Non avevo nozioni di arte, non avevo nozioni di fisica, ero lunga un metro. I grandi si riposavano dopo pranzo e mi lasciavano sul letto in canottiera a doverli imitare. Il letto stava addossato con il lato lungo contro la parete, sovrastato dalla stampa di un dipinto di Braque. Era il letto di mia madre da ragazza. Non avevo nozioni di arte, non avevo nozioni di fisica: il quadro mi spaventava perché temevo sarebbe caduto staccandosi dai chiodi in alto, allontanandosi dalla parete per lanciarsi in avanti, come per un tuffo di testa. Allora aderivo al muro, mi sembrava una soluzione. Ero lunga un metro e rotolavo e aderivo e credevo di salvarmi. I quadri non cadono così ma cosa ne potevo sapere. Cadono proprio lisci lisci in verticale, aderenti ai muri, dove mi sentivo al sicuro. Ma nemmeno conoscevo le lettere che servivano a scrivere Braque.
All’improvviso in camera c’è anche mio fratello, va verso il letto. «Attento» gli dico. Ma sto zitta da molto a guardare il muro: lo raggiunge un versaccio rauco e s’è fatto già tardi, lui è già sul letto, seduto sulla mia testa. Infila una mano sotto il sedere, la passa sulla coperta per controllare se ha schiacciato qualcosa ma non trova niente. Torno a guardare fuori dalla finestra sperando che non mi faccia domande.
Le cime degli alberi ondeggiano morbide. Vorrei fosse un fresco dondolare causato dal vento, ma fuori c’è caldo torrido. I palazzi più lontani, il convento sulla sinistra, un tratto della metropolitana in superficie: tutto trema nell’afa come un miraggio. Nel corridoio i passi dei traslocatori vanno e vengono e si allungano e incrociano in una danza pesante. Sono quattro grossi uomini, tre di loro si chiamano Peppe. Già da qualche ora fingono di doversi riposare proprio davanti a questa stanza, invece con la scusa guardano dentro, osservano nervosi le azioni incompiute in cui sguazziamo: scatoloni che non riempiamo, pezzi di scotch che penzolano, cornici addossate all’armadio insieme a un rotolo di pluriball intatto. I traslocatori sono preoccupati.
«Te la ricordi la stampa di Braque? Che fine ha fatto?»
«No» risponde mio fratello, ma non credo mi abbia veramente sentito. Guarda qualcosa ai miei piedi, sul pavimento. Non insisto.
Certo, l’ho notato: stanno portando fuori scatole sempre più piccole. Uno dei Peppe è passato pochi minuti fa carico di buste blu Ikea. Erano in fondo alla cucina, le prime cose messe via, oggetti dalla forma irregolare difficili da inscatolare. Significa qualcosa.
L’afa avanza inesorabile, non si limita più ai tetti e alle cime, ai bordi, ma conquista le finestre degli ultimi piani e dei penultimi, i tronchi nodosi, i pali della luce. È un caldo che arriva al centro delle cose. Qui è sempre successo tutto d’estate. La stagione ci trovava indolenti e ci voleva pronti a tutto: ci sono abituata. Sento sulle scapole gli occhi di mio fratello. Spero di non stare calpestando nessuno.
