«Chi sono, mamma?»
«Nessuno, tesoro.»
«Ma vivono lì, nella casa grande?»
«Non lo so, tesoro. Camminiamo che è tardi. A quanto siamo?»
«456.»
«Forza allora. 457, 458, … Vai avanti tu.»
Un anno fa è morta la mamma. Sono venuta in paese in treno, oggi, e ho percorso a piedi la lunga scala che risale la collina fino alla casa della mia infanzia. Ho contato uno a uno i 563 gradini come quando avevo sette anni e la maestra diceva che non ero brava in matematica.
Al 456 esimo la casa grande è ancora in piedi, la porta d’ingresso è un buco attraverso cui si vedono il cielo e i nidi di rondine in quel che resta del tetto. Uno dei due leoni in pietra sui pilastri del cancello è ormai solo zampe e artigli, l’altro mi fissa minaccioso con i suoi piccoli occhi scuri.
«Qualche volta ti andrebbe di andare a giocare con i bimbi della casa grande, tesoro?»
«Quelli che abbiamo visto l’altra mattina, mamma?»
«Sì, la bimba ha sette anni come te.»
«Chi sono, mamma? Da dove vengono?»
«Vengono da un paese lontano al di là dell’oceano.»
«Ma non vanno a scuola?»
«No, non vanno a scuola, tesoro.»
«E perché non ci vanno?»
«Sono scappati dal loro paese e ora sono in vacanza.»
«Perché sono scappati?»
«Perché non erano d’accordo.»
«E perché non erano d’accordo?»
«Perché no. Ora basta. È ora di cena.»
Non vedrò mio fratello Marco neppure oggi. Se sa che vengo a casa, esce e sta fuori tutto il giorno. L’ultima volta che gli ho parlato, un anno fa, è stato in ospedale. Era stanco, ha detto, aveva fatto lui le notti, le aveva tenuto lui la mano mentre moriva. Io sono arrivata troppo tardi a baciare una fronte fredda.
Si è arrabbiato, Marco, dopo. Mamma ha chiesto di me tutto il tempo, la sua ultima parola è stata per me. È stato il mio nome. Marco piangeva come quella volta che si è rotto il braccio cadendo dall’albero e lei lo ha sgridato.
Lui pensa che mamma abbia sempre preferito me, ma non è vero. Mi ricordo il giorno in cui si è diplomato. Sono rimasta a casa con lei, quella mattina, la guardavo correre da una parte all’altra del salone con lo straccio in mano, alla ricerca di invisibili granelli di polvere, del più piccolo oggetto fuori posto. «Non si può vivere così» ripeteva, cupa. Al cigolio del cancello fu come se i suoi occhi cambiassero colore, come se fossero esistiti da sempre solo per guardare mio fratello, bello da togliere il fiato nella camicia che non indossava mai.
Le volte che Marco rientrava tardi, invece, lei lo aspettava in silenzio, seduta sul bordo del letto, dondolandosi piano avanti e indietro, lo sguardo rivolto alle fotografie sul comodino, le mani sulle braccia, come per tenersi caldo. «Tuo fratello mi dà pensieri» mi disse in una di quelle sere. «Meno male che ci sarai tu a bagnarmi le labbra mentre muoio.»
«Marco.»
«Che vuoi, Topolina? Non lo vedi che sono in bagno?»
«Devo chiederti una cosa.»
«Chiedi a mamma.»
«Mamma dice che devo andare a trovare i bambini della casa grande.»
«Brava, vai e chiudi la porta.»
«Mamma dice che vivevano oltre l’oceano e sono andati via perché non erano d’accordo.»
«Ah sì? L’ha detto mamma?»
«Ma che cosa vuole dire che non erano d’accordo? Tu lo sai?»
«Beh, in quei paesi se non sei d’accordo con chi comanda ti fanno cose bruttissime.»
«Come cosa?»
«Tipo che ti portano su un aereo e ti buttano giù, in mare, dove non si tocca.»
«Anche se non sai nuotare?»
«Soprattutto se non sai nuotare.»
«Come papà?»
«Come papà cosa?»
«Se non sai nuotare come papà?»
«Non dire scemenze, Topolina. Papà nuotava meglio dei delfini.»
«E ora dov’è?»
«Lo sai. È con i pesci. Ora chiudi la porta e levati dai piedi. Anzi, no, aspetta.»
«Sì?»
«Ci vai solo se vuoi, dai bimbi della casa grande. Parlo io con mamma.»
Le volte che Marco e mamma litigavano, lei si confondeva e lo chiamava con il nome di mio padre. «Non si può vivere così, Pietro», gli diceva lei. «Con te e tuo padre non si può mai parlare.»
Dev’essere per quella frase che ho cominciato a sognare papà, con il cappello da comandante di nave, uguale a com’era nella foto bella delle nozze, sul comodino di mamma. Lo immaginavo giovane, in uniforme, gli occhi chiari con dentro un mare di cose da dirmi. Eppure, nel sogno, mi accorgevo che non riusciva a pronunciare il mio nome. Le labbra erano un unico pezzo di carne chiuso. Mio padre non aveva la bocca.
