Avrei dovuto capirlo, il guaio in cui mi stavo mettendo, il puzzle infinito che avrei tentato di risolvere e nel quale volontariamente mi ero immerso.
Per discolparmi posso dire che la cosa non era così facile da intendere, soprattutto all’inizio. Non sarebbe stato come combinare tutti i pezzi sfuggenti o meno di un delitto di cui è necessario trovare il colpevole. E se anche fosse stato, stiamo parlando di un’indagine così lunga e lenta che ogni volta che scoprivo elementi nuovi, il ricordo dei precedenti era ormai illeggibile.
Mi ricordo la sera di giugno insolitamente fresca in cui arrivai a Roma perché il giorno dopo avrei dovuto iniziare il mio nuovo lavoro. Ero in auto con la persona con cui avrei condiviso una stanza per qualche settimana. Arrivati nella strada di casa, girò di scatto il volante a sinistra e salì con le due ruote anteriori su un marciapiede, accostandosi ad un’edicola tanto da farmi pensare che la volesse volontariamente sfondare con il muso dell’auto. Poi ferma l’auto, la spegne, scende con scioltezza e mi fa “qui devi ingegnarti un poco se vuoi trovare posto”.
Era il periodo in cui, mi ricordo, una sentenza del TAR aveva reso gratuite le strisce blu e quindi le auto parcheggiate avevano occupato i posti disponibili con prepotenza.
Ricordo bene, però, non tanto le conseguenze di questo limbo normativo, ma come la città di Roma si fosse adeguata in pochissimo tempo e molti non-residenti avevano approfittato di quella improvvisa anarchia per avere la comodità di un posto auto nei paraggi.
Avrei dovuto imparare che a Roma le variazioni della normalità non sono viste come un’ondata prorompente che fa danni collaterali, ma vengono inglobate nel rumore di fondo in un tempo brevissimo e tutto è come se fosse sempre stato così.
Il gioco non sempre vale la candela. Tentare di trovare una logica negli ingranaggi, di governare Roma dentro di sé, che si parli di come sia possibile di trovare una dimensione all’interno di essa o anche solo di come ci si possa muovere sui mezzi pubblici, è come voler mettere il guinzaglio a un invisibile animale che scorrazza in giro e tocca, sposta, morde, straccia. Le conseguenze ci sono ma non si riesce mai a vederne la causa.
Se immaginiamo che su un piano cartesiano ci siano due gruppi di punti che rappresentano le varie soluzioni a un nostro problema e li distinguiamo in “buone” (cioè che ci portano un vantaggio) e “cattive” (cioè che vorremmo evitare di utilizzare) un computer sarà in grado di determinare autonomamente se un valore che gli daremo in esame sarà buono o cattivo.
La prima cosa che dovrà fare è il determinare un confine geometrico vero e proprio fra i due gruppi, in base al quale prenderà la decisione. Tracciare questo confine, però, anche se per noi è un’operazione banale – perché si tratta né più né meno di disegnare una linea tra due ammassi di puntini che riusciamo a vedere chiaramente – non è così semplice per un computer, perché lui non ha occhi e non riesce a distinguere la separazione fra i punti che abbiamo disegnato. Fa quindi una cosa che per la maggior parte di noi sembra impossibile: va a tentativi. Di solito parte da una retta tracciata nel bel mezzo del grafico, dividendolo in due e poi calcola la distanza da ogni punto buono e da ogni punto cattivo e vede se ogni punto si trova nella metà giusta. I casi sono due: il computer può osservare che la retta ha sbagliato, non ha separato correttamente i due gruppi e allora decide di correggere l’errore. Oppure ha fatto bene, ma chissà, potrebbe fare meglio.
La linea, quindi viene ruotata a destra o a sinistra, viene alzata o abbassata e le valutazioni continuano, fin quando l’errore che si trova non è il migliore possibile e pertanto abbiamo trovato la miglior linea di separazione fra quello che è giusto e quello che è sbagliato.
Trovare una propria dimensione a Roma funziona allo stesso modo. All’inizio si deve tracciare una linea in maniera totalmente casuale, il che significa gettarsi a capofitto dentro le regole scritte e soprattutto in quelle non scritte che spesso contrastano a loro volta con quelle scritte. E poi trovare un proprio percorso fatto di tanti successi e tantissimi errori di valutazione.
Una via, un parcheggio, un’opinione espressa al lavoro, una parola per ordinare un trancio di pizza, un modo di chiamare un frutto o come riuscire ad arrivare un punto qualsiasi ad un altro punto della città. Tutto passa per una continua correzione d’errore fino a giungere ad una demarcazione che non sarà mai perfetta ma alla quale ci si affiderà con tenacia.