*
Per molto tempo Emma aveva pensato che il palazzo di fronte crescesse lento come un filo d’erba. Certi pomeriggi finiva per credere che non si sarebbero mai trasferiti. Aveva cominciato a osservare il cantiere un anno prima, per svago. Poi una sera il padre era tornato a casa sventolando un foglio: avrebbero comprato uno di quegli appartamenti quando sarebbero stati ultimati. Fu una gran festa, nessuno di loro tre amava particolarmente la villa che era decrepita, piena di spifferi e voci nelle pareti e centenarie presenze tra le assi di legno dei solai. Così l’osservazione di Emma si era fatta più attenta e i migliori pomeriggi erano trascorsi sul terrazzo della villa a guardarlo crescere. Se a scuola prendeva un bel voto, lo interpretava come un segno: si convinceva che, tornata a casa, avrebbe guardato fuori e ci sarebbe stato un piano in più, un premio offerto per lei. Ma non succedeva quasi mai, anzi si era persa la nascita del quarto piano per colpa della zia Armanda che, vivendo sola, aveva avuto bisogno della loro assistenza. A inizio estate, appena finita la scuola, lei e la madre s’erano dovute trasferire un’intera settimana dalla zia ad Arienzo, dove abitavano certi parenti di papà ma erano tutti troppo vecchi per prendersi cura di qualcuno oltre che di sé stessi. In generale cercava di non pensare ai brutti scherzi che le tirava il destino sotto forma di zia, preferiva concentrarsi sulle promesse del futuro, sulle caratteristiche degli appartamenti, e non faceva che parlarne, soprattutto a scuola.
Poi però c’era stato il fatto con Laudati della II C e aveva dovuto smettere.
Una delle cose di cui parlava più spesso erano i doppi accessori, tutti gli appartamenti in costruzione avevano i doppi accessori. Nel gruppetto che stava ad ascoltarla durante l’intervallo, Laudati era intervenuta per dire di avere sempre avuto due bagni in casa, proprio non capiva tutta questa emozione. Aveva guardato Emma in un modo in cui lei non aveva mai guardato nessuno: come si guarda una persona sfortunata quando non ti sta a cuore la sua sorte. Emma le si era aggrappata di peso alla treccia e aveva tirato con tutta la rabbia e la frustrazione pensando alla lentezza dei fili d’erba e a quel buco di paese che era Arienzo, e l’aveva trascinata lungo il corridoio fino alla sala insegnanti da cui era corsa fuori suor Piera in uno svolazzare di stoffe nere che pareva uno stormo di corvi. A Laudati colava il naso e i capelli assomigliavano a una scopa. Nel trambusto le aveva riso in faccia come a sfidarla. Laudati aveva fatto un passo indietro. Un altro momento così felice Emma non se lo ricordava.
La punizione però era stata tremenda. Fino a nuovo ordine, a scuola avrebbe passato la ricreazione in piedi in sala insegnanti, recitando l’Ave Maria a voce sufficientemente alta perché suor Piera la sentisse. A casa le erano state vietate le visite delle amiche e i pomeriggi in terrazza per tutto il mese successivo. Confinata nella sua stanza, le rimaneva una misera finestra che si affacciava sul lato opposto della villa e da cui si vedevano i tronchi grinzosi di due palme e il viale sterrato e scuro che portava alla strada principale. Odiava il viale e quello che rappresentava: la separazione dal resto delle cose. Odiava che il postino non superasse mai il cancello, e così il fruttivendolo col carretto, e il robivecchi. Quello che di eccitante succedeva a scuola svaniva lungo il viale umido, impallidiva mano a mano che la suola delle scarpe diventava fredda e scivolosa, e una volta davanti alla porta di casa non ne rimaneva traccia. Trenta giorni con vista sul viale: per morire sarebbe bastata la metà. Ma aveva tenuto duro, affogando l’insofferenza nello studio. Aveva preso un bel voto al compito di matematica e all’interrogazione di geografia.
Quando le era stato finalmente permesso di tornare in terrazza, il palazzo di fronte aveva un piano in più. Il cuore batteva tra le costole come un pugno su un portone.
Ci erano voluti altri cinque mesi e mezzo per chiudere il cantiere. Il palazzo si innalzava nientemeno che per sette piani. Emma non era mai salita su un ascensore: le girava la testa al pensiero, la villa aveva solo due piani. Suo padre le stringeva la mano la prima volta che ci era salita. Emma non aveva paura ma aveva chiuso gli occhi. Nel buio delle palpebre le era apparsa suor Piera. Era sicura che nemmeno lei fosse andata tanto in alto, così vicino ai santi e a Dio.
