Mattia continua a ingrandire la mappa sullo schermo. Sara vicino a lui alza gli occhi al cielo scocciata.
«Vuoi vedere le formiche sulla strada?»
«Non capisco. Dobbiamo attraversare il centro commerciale per arrivare al tempio o forse il centro commerciale è nel tempio» la guarda sconsolato «non lo so» ammette Mattia.
I grattacieli di Shenzhen svettano tutt’intorno a loro. Alla luce del sole le vetrate riverberano come l’acqua del mare e rispecchiano il cielo.
Mattia pensa che quei palazzi sono belli e imponenti come montagne, e non avrà nostalgia delle Alpi anche se quelle saranno solo delle cime di cristallo e luci colorate.
Un dragone si sposta da un mega schermo all’altro, scivolando leggero sulle pareti degli edifici e planando su di loro.
Mattia e Sara lo guardano muoversi senza dirsi niente, con gli occhi spalancati. La solita voce cinese di donna parla in tono zuccheroso e ora appare un ragazzo dai capelli corvini che beve una coca-cola e si mette a suonare la chitarra.
«Assurdo» sussurra Sara.
Mattia la prende per mano e attraversano la strada.
«Ahi, mi spingono» Sara ha di nuovo quel tono lamentoso che Mattia non sopporta.
«Se ti spingono, spingili anche tu» le risponde.
Entrano dentro al centro commerciale insieme ad una ventina di cinesi che mentre li urtano per superarli sorridono cordiali.
Uno di loro, Mattia ne è sicuro, passando gli ha accarezzato l’avambraccio. Muoveva il dito con delicati cerchi concentrici come a volergli annodare i peli in un piccolo uragano sulla pelle.
Mattia si avvicina a una commessa per chiedere indicazioni, devono arrivare al tempio sull’altro lato della strada. La donna quando sente parlare inglese sgrana gli occhi e china il capo timida per distogliere lo sguardo.
Un addetto alla sicurezza cammina impettito lì vicino e Mattia ci riprova.
L’uomo scuote la testa, e indica uno Starbucks dalla parte opposta delle scale mobili.
Sara prende Mattia per un braccio.
«Ma come è possibile che nessuno parli inglese? Siamo in un centro commerciale, lì c’è H&M.»
Mattia sospira.
«Perché in Italia in un centro commerciale le persone parlano inglese?»
«Ci provano.»
Mattia non replica, non sa se in Italia ci provino oppure no. La prende per mano per superare una piccola folla in coda davanti a Starbucks.
Si è trasferito in Cina solo un mese prima, e Sara è appena andata a trovarlo per passare le sue vacanze estive con lui.
Era sicuro che appena scesa dall’aereo si sarebbe innamorata di Shenzhen.
Si immaginava che avrebbe provato le sue stesse sensazioni già al controllo delle impronte digitali all’aeroporto, o sul taxi che sfrecciava per mastodontiche strade di una delle città più grandi del mondo.
Immerso nell’aria condizionata glaciale, nella puzza di fumo e in quella lingua urlata che non riusciva a capire, sentiva che in quel paesaggio incomprensibile di disegni indecifrabili, in quell’odore di caldo e di carne, tutto sarebbe andato bene.
Era convinto che anche Sara avrebbe sentito quell’energia in fondo allo stomaco.
Invece al suo arrivo, il tassista aveva utilizzato diverse volte il sacchetto per gli sputi alla sua sinistra con rumori inequivocabili, e Mattia guardando Sara aveva capito che la Cina non le avrebbe smosso niente di quello che invece stava danzando dentro di lui.
Passano davanti a un ristorante di Hot-Pot. Sulla destra della porta la coda è lunghissima. La gente che aspetta è seduta intorno a minuscoli tavolini di plastica, mangia anguria e anacardi e sembra essere contenta di starsene lì in fila per entrare.
Un cameriere con un microfono da ballerino distribuisce foglietti di carta colorata; passa tra le sedie e mostra come fare l’origami di una rana.
Mattia li guarda e sorride.
«Potremmo mangiare qui.»
«Ma hai visto che coda?» gli risponde lei.
Un tavolo un po’ più lungo è adibito a servizio manicure. Due ragazze cinesi fanno scegliere il colore dello smalto alle clienti, che mentre aspettano di sedersi a mangiare possono farsi sistemare le unghie.
«Sbrighiamoci, è orribile questo posto.» Sara inizia ad allontanarsi.
Sulle scale Mattia le accarezza i capelli. O meglio, vorrebbe, passa una mano delicatamente appena sopra la sua fronte. I capelli sono tirati all’indietro così meticolosamente che sembra di toccare il suo cranio.