Il mare di cui erano pieni i suoi occhi fuoriusciva a fiotti, si riversava per terra come un fiume in piena, mi prendeva tra le sue onde e mi spingeva via da lui, dove non si tocca e chi non sa nuotare affoga.
«Ciao come ti chiami?»
«Monica!»
«Io sono Chiara. Ho sette anni come te! Al tuo paese ci vai a scuola? Posso chiederti perché non eravate d’accordo?»
«Monica!»
«Non ti ho chiesto il nome… Sei stupida che non capisci?»
«Monica!»
«Ma… non parli l’italiano?»
«…»
«Almeno sai nuotare?»
Ho imparato a nuotare a sei anni nel mare sassoso vicino a casa. Era già qualche giorno che Marco mi aveva tolto un bracciolo e aveva bucato l’altro. Diceva che non lo aveva fatto apposta, ma non gli ho mai creduto. Avevo paura ad andare dove non toccavo senza braccioli, ma se Marco mi faceva mettere sulla sua schiena, come uno zaino, allora stavo bene. Non succedeva spesso che lui accettasse di portarmi al largo. Quel giorno mi disse subito di sì, si immerse nell’acqua calma della riva e io feci scivolare le mie braccia attorno al suo collo. «Sbatti i piedi, Topolina!», mi disse lontano da riva, vicino allo scoglio piatto. Era un gioco che facevamo spesso quando mi portava al largo, io ero il motore del fuoribordo, lui la carena.
«Uno, due tre, niente paura e vai!»
Fu veloce a sfilarsi le mie braccia dal collo e inabissarsi verso il fondo. La paura mi fece bere parecchia acqua salata. Riuscii a respirare solo quando lui riemerse di fianco allo scoglio piatto e mi gridò di chiudere la bocca e sbattere le gambe. Nuotai a cagnolino e non appena lo raggiunsi, terrorizzata, lo riempii di pugni sulle braccia più forte che potei. Mi abbracciò ridendo e mi disse che avrei ricordato per tutta la vita quel giorno. Perché quel giorno avevo imparato a nuotare. Perché quel giorno avevo affrontato la mia paura più grande. E avevo vinto io.
«Monica, guarda: ho portato i fogli e i pennarelli, così possiamo disegnare. Tieni un foglio. È bello disegnare!»
«Bello.»
«Ecco, io disegno il mare. Questa è la spiaggia e questo lo scoglio piatto. È difficile nuotare fino lì sai? Magari quest’estate ci andiamo insieme. Ma tu sai nuotare?»
«…»
«Non ti preoccupare ti insegno io. Ho disegnato noi due che nuotiamo qui davanti. Ora disegna anche tu.»
«…»
«Sì il tuo mare è bello come il mio. Io però ci ho messo il mio papà qui, sul fondo, vedi? Lui nuota con i pesci, sai?»
Una settimana fa l’ala del cimitero in cui era sepolta mia madre è crollata in mare. Se lei lo avesse saputo, io e Marco non avremmo avuto pace. Mia madre sentiva il bisogno di avere una casa lì, sentiva il bisogno di riporre il ricordo delle persone in un posto preciso, come la caffettiera sta nella credenza sopra i fornelli, le lenzuola pulite e stirate stanno nel secondo cassetto di camera sua. Come mio padre è posato sulla tomba dei miei nonni.
L’ha fatta mettere lei la foto di mio padre su quella tomba. Mi sorrideva lucido di ceramica ogni volta che lo andavo a trovare. Eppure nessuna cellula putrescente, neppure un capello o la più piccola delle sue ossa è mai stata in quel loculo. Lui è sempre stato in mare ad aspettare mia madre.
Tutto l’anno ho usato la tomba di lei per comunicare con Marco.
«Io mi sono occupato di mamma da viva,» ha detto mio fratello il giorno del funerale. «Ora tocca a te.»
Sono state le ultime parole che gli ho sentito pronunciare, credo. Guardava un punto dietro di me mentre parlava, la mascella contratta, le dita che tormentavano la barba brizzolata, come volesse staccarne i peli uno per uno.
Per tutto l’anno sono andata al cimitero con qualcosa in mano: un fiore nuovo, un bigliettino, una lettera. Lo posavo sulla tomba di mia madre, come una figlia devota che non è capace di superare il lutto. Ma quelle parole, quei colori non sono mai stati per lei.
Passavo intere serate al tavolo di cucina a riempire fogli di segni sottili, della mia inutile vita, dei miei ricordi. Interi fogli di perché, come se spiegare il motivo per cui hai fatto qualcosa di sbagliato lo rendesse tollerabile. Perché tanti anni fa sono andata ad abitare in città e non sono più tornata, perché ho lasciato il fardello di mia madre sulle sole spalle di mio fratello. Perché io mi sono salvata, scappando. Ho riempito intere lettere solo per dirgli perdonami.