*
Sto sempre a spiegare un mucchio di cose ai bambini, ad esempio che incollavamo la carta alle pareti per scopi decorativi. Mi pento prima ancora di finire la frase.
«In che senso la carta sulle pareti, papà? Che significa scopi decorativi?»
È una frase piena di insidie, troppi riferimenti da spiegare. Faccio riposare gli occhi nel palmo della mano. I bambini fanno un casino della madonna, spero che perdano presto interesse. Altre cose che ho dovuto spiegare loro: i giardinetti pubblici, la raccolta differenziata, le polaroid, i cani da appartamento. Mi guardano come se fossi pazzo.
Penso che resteranno le palme. Nel fitto verde che vediamo dalla finestra si distinguono solo due palme. Il resto è un intreccio buio di rami e radici, sterpaglie, fango, i resti di un edificio e non so che altro perché anche guardando col binocolo si capisce poco. Nessuno si avventura mai lì. Certamente ci si sono insediati dei gabbiani, fanno la ronda sulle nostre teste ogni giorno alla stessa ora. E poi c’è il cane che ulula e ringhia tutta la notte dal punto dove ha pensato di farsi la cuccia, inizia appena si fa buio, si accampa vigile nelle nostre orecchie proprio quando dovremmo provare a riposare. Sono sicuro che si tratti di due cani, almeno. E canilupo forse, canigatto, canilince, cani incrociati su incroci di incroci da millenni, una genìa diabolica e corrotta. Ma non l’ho detto ai bambini, tanto nessuno si avventura da quelle parti. Non è un’informazione necessaria. Invece è necessario spiegare loro la paura e quanto sia importante provarla per il cane della sera. Allora per mostrarsi attenti ai miei occhi i più piccoli guardano un punto fisso nel buio credendo di vederci qualcosa – un baluginio di pupille, un naso umido, dipende da quanto buona è stata la mia descrizione – fino a che crollano con la faccia contro il vetro. Stanno disordinati sul pavimento, mezzi sovrapposti come le foglie che cadevano sul marciapiede. Li lascio riposare con le braccia e i colli in quelle posizioni innaturali. I bambini di mezzo riescono a rimanere svegli più a lungo e mi tormentano con dubbi e domande, «Com’era possibile il cane d’appartamento se tu hai detto che quello fuori è un cane?». Dovrei spiegare gli animali da compagnia, la mano in mezzo al pelo caldo, riporta la palla, le domeniche pomeriggio. Forse un’altra sera, adesso sto per terra un po’ in disparte per nascondere il tremore delle mani.
*
Da Arienzo si erano portati dietro Addolorata, una nipote dalla parte del marito di zia Armanda. Correva più veloce di Emma e conosceva i nomi degli alberi. Mentre la zia si riprendeva, insieme avevano esplorato i campi bruni tutto intorno e segnalato con dei sassi gli alberi su cui c’erano nidi. Addolorata non era mai stata a Napoli e avrebbe fatto una vita che non ce l’avrebbe mai portata. Gli adulti la pensarono come un’opportunità per lei e una compagnia estiva per Emma. Ma sul terrazzo della villa non c’era niente che l’animasse. Emma si sbracciava per spiegarle la struttura di fronte, i doppi accessori, le altezze; Addolorata si distraeva presto. Le formiche, dal parapetto di pietra, le salivano sulla mano e poi sul braccio. Si lasciava percorrere immobile come aspettando che le giornate finissero.
Una sera Emma sentì la madre dire preoccupata nella cornetta del telefono «Ci muore, qui» e Addolorata fu rimandata ad Arienzo dopo solo due settimane dal suo arrivo.
Avevano fatto in tempo a farle una foto con Emma, come un ricordo da portare a casa. Stavano sulla terrazza assolata ed Emma aveva arrangiato tutti i vasi delle piante grasse in un semicerchio alle loro spalle, una composizione che le pareva gradevole. Addolorata si era fatta stringere la mano ma la rigidità del corpo pareva una richiesta di essere risparmiata.
