A Cido Passarelli
Per quanto mi riguarda questa storia brasiliana inizia con le mozzarelle di un leccese a Curitiba, Paranà. Il Paranà è infilato come una bottiglia tra lo Stato di São Paulo (a nord) e quello di Santa Catarina (a sud). A ovest ha l’Argentina e il Paraguay, a est l’Atlantico; per chi ama i numeri, si stende sul 25o parallelo Sud; per chi ama la geografia in generale, il suo clima non ha niente a che vedere con quello da Rio de Janeiro in su. Curitiba è la capitale del Paranà e poiché le temperature non sono un’opinione esibisce una comunità di discendenti polacchi degna di nota, credo la seconda al mondo dopo Chicago. Neppure mancano i tedeschi, i giapponesi e meno che mai gli italiani, di immigrazione remotissima o più o meno recente. Dunque, durante una delle mie prime passeggiate per il quartiere in cui vivo, mi imbatto in una mucca di plastica che ovviamente mi ingolosisce. La mucca di plastica, efficace mezzo di segnalazione, pertiene a un minuscolo caseificio chiamato Mozzarellart, nome affatto ambiguo. Entro, compro le mozzarelle e conosco Angelo, a cui chiedo diverse cose. Le risposte non ve le riporto, perché si tratta della vita di Angelo e spetta a lui e solo a lui parlarne, ma un’informazione ve la rivelo, in quanto pertinente a interessi superiori, insomma di tutti. Alla domanda: «Dove prendi il latte per tue mozzarelle?», Angelo mi ha risposto: «A Palmeira, a 80 km da qui, perché lì c’è una tradizione». Sulla tradizione di Palmeira (da non confondere con Palmeiras: quella è un’altra storia legata all’immigrazione italiana in Brasile, pure bellissima), resto imbambolata. Non è faccenda quotidiana sentire parlare di «tradizione» in Brasile. Cosa mai sarà successo a Palmeira per avere una tradizione, perlopiù legata alle mozzarelle? Corro a casa, metto le mozzarelle in frigo e cerco informazioni, che portandomi fuori strada, mi immettono su una bella strada, non asfaltata. A Palmeira, nello specifico leggermente più a sud, a Santa Barbara, dal 1890 al 1894 trovò posto una colonia italiana. Fino a qui nulla di eccezionale, ce n’erano tante, non solo italiane, ma questa era anarchica, i suoi coloni avevano issato una bandiera rossa e nera su una palma e si chiamava Cecilia. Come per la mucca di plastica, mi ingolosisco. Partiamo dal principio, ovvero da chi questa colonia se l’era immaginata.
Giovanni Rossi era un agronomo pisano, studiava le piante e si chiedeva: perché le piante sì e noi no? Perché le piante praticano il libero amore e noi no? Perché noi uomini e donne, di fatto, viviamo malissimo? Poste queste domande, con fermo metodo Giovanni cerca le cause e le trova nell’istituzione della famiglia. Perché? Perché nell’istituzione della famiglia risiedono il germe e il concime dell’asservimento e del capitalismo. Come si suol dire, fa due più due. In questa addizione è aiutato dal pensiero socialista che in lui vira come un girasole verso l’anarchismo. Benissimo, gli anni in cui viveva erano un fiorire di ipotesi, tentativi, elaborazioni, anche bizzarri, sempre siano lodate le idee bizzarre, per rispondere al mondo che stava cambiando e pareva farlo molto male. Rossi comincia a pensare. Non è un politico, è uno scienziato, ha un approccio positivistico alle questioni sociali, a premergli sono soprattutto le relazioni, la natura dell’uomo insieme agli altri uomini, l’esprimersi dell’amore. Nel 1875 scrive il romanzo utopico Un comune socialista, dove la protagonista femminile si chiama Cecilia e in cui immagina un’esperienza comunitaria, priva di leggi e di autorità, improntata alla solidarietà tra le persone e alla parità tra uomini e donne. Si dedica alla divulgazione dell’idea attraverso conferenze, comincia ad accarezzare il pensiero che l’utopia, in barba alla sua etimologia, non sia destinata a rimanere senza un luogo dove realizzarsi; ancora meglio, sente possibile l’intuizione