«Ti prego, mi spettini.»
Mattia ritira la mano, e prende quella di lei per non farsi vedere sconfitto.
Sara ha il palmo sudato, e Mattia nota che diverse dita sono distrutte dai morsi. Sara ha sempre avuto le unghie lunghe, e ora invece ne vede il segno impreciso e violento con cui le ha strappate via coi denti.
Mattia vede un negozio di lenti a contatto colorate e decide di chiedere di nuovo indicazioni, Sara si allontana per lasciarlo fare. C’è una vetrina con un negozio di animali poco più in là.
«Scusi, dov’è l’uscita?»
La ragazza lo ha capito.
«Perché?» Lo guarda stupita.
«Perché vorremmo uscire.»
«Al quinto piano c’è una pista da sci, per fare pratica.»
Mattia non è sicuro di aver capito.
«Una pista da sci?»
«Sì, una pista da sci, per fare pratica.»
«Io non voglio fare pratica: sto cercando l’uscita.»
«Perché?»
«Perché non volevamo entrare qui. Dobbiamo uscire. Dov’è l’uscita?»
La ragazza si mette di nuovo a ridere.
Un cucciolo di barboncino nano dal pelo rosso si rigira nella sua cuccia in gomma piuma. Sara posa una mano sul vetro per attirare la sua attenzione.
È color albicocca, pensa.
Cerca di parlargli, spera di incuriosirlo e farlo scodinzolare.
Il barboncino non la guarda, e lei si accorge che il cucciolo sta tossendo per l’aria condizionata.
Abbassa la mano dal vetro e se la mette in tasca.
Mattia entra nel bagno degli uomini. Si chiude la porta dietro, si slaccia la cintura e si tira giù i pantaloni. Si guarda intorno e poi si ricorda che molte volte la carta igienica non si trova nei singoli cessi, ma accanto al lavabo nella parte comune. Sorride. Sono furbi, così non fanno sprechi. Si ritira su i pantaloni ed esce.
Si mette in fila dietro a un ragazzo con una camicia a quadri e una giacca di jeans.
Una macchinetta colorata che sembra un distributore di preservativi ti scannerizza la faccia e fa uscire tre quadrotti di carta igienica: la tua razione.
Mattia si abbassa leggermente e il suo viso appare in bianco e nero sullo schermo. Tre pezzi. Cosa ci faccio con questi? Li prende e sta lì. Non si muove. Sente che i ragazzi dietro di lui iniziano ad essere impazienti.
Si fa scannerizzare un’altra volta dalla telecamera. Dai, solo altri tre pezzi.
Sullo schermo appare una frase in caratteri blu, ma non esce nessun altro pezzo di carte igienica.
Il ragazzo subito dietro di lui si muove agitato, così Mattia entra in bagno per non creare un incidente diplomatico in una lingua che non può parlare, ma soprattutto che non può capire. Ha il terrore che qualcuno si rivolga a lui e scappa in bagno con la faccia rossa.
Quando ha finito si infila la maglietta nei pantaloni. No. Tirandola fuori si tasta le anche, sono più morbide del solito. Una goccia di sudore gli scende dalla fronte fino al naso e cerca di asciugarsi con le mani. In un attimo ha iniziato a sentire un gran caldo e fa fatica respirare.
Continua a tenere le mani sul viso nascondendolo. Immagina che i suoi palmi siano il legno fresco e liscio di una maschera africana che separa la sua pelle dal mondo, e dopo poco sembra ritrovare il respiro.
Infila di nuovo la maglietta nei pantaloni ed esce dal bagno.
«Ci hai messo un’eternità. Credo di aver capito dove dobbiamo andare.»
Sara sta guardando un pannello luminoso con la planimetria del centro commerciale e con un dito gli mostra l’uscita.
Mattia le posa delicatamente le mani sulle spalle, e sente i suoi muscoli irrigidirsi sotto i suoi polpastrelli.
«Ti prego, tirati fuori la maglia dai pantaloni.»
Una famiglia li accerchia per consultare il pannello touch screen. Tre bambini iniziano a sbattere le mani sullo schermo gigante, come marinai colpiscono sull’oblò di un sottomarino che sta affondando, chiedendo aiuto.
Un quarto, il più piccolo, sale su tutti i due piedi di Sara per raggiungere i suoi amici.
Sara stringe i denti e un pungo per il dolore. Alza il piede in aria, prende la mira e schiaccia le sneakers del bambino finché non è sicura di avergli fatto davvero male.