Mi illudevo che lui leggesse ogni singola parola, che, nel suo ostinato silenzio, mi ascoltasse ancora.
Ora non c’è più niente. Solo un muro crollato. Il ricordo di mia madre non ha più un posto e io e Marco non abbiamo più niente da dirci.
Non si può vivere così.
«Vieni, Monica, andiamo di sopra in bagno, dove c’è la vasca grande.»
«Sì»
«Non lo dire alla mamma ma io adesso ti insegno a nuotare. Va bene?»
«…»
«Non ti preoccupare, la vasca da bagno è bassa e nell’acqua tocchi. Ecco, ora riempiamola fino all’orlo.»
«…»
«Devi entrare e metterti sulla schiena. Così, vedi? E poi sbatti le gambe! Hai visto che galleggi? È facile, vero?»
La casa della mia infanzia è rimasta come allora. Suono il campanello del cancello e aspetto qualche minuto prima di inserire la chiave nella serratura. Lo so che Marco è uscito per non incontrarmi, eppure suono lo stesso. Nella mia cameretta al piano di sopra la luce del sole filtra tra le tende rosa mostrando l’allegra danza del pulviscolo nell’aria. I miei vecchi peluche mi guardano mesti dalle mensole della libreria, ricordando il tempo in cui Marco li dirigeva in complicati spettacoli teatrali solo per me. Mio padre sorride ancora sotto un velo di polvere dalla foto bella del matrimonio, in camera dei miei, negli occhi il mare di cose che non ha mai potuto dirmi. Nella vasca da bagno il rubinetto perde un filo d’acqua, che ha lasciato un segno calcareo sulla ceramica. In cucina regna un disordine innaturale. «Non si può vivere così», direbbe mia madre.
«Che vi è preso Topolina? Perché avete fatto quel pasticcio con la vasca da bagno?»
«Monica non sa nuotare, le ho insegnato io.»
«Topolina, non si può imparare a nuotare nella vasca da bagno.»
«Mi dispiace, Marco. Posso tornare da loro mercoledì prossimo se chiedo scusa a mamma?»
«Non credo, mi spiace. Hai sentito anche tu, vanno via, tornano nel loro paese.»
«Ma non possono! Monica non sa ancora nuotare!»
«Non piangere, Topolina, non possiamo farci niente. Staranno bene. Ci scriveranno, vedrai.»
La porta della camera di Marco è chiusa. È già la terza volta che metto la mano sulla maniglia e poi la ritraggo di scatto. Lo so che non è giusto entrare. È un suo diritto non parlarmi, non volermi incontrare.
Ma io voglio solo vedere qualcosa di suo. Ho bisogno di vedere come sta, ora.
Non posso vivere così.
«Topolina, una lettera per te. È di Monica, la bimba che andavi a trovare l’anno scorso alla casa grande.»
«Non la voglio, buttala via.»
«Perché?»
«Non voglio e basta, tienila tu se vuoi. A me non interessa.»
«Guarda che la apro.»
«Fai come ti pare.»
«Dai, Topolina. Uno, due, tre, niente paura e v…»
«Marco, no. Buttala via e basta.»
Uno, due, tre niente paura e vai, chiudo gli occhi e spingo forte sulla maniglia. Il letto è sfatto, la finestra aperta fa entrare un’aria fresca e una luce che abbaglia. Sulla scrivania sono ammucchiate pile di libri di mamma, la sedia è coperta di vestiti.
Faccio il giro della stanza, apro gli armadi, respiro il suo odore. Decido di sdraiarmi nel suo letto come quando ero piccola e avevo paura a dormire da sola.
E la vedo.
Sul cuscino è posata una busta ingiallita, vecchia, il bordo è tagliato con il coltello. La prendo tra le dita, cerco di decifrare la scrittura incerta, le lettere sbavate.
C’è scritto il mio nome, ma non sono di Marco quelle lettere tonde. Sono le lettere di una bambina.
Guardo all’interno, estraggo il foglio spesso piegato in quattro. Lo apro piano, per non rovinarlo.
È lui, è il mio mare, io e Monica nuotiamo a galla, mio padre nuota con i pesci sul fondo.
Non l’ha buttata via. L’ha tenuta tutto questo tempo.
Sento il cigolio del cancello che si apre e la mia mente lo ignora, come chi abita vicino alla ferrovia ignora il rumore dei treni che passano.
E se la lettera fosse lì per me?
Sento la chiave che gira nella toppa e il mio cuore perde un colpo. Mi blocco come una preda che sente l’odore del predatore e non sa dove scappare.
Uno, due, tre niente paura e…
Vedo la maniglia che si abbassa, piano, la lettera mi cade di mano, scivola lontano da me.
Uno, due, tre, niente paura e…
Lui entra e mi guarda. Anch’io lo guardo.
…vai.
Mi sorride.
Era lì per me. Lui è qui per me.
Gli sorrido.
«Ciao Topolina.»