di allestire qualcosa di simile a un laboratorio dove studiare il fenomeno della convivenza pura, senza strutture e meno che mai sovrastrutture. Viene preso poco sul serio, sono anni di lotta dura, l’industrializzazione e l’unificazione – come qualsiasi cambiamento di una certa portata, anzi se posso dire, come qualsiasi cambiamento – stanno giovando ad alcuni e generando miseria nera nella vita di moltissimi altri, già in condizioni vulnerabili. Turati e Malatesta non vedono di buon grado le elucubrazioni di uno scienziato interessato all’amore: quando c’è da fare la rivoluzione e abbattere il capitale bisogna stare sulle barricate, emanciparsi per mezzo della rivoluzione, non ritirarsi in mezzo alla natura per liberarsi dalle scorie – vere o presunte – per capire com’è che non siamo liberi. Sentite l’eco di Rousseau? Sentite giusto, perché c’è e forse rese un po’ sordo il nostro Giovanni (nom de plume: Cardias). Procediamo per gradi. Giovanni non sa ancora che andrà in Brasile, organizza un primo e timido tentativo di vita comunitaria a Stagno Lombardo che durerà circa due anni e di cui non so darvi notizie. Nel frattempo in Brasile accade qualcosa di importante, per la sua storia e per quella dell’Europa. Nel 1888, per l’esattezza il 13 maggio, data in cui peraltro ho iniziato a scrivere queste righe, l’imperatore Pietro II abolisce la schiavitù. Due parole su Pietro II merita spenderle, non fosse altro perché a lui si deve la prima traduzione in portoghese del Cinque maggio manzoniano e questo a noi italiani potrebbe perfino interessare, ma non solo: a Don Pedro II si devono tante altre cose, tra cui l’Indipendenza del Brasile dal Portogallo, una buona dose di amore per le arti e le scienze e, infine, almeno in certa misura, la proclamazione della Repubblica. E qui io vedo nascere un problema: l’immagine positiva (e positivista) del sovrano quanto peso ha avuto sulla romanticizzazione dell’esperienza della Cecilia? La tonalità è legittima, perché dobbiamo pure esaltarci e così è stata raccontata nel film di Jean-Louis Comolli (Cecilia – Storia di una comune anarchica, 1976) e ancora di più nel romanzo, più o meno storico, del giornalista anarchico Afonso Schmidt (Colônia Cecília, 1942; uscito in traduzione italiana nel 2015 per le Edizioni dell’Asino). Pietro II nel 1888 passò per Milano, andò alla Scala, ma non incontrò Giovanni Rossi (che pure frequentava la città e forse era davvero in contatto con il compositore brasiliano Carlo Gomes). Soprattutto, non gli regalò mai le terre per fondare la sua colonia sperimentale, di ispirazione apertamente anarchica. E allora cosa accadde? Perché Giovanni Rossi finì per imbarcarsi a Genova il 20 febbraio 1890 in direzione Rio de Janeiro sulla nave Città di Roma con pochi compagni (non si sa esattamente quanti, ma tra questi c’era sicuramente una donna, nominata cassiera della colonia)? Perché proprio il Brasile? Per diverse ragioni che non hanno a che fare con le concessioni magnanime di un imperatore tra l’altro ormai detronizzato, piuttosto con strategie di ordine politico molto scaltre. Abolita la schiavitù, la mastodontica campagna brasiliana si era trovata carente di manodopera e il Brasile doveva farsi Repubblica, possibilmente senza guardare al Portogallo, ma inevitabilmente guardando in quella direzione, vale a dire diventare parte della storia (forte) novecentesca e popolarsi. Detto senza girarci intorno, la Repubblica voleva «imbiancarsi». La miseria dei contadini italiani, polacchi e tedeschi non poteva che apparire come una benedizione per questo obiettivo, facilitato dal clima, dalla terra e dalla vegetazione che negli stati del Sud non sono troppo differenti rispetto alle latitudini europee. Non restava che favorire il più possibile, con concessioni di terre a prezzi vantaggiosi e dilazionati, i flussi migratori della migliore civiltà dolente