne sento parlare ho l’impressione che sia conosciuto solo per due cose: il nocillo e la tomba degli appestati.
Il primo è un liquore prodotto dal mallo delle giovani noci quando è ancora tenero, raccolto e lavorato nel periodo intorno alla notte magica di San Giovanni in giugno. La seconda è quel che resta a ricordo delle epidemie di peste e colera che toccarono prima il Regno di Napoli nel 1656 e poi Napoli e provincia in tre diverse fasi tra il 1836 e il 1866.
Affacciandosi da Vico Alvano, l’unica piccola montagna prima di arrivare sui Lattari, si ha uno sguardo su tutto il territorio, e proprio lì sotto c’è la Selva della Tomba: un fitto castagneto chiamato anche Camposanto. È lì che la popolazione portava i suoi morti di peste e colera salendo su per la stradina di via Lavinola con carretti trainati da ciucci e cavalli, per poter poi lasciare i corpi il più lontano possibile dal resto dei viventi e sperare di evitare altri contagi.

Per commemorare tutti quei corpi ci hanno messo un cippo di marmo nel 1887, e la processione della Via Lucis ogni anno si incarica di non farli dimenticare.

Qui le processioni sono una roba seria. Ogni parrocchia ha la sua congrega, ogni congrega ha le sue processioni. Da bambini imparavano a riconoscerle per gradi, come immagino si impari a riconoscere le squadre di calcio del campionato.

Prima vengono i colori: la confraternita della Purificazione di Maria Santissima a Mortora, la mia frazione, esce sempre vestita di bianco durante la settimana santa; L’Arciconfraternita Morte e Orazione la notte del Venerdì Santo esce a lutto e vestita di nero. Trinità, invece, è rossa, ed è in onore di Pellegrini e Convalescenti.

Poi si impara a riconoscere i canti: i diversi Miserere, l’Inno e il Calvario dei bambini, il lamento delle donne con Il figlio mio, gli accompagnamenti delle bande musicali quando i cori tacciono ma si continua a camminare per le strade.
Ogni rullo di tamburo è inconfondibile, si separa nettamente dagli altri e ti resta impresso nella memoria. Quando lo ascolti fuori contesto ti catapulta in un momento così specifico che quasi senti l’odore degli incensi e il silenzio calare.

Nessuno te le spiega mai davvero queste differenze: non c’è un momento in cui ti prendono da parte e ti dicono chi è chi e perché. Fanno parte di un patrimonio comune che si trasmette come una specie di telepatia e che poco a poco assorbi fin da piccolino, di Pasqua in Pasqua, finché non ti rendi conto che sai riconoscere e distinguere le varie sfumature e tra queste quelle che son proprie della tua parrocchia: una specie di appartenenza in cui non sai se tu appartieni alla tradizione o se è la tradizione che ti è entrata dentro e non esce più. Come il tifo, hai la tua processione del cuore e quella sarà per tutta la tua vita.

La Via Lucis, che la Santissima Trinità percorre per i morti della peste, faceva parte dello scenario pasquale: si svolgeva senza scampo la quarta domenica di Quaresima, quella che è dedicata alle anime del Purgatorio. Negli ultimi anni è stata spostata un po’ più in là nel tempo, a qualche settimana dopo Pasqua, ma null’altro è cambiato in questa tradizione.

Il sentiero nella Selva della Tomba è stretto e, appunto, selvatico. La rossa – perchè sì, qui ormai le identifichiamo solo col colore, presi dall’abitudine – passa in mezzo al bosco aprendosi la via fino alla lapide, seguita da piccole delegazioni della bianca e della nera: c’è l’incensiere che cammina spargendo il profumo, ci sono uomini e donne che portano lampioni anche se c’è ancora la luce del giorno, c’è chi porta il tronco: la grande croce di Cristo. Mentre si cammina si recita il rosario o si legge il vangelo, senza cori né tamburi. È un affare molto più discreto di quello della settimana santa, con un approccio penitenziario intimo.

Non c’è folla intorno, solo alberi.

La vera folla, quella c’è prima di Pasqua. Pasqua non è Pasqua senza gli incappucciati e la gente ammassata per guardarli passare, lo sanno tutti da quando erano piccoli e le fasi della crescita venivano scandite dal ruolo che prendevi nelle processioni, quasi quanto dalla tua progressione nelle scuole dell’obbligo.