Personalmente, ad una ideale costituzione di quella linea ne ho aggiunto anche una irregolare e tortuosa, fatta di luoghi e di tragitti precisi che utilizzo come riferimento base. La traccio da Circo Massimo fino a Lungotevere Aventino. Poi la faccio camminare sul travertino di Ponte Fabricio per attraversare l’Isola Tiberina. A questo punto bisogna decidere se mantenere alla destra il Tevere per riguardare mentalmente l’esultanza di Nanni Moretti oppure tuffarsi nelle vie di Trastevere che dicono siano sempre le stesse ma io non ci credo perché sono sicuro che cambino ogni volta che tento di percorrerle per andare verso San Pietro.
A Roma non esistono luoghi, esistono angoli. Le cose che ti fanno andare avanti sono quelle. Fermarsi sulle cartoline di Roma sarebbe come guardare solo l’interlinea di una poesia. Devi rubare piccole cose e metterle in un luogo sicuro della mia mente, per poi andarle a riesaminare nei momenti di smarrimento, come quando si spalancano gli occhi inspiegabilmente di notte o ci si trova ad una fermata d’autobus con la pioggia.
Come il silenzio e la nebbiolina di umido a Prati alle sette e un quarto di mattina.
Come la luce che passa fra gli alberi sulla Nomentana alle sei di sera di metà settembre.
Il dolcetto al cioccolato di una pasticceria al Testaccio.
Una panchina in particolare del parco su Viale Aventino.
Gli androni dei palazzi nelle traverse di Corso Trieste.
I condomini sulla Cassia, che mi infondono un gran senso di serenità; non ne ho mai capito il perché.
Gli infissi di legno scuro delle villette dell’EUR, che sanno di pomeriggi assolati e silenziosi degli anni ‘80.
I balconi a Roma parlano, sono dei distintivi attaccati alle case. Fanno capire alle persone se lì dentro ci possono vivere o meno. Quelli moderni e seri delle immediate vicinanze del Laghetto o di Fonte Meravigliosa, oppure quelli puliti e innocenti della Balduina o dei Parioli sono come dei gradi militari. Sai che puoi accedervi solo dopo un certo percorso, non alla portata di tutti. Quelli piatti e dignitosamente monotoni di Roma Sud o Est, invece, sono delle porte aperte. Sai che ti ci potrai abituare e sentirti a tuo agio, ma esigono rispetto. Entrambi, però, saranno impietosi e se non appartieni a quel luogo prima o poi ti rigurgiteranno.
Non bisogna mai pensare troppo al luogo in cui ci si trova o si vive. Contrariamente al senso comune e soprattutto se la tua è la prima generazione che vive in questa città, molto probabilmente ci si trova in una parte giovane della Capitale. Ci sono scene di Accattone in cui è mostrato il luogo in cui ho vissuto per tre anni; nel 1961 era uno sterrato con una chiesa e due palazzi in fila. Nel 2013 i palazzi sono diventati una trentina solo in quella strada e ci si è ritrovati con una densità abitativa spaventosa.
Nella Città non valgono le declinazioni dei luoghi in base alle classi o ai servizi, non ci sono mondi realmente distinti. Non esiste la precisa qualificazione, la qualsiasi elementare definizione di un quartiere o di un’area. Quello che c’è adesso può non esserci più da un giorno all’altro o fra un secolo con la stessa probabilità. Non è debolezza né instabilità, ma è solo un’espressione dell’entropia che prima o poi colpisce tutto e tutti.
Se si immaginasse, ad esempio, che a Napoli fra duecento anni le classi sociali e il prezzo degli appartamenti del Centro Storico si siano scambiati di posto con quelle dei quartieri collinari, come unica spiegazione possibile si accetterebbe solo quella di un eventuale regime distopico che abbia preso piede in Campania.
Se si immaginasse, invece, lo stesso concetto per Roma, magari anche con il suo raggio espanso di venti chilometri o ridotto della metà, non si stupirebbe nessuno. Le case e i balconi sì, invece. Sono convinto che se succedesse tutto questo, i balconi inizierebbero a crollare o a cambiare forma.
Roma, però, sebbene evolva con i suoi tempi e i suoi modi inafferrabili, non è per nulla vuota o impalpabile. Non è neanche soltanto estensione di un territorio. Roma è una sfera con il tempo e spazio che lottano al suo interno, che le conferiscono una solidità impressionante e una massa tangibile, pesante. La sfera ha comunque frange e confini, perché quando sei fisicamente al di fuori di essa lo senti chiaramente, ma quando sei all’interno non ne occupi una parte, ne sei parte. È un meccanismo di difesa, un unico grande anticorpo: se tutto è parte, niente può essere male.
Ma anche mettendo insieme tutto questo, anche avendo capito con un saggio anticipo come funzionava tutto anche un secondo dopo quel parcheggio rischioso, cosa avrei fatto?
Ho provato paure e voglia di fuggire, ma a volte il dubbio di potermi trovare con qualcosa in meno di adesso non mi fa dormire. Quindi mi devo svegliare e ripensare all’elenco di cose che ho fatto prima. In quei momenti risponderei che al netto di tutto quello che si possa ritenere sconveniente o dannoso, scegliere di vivere in questa città è l’atto di incoscienza migliore che si possa compiere.