contadina. E di questo flusso si giovò il nostro Giovanni, che infatti non cercava propriamente rivoluzionari ultraconsapevoli della posta in gioco ideologica, piuttosto lavoratori, sufficientemente aperti al socialismo, ma soprattutto desiderosi di cambiare e per questo pronti a cambiare, resi puri dal dolore e dalla miseria. Questo aspetto mi sembra ancora più romantico della romanticizzazione con l’imperatore illuminato all’abbrivio. È la disperazione a generare il bisogno radicale di cambiamenti radicali, non la magnanimità di un sovrano e nemmeno i venti storici, quelli tutt’al più fanno massa critica. Il punto nuovo ma fragile risiede nel fatto che per Rossi, e pochi altri tra quelli che lo accompagnarono, la disperazione aveva la sua fonte nelle relazioni umane, abbruttite, torturate da quello che lui definiva il sistema borghese – fondamentalmente non aveva mai sperimentato la fame, ma non si sottrasse all’esperienza una volta insediata la colonia – mentre per quasi tutti la spinta alla migrazione era la povertà, generata certo dall’industrializzazione e dal capitalismo, ma comunque seme di un desiderio a cui pochissimi potevano e possono sottrarsi, quello di migliorare la propria condizione economica, non emotiva. Tuttavia, nei quattro anni di esistenza della colonia, non mancarono i successi, l’armonia del vivere. Si coltivò il mais, vennero costruiti un mulino, una scuola, un padiglione che fungeva anche da rudimentalissimo studio medico. Si mangiava insieme, si viveva insieme, si lavorava insieme, ognuno secondo le proprie capacità. Alcuni, per sostentare la colonia nei suoi periodi più miseri, accettarono di lavorare nei cantieri governativi per la costruzione delle strade, versando l’intero stipendio nella cassa collettiva. È difficile stabilire quante persone vissero alla Cecilia. Verosimilmente, nel suo periodo di maggiore densità arrivò a circa 150-200 persone. La popolazione era molto instabile. Le famiglie restavano per poco tempo, alcune solo di passaggio, prima di stabilirsi in altre colonie del Paranà; altre, dopo un certo periodo di permanenza, sceglievano di trasferirsi a Curitiba, per trovare sistemazioni indubbiamente meno scomode; qualcuno morì per le malattie e la malnutrizione e non sempre chi aveva promesso di arrivare si presentava all’appello. Il nostro Rossi, infatti, non smise mai di fare propaganda per la colonia attraverso opuscoli, lettere a giornali (non solo italiani) e conferenze. Nel 1891 prese la nave al contrario per tornare in Italia e raccontare i primi mesi dell’esperienza, raccogliendo se non molte adesioni una certa benevola curiosità. Come si vede, l’occhio di Cardias rimase sempre puntato verso l’Europa e gli europei, anche in Brasile. Durante una conferenza a Curitiba conobbe i due compagni italiani Annibale e Adele, i quali ebbero un ruolo cruciale nello sviluppo dell’esperimento che più stava a cuore all’agronomo rivoluzionario: il libero amore. Annibale e Adele si trasferirono nella colonia e qui, con la partecipazione estemporanea di un giovane bretone, nacque la loro famiglia poliandrica; si amavano e volevano dimostrare che il libero amore era possibile. Annibale, a quanto risulta, soffrì abbastanza, ma c’era da fare la rivoluzione del volersi veramente bene, credeva anima e cuore alla causa, mai arretrò di fronte alla convinzione della libertà della donna rispetto al suo compagno e inghiottì parecchie lacrime (terminò i suoi giorni da alcolista, se volete sapere della sua fine, per me eroica). Tra i problemi della colonia, i cruciali per Cardias erano la mancanza di donne e l’incapacità di superare la mentalità borghese da parte di quelle che c’erano. Faticavano a fare compagnia ai compagni, rimanevano legate ai loro mariti, con grave disagio fisico e morale dei tanti che erano emigrati in solitudine. Possibile che non riuscissero ad amare come le piante?