Adesso Emma riguardava la foto, nel suo nuovo letto, nella sua nuova camera rivestita di carta da parati giallo ocra e giallo senape che pareva di stare in una forma di groviera. Addolorata non se l’era portata la foto, non voleva più avere niente a che fare con la villa o col cantiere o con la città o con lei. E chissà, se l’avessero ospitata in questo appartamento al settimo piano che pareva di stare in una forma di groviera, forse avrebbe implorato di tornare ad Arienzo il giorno stesso del suo arrivo. Emma se l’immaginava scalza come l’aveva sempre vista al paese, a cercare nuovi nidi su nuovi rami e a dimenticarsi completamente di lei.
Andò in uno dei due bagni, si trattenne lo stretto necessario. Tornò in camera sua, sciabattando lungo il corridoio. I muri erano sempre lì come uno scherzo. Che si potesse scegliere una carta da parati del genere la mandava fuori di testa.
Aveva dovuto aspettare di compiere 17 anni per avere il permesso di appenderci quadri e foto e cornici, fino all’ultimo centimetro disponibile, tutto pur di non avercela sotto gli occhi.
*
I ragazzi grandi mi rimproverano di non fare abbastanza. I pochi coetanei che hanno trovato riparo qui ma non vivono con noi stanno ormai da soli e per lo più ai primi piani, così è più veloce uscire per procurarsi cibo e oggetti utili. Aiutano chi ha bisogno, cioè tra gli altri anche noi. Uno di loro mi chiede aggressivo «Quando non ci sarai più come pensi che ce la caveremo?»
Non so rispondere così indico un punto fuori. Racconto che all’incirca da quelle parti passava la metropolitana, un breve tratto in superficie. Uno dei bambini di mezzo mi sente.
«Sei davvero così vecchio?» domanda dubbioso.
Uno dei bambini piccoli grida da un angolo «Cos’è la metropolitana, papà?».
Il ragazzo grande che mi rimproverava dà un calcio a una lattina vuota di legumi che stava per terra.
«Ovvio che non è così vecchio, che cazzo ti viene in mente» urla al bambino di mezzo. E poi «Non è davvero tuo padre, te l’abbiamo spiegato cento volte» a quello più piccolo.
Tutti si girano a guardarmi – sono quindici tra piccoli, medi e grandi – e questi tre in particolare non hanno intenzione di sorvolare o bersi una delle solite storie sul passato lontano e mitico che nessuno ha vissuto. Cerco uno sguardo che vada bene per le loro tre diverse delusioni ma non sono capace di un lavoro di sintesi così raffinato. Tento tre sguardi, uno dedicato a ogni delusione, e scopro di non essere capace nemmeno a far questo. Allora esco su quello che era il pianerottolo cos’è pianerottolo papà, e mi sporgo oltre la balaustra non sporgetevi per nessun motivo oltre la balaustra bambini, e l’unico sguardo che posso sostenere è quello che mi restituiscono le profondità pericolanti delle scale. «Sei solo stanco» mi fa l’uomo che ha il riparo più in là, in un ex appartamento mezzo sfondato. «Tutti sappiamo quanto è difficile e importante quello che fai con i ragazzi». Tiene un pezzo di legno tra le labbra come fosse una sigaretta e annuisce comprensivo. «Ti serve qualcosa? Una squadra esce tra mezz’ora». Prende il pezzo di legno tra medio e indice proprio come si faceva con le sigarette. È gentile. Arriccio la faccia in una specie di sorriso e lo lascio lì. Una volta dentro dico al ragazzo grande «Va’. Fatti trovare giù». Mi trema la voce. È incredibile che riesca ogni giorno a interpretare il ruolo di padre.
Stava guardando la boscaglia col binocolo. Si volta risentito.
«Una squadra esce tra mezz’ora».