I bimbi in età d’asilo che portano i fiori o le crocette di legno camminano finché ce la fanno e quando proprio non ne possono più si lasciano prendere in braccio dal Mastuggiorgio – una figura il cui compito è tenere in ordine il corteo – a volte addormentandosi, a volte guardando la gente con occhi curiosi cercando e salutando la famiglia. Anche quelli più grandi, quelli in età da elementari che cantano nei cori, ogni tanto alzano la mano per salutare discretamente nonostante l’ordine paramilitare delle fila a cui sono assegnati. In tasca hanno tutti la stessa cosa: un pacchetto di mentine da mangiare in caso di mal di gola per lo sforzo di ore e ore di canto.

Il momento in cui esci fuori dalla parte infantile e entri in quella dei grandi, periodo che coincide con la fine delle medie, è quando puoi finalmente portare il cappuccio. Ci sono storie di cappucci in tutte le generazioni e tutte le famiglie; ce ne sono nella mia, ce n’erano in quelle di mia madre, sicuramente in quelle di mio nonno anche. Mia madre portò il cappuccio in un periodo in cui alle ragazze era ancora vietato: mandò il fratello a recuperarlo, lo indossò e si presentò al suo posto nella processione della notte tra il giovedì e il venerdì santo. Non parlò per tutto il percorso fino all’alba, nessuno lo scoprì mai, nemmeno suo padre.
Avevo forse dodici anni quando fu il mio turno col cappuccio. Mi diedero un lampione da portare, noioso e faticoso, ma negli anni seguenti con gli amici riuscimmo a conquistare gli strumenti della passione e altri oggetti da devoti, quelli più pregiati, quelli che ti davano uno status. A uno sventurato tra di noi diedero le mani bucate del Cristo; durante una sosta sul cammino lo prese il sonno, le mani gli caddero in terra, un dito di gesso si scheggiò. Lo vedemmo tutti ma nessuno ne ha mai parlato: quello è rimasto un segreto tra noi per più di vent’anni.


Eravamo tutti frequentatori di sacrestie, chi più chi meno. Per tradizione e abitudine, per gioco più che per devozione.
La fine dell’inverno arrivava con il suono dei tamburi per le strade sotto casa; i ragazzi più grandi – davvero grandi, almeno diciott’anni – ogni sera uscivano ad allenarsi. Camminavano avanti e indietro ripetendo sempre lo stesso ritmo, preparandosi per settimane in modo da essere impeccabili quando sarebbe arrivato il momento di uscire ufficialmente in primavera. Passavano davanti casa mia, li sentivo venire e li sentivo tornare.

La settimana santa era qualcosa di cui si parlava a scuola. Ci si facevano su progetti. Per molti di noi era l’occasione di poter star fuori fino a tardi e girare per il paese senza troppo controllo dagli adulti, mangiare pizzette e crocchè tra una pausa e l’altra.
Ci si incontrava in piccoli gruppi e si passava la serata a seguire i colori; gli itinerari cambiano ogni anno, non ci si informava mai prima per sapere da dove la bianca passasse, da dove sbucasse poi la rossa. Quel che si faceva, molto più semplicemente, era vagare seguendo il suono della banda e dei canti finché non si trovava un posto per guardare le altre processioni sfilare e si cominciava con il gioco delle scarpe: cercare di riconoscere chi fossero gli incappucciati – gli amici più grandi – solo da quel dettaglio, e una volta individuati chiamarli per nome e vedere i loro occhi muoversi e cercare di capire da dove venisse la voce. È un gioco che mi è rimasto ancora adesso che non partecipo da vent’anni ma resto attiva osservatrice: ho amici che si incappucciano ancora, il gioco tiene sempre con le stesse regole di allora.

È uno spettacolo che ha molto a che vedere con la fede ma altrettanto col folklore e la superstizione: quando passa la madonna si inginocchiano tutti, le si mandano baci, ci si segna con la croce per abitudine e per devozione.

È il mio momento preferito.

Il percorso che la nostra madonna fa durante la notte tra il giovedì e venerdì santo, e poi la sera del venerdì, è quello più drammatico; quando Lei passa, quel che dovrebbe essere un momento dedicato alla morte e alla resurrezione del Cristo diventa per molti un momento di identificazione e commozione con la madre e col dolore della perdita di una persona tanto amata. Anche se non ci credi, anche se il tuo approccio è laico, succede qualcosa nell’aria e ti si riempie il cuore di pena. Un po’ ho sempre creduto che fosse colpa degli odori: gli incensi e il profumo dei fiori in boccio si mescolano e confondono, creando quell’odore particolare di messa, di cimitero, di aldilà che ti fa sentire altrove nonostante i tuoi piedi siano ben piantati in terra.