Nel 1893 Rossi pubblica un resoconto dettagliato della vicenda amorosa, nella seconda parte di un opuscolo in cui comincia a manifestare cenni di stanchezza. Nella prima sezione ricorda il 1891 come un anno funesto. La vita nella colonia non era per principianti e durante la sua assenza sorsero «partigianerie» piuttosto meschine; qualcuno cominciò a comportarsi da «capo» senza avere né la legittimità, né le doti, mentre l’originale socialismo assunse i contorni di un vuoto formalismo punteggiato da referendum insulsi, assemblee inutilmente lunghe, cavilli intollerabili mentre la fame mordeva i piedi di tutti, tranne di chi, più o meno di nascosto, con più o meno giustificazione, sottraeva per sé le scorte destinate alla collettività, che si era ampliata improvvisamente, rendendo difficile il sostentamento e quasi scontato l’insorgere di divisioni e gruppuscoli contrapposti. Durante quei mesi difficili, alcuni, anche tra i primi fondatori, abbandonarono l’impresa. La Cecilia è in agonia, rischia di morire del tutto o di diventare una colonia come le altre, un’azienda agricola. Rossi ricorda che solo grazie alla generosità di sette giovanotti l’esperimento poté continuare. Tra costoro troviamo Egizio Cini di Livorno che successivamente fonderà a Curitiba il giornale anarchico Il diritto e si dedicherà alla produzione di bibite, come ancora oggi fanno i suoi discendenti (particolarmente apprezzata è la Gengibirra Cini). Risollevata la colonia, sorgono nuovi problemi interni, di grande interesse per lo studioso Cardias. Da Parma arrivano alcune famiglie di contadini; per la Cecilia è una manna: sanno lavorare bene la terra, riescono a piantare la vite e a dare una vera svolta al suolo, a differenza dei tanti coloni che in Italia erano perlopiù manovali, operai, artigiani, quasi intellettuali, o contadini ma senza il piglio dei parmensi, probabilmente perché non si erano mai trovati nelle condizioni di poterlo avere. L’agronomo Rossi elogia gli sforzi, lo scienziato dell’amore Cardias coglie i primi segni del crollo. Le famiglie «capaci» cominciano a imporsi sugli altri attraverso un controllo silenzioso, dice lui, peggiore di quello dei capiofficina in fabbrica. È una mentalità che si traduce nell’osservare di sottecchi gli altri per calcolarne il rendimento e condannarne la presunta pigrizia rispetto al lavoro (ma come detto, non tutti erano nati contadini). L’aria diventa irrespirabile, la colonia è triste, delusa, a tratti aggressiva. E agli uomini continuano a mancare le donne. Lui, Annibale e il bretone hanno Adele. Si amano, ma Annibale è geloso, seppure con delicatezza, soffre, senza moti di rabbia. Provano a razionalizzare, a spiegare, a capirsi, Cardias elabora un questionario per osservare i propri e gli altrui sentimenti. Intanto la colonia si svuota, chi ha vissuto l’esperienza e l’ha abbandonata tende a non farne buona propaganda all’esterno, qualcuno ruba, i dazi doganali non consentono di importare semi e attrezzature e gli Stati meridionali del giovanissimo Brasile repubblicano sono sconquassati dalla Rivoluzione federalista. La Cecilia non si schiera apertamente a favore di uno dei due partiti in lotta, ma coltiva contatti (e una certa simpatia, seppure critica) con i capi dell’insurrezione separatista e monarchica, il che a quanto pare provoca una rappresaglia da parte delle truppe governative che distruggono parte delle attrezzature della Colonia. Rossi è molto stanco e demotivato, decide di cambiare aria e si arruola come medico, lui che era agronomo e veterinario, al seguito del battaglione italo-brasiliano. Spiegherà che questa scelta, bizzarra in