Se ne sta in piedi impalato col binocolo contro la coscia.
«E copriti la testa, il sole è basso ma ci saranno già 40 gradi».
Scandaglia la stanza in cerca delle sue cose. I piccoli lo guardano in soggezione come se non mangiassero tutti dallo stesso piatto.
Gli tornerà pure utile una delle storie che gli ho raccontato, anche solo un minuscolo particolare, mi dico.
*
Mio fratello mi chiede se mi ricordo di una scatola di legno piena di foto vecchie. Era di latta, non di legno.
«No, zero» gli rispondo ancora risentita per prima.
«Sicura? Era sempre in giro per casa quando eravamo piccoli. Le foto erano in bianco e nero, con i bordi ondulati o strappati. Ci giocavo quando ero malato e stavo a casa da scuola.»
Faccio no con la testa.
«Mi ricordo la foto di una donna in una corsia di ospedale. I letti erano riconoscibilissimi, hai presente?»
«Penso di sì.»
«Mi dicevo: che razza di posto per una foto?!»
Mi viene da ridere.
Ride anche lui ma non capisce perché. «Sbaglio? Cioè, scegli di farti fotografare in ospedale?»
«La bisnonna faceva l’infermiera» dico.
«Ma allora sei stronza, te la ricordi la scatola o no?» e mi punta l’indice contro come se avesse scoperto una gran truffa. Poi torna a mettere le mani aperte e parallele, come se la tenesse sulle ginocchia la scatola, per farmela vedere bene.
«C’era un uomo in divisa con i baffi, mamma da bambina, comunioni e battesimi, fototessere. Quando per i 16 anni mi regalarono la polaroid ci aggiunsi anche quelle che facevo io. Impossibile che non te la ricordi».
«Era di latta, idiota» faccio tornando a guardare fuori e mentre battibecchiamo arriva uno scossone fortissimo che fa tremare le pareti. Devo tenermi alla maniglia del balcone, mio fratello rimane sul letto ma raddrizza la schiena.
Ci guardiamo sconcertati.
I traslocatori stanno passando nello spazio inquadrato dalla porta. Sono più alti di prima e per sbirciare dentro devono chinarsi. Prima Peppe, poi Peppe, poi Peppe: a turno ci guardano dritto in faccia. I loro passi di pietra si allontanano nel corridoio, ma continua a venir giù una polvere d’intonaco dal soffitto. Recuperiamo l’equilibrio io e mio fratello, e poi lui dal nulla dice «Non mi sentivo mai solo con quella scatola», come se non fossimo stati interrotti.
Mamma è magrolina e bianca, e un suo passo non solleverebbe una zanzara. Entra in camera senza nessuna apprensione ma io e mio fratello le andiamo incontro veloci portando preoccupazioni e domande cos’era quella scossa, ti ricordi il quadro con la stampa di Braque, che fine ha fatto la scatola con le foto, c’erano le più vecchie ma anche le polaroid. Ci guarda divertita per qualche istante e trova il tempo di rimproverarci tutta la pigrizia che vede in giro, «Dovete sbrigarvi» dice «è già quasi tutto sul camion» e noi piagnucoliamo che non siamo pronti ad andare, vogliamo proprio essere trattati come bambini e carezzati sulla testa. Presto le pareti ricominciano a tremare, più violentemente persino, e mamma allarga le braccia per tenerci un passo dietro a lei come se potesse effettivamente difenderci da qualsiasi minaccia. I passi dei traslocatori rimbombano nelle viscere dell’edificio ma la voce di mamma è solida e non trema, «se non siete pronti ci prenderemo ancora un po’ di tempo» dice risoluta e nella stanza compare una folla, alcuni uomini in divisa poi donne forti e scure come quelle di campagna e certi ragazzini vestiti di pezze con le facce truci da combattenti. L’aria si riscalda velocemente, l’afa conquista il centro. L’intonaco continua a venir giù e il rumore è assordante. Sono vicini.