Non te lo dicono mai apertamente – almeno a me non l’hanno detto – ma mettendo insieme i pezzi capisci qual è la storia a cui stai assistendo, e quando la capisci ti senti come parte di un segreto che non è tuo, e l’unica cosa che puoi fare è compatire.
Ti addolori per reazione umana se non mistica, per osmosi sentimentale.

La storia è questa: nelle prime ore del venerdì mattina la madonna esce dalla sacrestia di una piccolissima cappella e si dirige verso la chiesa; qui bussa alla porta e supplica le persone all’interno di aiutarla nella ricerca di suo figlio scomparso. Le porte si aprono, la processione esce e si aggiunge a lei, e così parte la visita ai sette sepolcri che dura per ore, fino all’alba, mentre le donne lamentano con la voce di Maria l’Addolorata ‘il figlio mio dov’è?’ e poi cedono lo spazio ai bambini che cantano l’Inno e agli uomini che intonano il Miserere. Quando la madonna si ritira al sorgere del sole, il figlio suo non l’ha ancora trovato.

Eppure quando esce nuovamente la sera dello stesso giorno l’Addolorata sa che, nelle parole del canto, ‘il figlio suo morì’: adesso è vestita in modo diverso, a lutto col mantello nero, e il suo percorso è uno di cordoglio mentre segue il corpo del Cristo che la precede nel corteo.

Ma quando sei piccolo non capisci esattamente cos’è il lutto. Ne vedi gli effetti, lo avverti negli atteggiamenti, ma non riesci ad afferrarlo. Ancor di più non riesci ad apprezzare esattamente il significato di lutto trascendentale legato all’esperienza religiosa: tutto ti sembra un po’ vago, una favola che ti raccontano al catechismo che ha un passaggio particolarmente macabro prima di arrivare alla gloriosa risoluzione con risurrezione.

Io e gli altri affrontavamo il passaggio dei cappucci e dei lampioni, dei canti e dei fiori e delle candele e dei misteri della fede come si affronta la messa in scena di un racconto preferito, conoscendone la storia ma non capendone in fondo il senso.

Cerco sempre di tornare al mio paese per Pasqua. Quando un tempo mi svegliava mia mamma all’una della notte per uscire ora resto sveglia e pronta con l’orecchio teso verso il primo rullo di tamburi che segnala l’inizio del racconto. Scendo, ripercorro le stesse vie che percorrevo vent’anni fa inseguendo i colori, chiedendomi quando le processioni si incroceranno e dove e, soprattutto, quale cederà il passo a quella a cui spetta la priorità di passaggio.
Non manca nulla dell’esperienza di allora, è tutto sempre uguale. Gli odori sono gli stessi e i suoni pure; la gente sussurra ancora i nomi di chi riesce a riconoscere tra le fila, si inginocchia sempre al passaggio sia del Cristo che della Madre, accompagna sottovoce il passare dei canti imparati da tempo a memoria.
Anche in quest’anno senza folla né celebrazione questa tradizione non è stata abbandonata: le parrocchie si sono attrezzate, gli abitanti pure. Con altoparlanti e casse esposte alle finestre nelle prime ore del mattino è partita la registrazione dei tamburi, dei bambini che cantano, delle donne, degli uomini. Abbiamo ascoltato il Miserere da dentro le nostre case, la Madonna cercava il figlio senza essere mai uscita dalla cappella.

Le processioni qui sono davvero un affare serio. Non si sono mai fermate, né per le due grandi guerre né per la pandemia. Sono una parte forte della nostra identità, privarsene del tutto resta inconcepibile. Con le strade vuote i tamburi hanno riecheggiato nel silenzio più completo in
modo diverso, più vibrante; private dei corpi del coro le voci dei canti erano ancora più spettrali.
Delle processioni statiche che non si sono mai viste eppure c’erano: le tenevamo tutte in mente come se fossero davanti i nostri occhi, come prima e come è sempre stato.

PS: Prima di inviare questo racconto l’ho fatto leggere a mia madre, un po’ per essere sicura dell’accuratezza delle informazioni, un po’ perché è una storia famigliare. Lo ha letto subito e mi ha mandato un messaggio vocale su mio nonno.
Mio nonno era contadino ed è stato confratello della congrega per tutta la sua vita adulta; era un uomo molto credente, sinceramente devoto, molto buono. Anche per lui le processioni erano un fatto serio. Durante la settimana santa insisteva molto perché mi andassi a confessare; ci teneva.

È morto nel periodo pasquale, quando io vivevo all’estero. Mia madre nel suo vocale mi ha detto questo: il nonno è spirato mentre il Miserere faceva il suo giro di prova, nel momento in cui è passato sotto la sua finestra. Non lo sapevo, non me l’aveva mai detto.
È una cosa molto bella, molto cara.