qualsiasi altra epoca e paese, nel Brasile di quel periodo appariva «estremamente naturale». E in effetti è così, Il Brasile porta a fare cose che non si credevano possibili o adeguate. Il motivo lo spiega forse Stefan Zweig, altro grande emigrato, nel suo Brasile. Terra del futuro: «Generosamente dotato dalla natura di spazio e di infinite ricchezze, pieno di bellezza e di tutte le forze potenziali immaginabili, il Brasile continua ad assumersi lo stesso compito dei suoi inizi: trapiantare nella sua terra inesauribile uomini provenienti da regioni sovrappopolate e, intrecciando il vecchio col nuovo, creare un’altra civiltà». È possibile creare un’altra civiltà? Questa è la domanda che credo da sempre ci facciamo come esseri umani, accapigliandoci sulle premesse e sui risultati, declinando variamente i parametri, impastando in dosi diverse il vecchio e il nuovo. Rossi aveva probabilmente preso un rispettabilissimo abbaglio rispetto alla natura umana, a suo avviso perfettamente «osservabile» in purezza ed «emendabile» in laboratorio. Ma come in natura non sono uguali le piante, così sono gli uomini: non tutte le piante si riproducono nello stesso modo, non tutte hanno bisogno della stessa quantità di luce e di acqua, eppure c’è posto per tutte, anzi, deve esserci posto per tutte. L’aspetto che ci accomuna, azzardo, è la ricerca della condizione migliore. Sapere quale sia la propria Merica e trovarla, è un’impresa che richiede una vita, innumerevoli vite. Per spiegarmi provo a invadere un altro campo: avete presente il calcio totale? Ebbene, e se Giovanni Rossi avesse avuto in mente una cosa del genere? Un perenne scambio, in corsa e dinamico, senza gerarchizzazione (ma verticalizzazione), una dinamica di mutamenti di ciascuno in soccorso a ciascuno in nome della palla? No, forse lui non aveva in mente questo, io probabilmente sì. Solo che non a tutti è congeniale questa partitura, è facile affezionarsi ai propri ruoli e così fiorire. Inoltre, non sempre l’Olanda è a portata di mano, possono mancare le condizioni e un certo appetito del vivere che può dimenticarsi di sé.
Come finì la Colonia Cecilia? Per sfinimento, come ogni grande episodio d’amore degno di questo nome: impazzire o sfinirsi. Adele e le sue figlie (di Rossi, di Annibale, del bretone: che importa?) si trasferiscono a Curitiba, Rossi le raggiungerà dopo il suo servizio medico-veterinario con il battaglione italo-brasiliano, proverà a reinventarsi una vita professionale incontrando non poche difficoltà per i suoi trascorsi politici. Le terre della colonia sono intanto riscattate dal gruppo di contadini di Parma. Alcuni dei loro discendenti vivono ancora a Palmeira. Faranno fruttare i campi, troveranno lì, in quella stupenda terra rossa, la loro Merica. Cardias non esiste più, Giovanni Rossi si allontana dalla vita politica (al centro della quale non era mai stato), alcuni tra i coloni invece continuano a sostenere l’ideale e saranno – pare – tra i promotori degli scioperi di São Paulo nei primi anni del Novecento. Nonostante il disincanto e la stanchezza, lui e Adele non si imbarcano subito per l’Italia. Ormai Rossi è un agronomo puro: insegna in diverse scuole, scrive articoli scientifici, si dedica alle sue amate piante. Continuerà a farlo in Italia, quando infine rientrerà nel 1907, prima a Sanremo, poi a Viareggio e a Camaiore. Morirà a Pisa nel 1943, avendo perciò visto il male a cui è impossibile trovare la risposta e persino la domanda.
E questa è la storia della Colonia Cecilia, a cui ora metto il punto per andare a comprare le mozzarelle da Angelo, perché la Merica ha sempre a che fare con l’appetito.