Sciamune

11 agosto 1987, ore 18.00 Piazza della Chiesa di Santa Maria Maddalena, Uggiano la Chiesa: Checco il Pagliaccio e le sue spettacolari magie.

Nostro padre dice che ci porta a vedere lo spettacolo del clown.
Da settimane il paese è tempestato di locandine raffiguranti il suo volto arcigno cosparso di cerone, i capelli verdi striati di scuro.
«È un pagliaccio papà» dico e lui mi guarda come se gli avessi chiesto di prestarmi l’accendino.
«Hai detto che è un clown, invece è un pagliaccio» continuo.
«Che differenza c’è?» chiede mentre infila sandalini di gomma ai piedi di mio fratello.
«I clown sono dentro il circo e i pagliacci per strada»
«Secondo me non è vero» prende mio fratello in braccio, lo guarda come se cercasse una risposta in quell’espressione perennemente distante. Poi si avvia verso la porta di casa, ordinandomi di sbrigarmi.
Mio fratello Enrico è nato con un ritardo.

Abbiamo casa a Lecce ma tutte le estati le passiamo a Uggiano la Chiesa, che sta a cinque chilometri da Porto Badisco. Andiamo al mare e qualche volta lo zio Franco mi porta con lui a prendere i ricci. Mi viene a svegliare quando non ha ancora albeggiato, in un sacchetto di plastica mi porge degli stivali di gomma di un numero superiore al mio e, in un sacchetto di carta, un pasticciotto rovente. Mentre siamo sugli scogli a cercare il punto giusto e aspettare che il sole sorga quel tanto da permetterci di vedere dove stanno i ricci, parla sempre di quando viveva in Canada e delle belle ragazze con cui è stato fidanzato.
Un giorno gli ho domandato perché fosse tornato in Italia. Mi ha risposto «perché in Canada non ci sono i ricci»

«Non pensi io sia grande per guardare lo spettacolo di un pagliaccio?» chiedo a mio padre mentre siamo in auto.
«A dodici anni si è grandi? Devi stare con tuo fratello e controllarlo.» Mi risponde attraverso lo specchietto retrovisore.
«Tu non resti con noi?»
«Io vi aspetto al bar con lo zio Franco. Vi vedo dal tavolino, non ti preoccupare.»
«Cosa devo controllare?»
«Tutto»

Quando arriviamo, l’orologio sulla torre della chiesa barocca segna le diciassette e venti. Non c’è nessuno in piazza, giusto un paio di bambini e qualche anziano seduto sulle panchine all’ombra del Comune.
Sono tutti al mare, quelli di Uggiano a Porto Badisco, gli altri a Otranto, Porto Cesareo, Laghi Alimini, Torre dell’Orso, fino sulla punta della punta del tacco, a Santa Maria di Leuca.
I ragazzi sono andati a infilarsi nell’alveare del Ferragosto gallipolino.
Nostro padre ci lascia con un rustico da dividerci e si dirige verso il bar. Si siede a un tavolino di metallo sulla terrazza esterna, ordina una birra e prima che questa gli sia portata al tavolo, arriva lo zio Franco. Lo zio ci saluta agitando la mano.
Ci sediamo sulle scalinate, all’ombra della chiesa.
Stacco pezzi di rustico e li porgo a mio fratello. Li divora insozzandosi il mento e il naso di sugo e besciamella.
Enrico non parla, nonostante sia nell’età per farlo. Conosce poche parole e le distribuisce con attenzione. La sua preferita è grazie.
Un bambino si avvicina con un pallone tra le braccia, ci passa davanti un paio di volte osservandoci con attenzione, lo invito a raggiungerci con un gesto della mano.
«C’è il pagliaccio qui oggi, vero?» gli chiedo.
Stringe il pallone al petto come a temere di essere derubato.
«Quello della locandina» indico il poster di Checco il Pagliaccio, attaccato ad un palo della luce alle sue spalle.
Si volta, poi torna a noi.
«Nu ssacciu» risponde.
«Pensavo fossi venuto per il pagliaccio» gli dico.
Lui non risponde e guarda mio fratello che a sua volta osserva con attenzione il pallone, la bocca spalancata e un pezzo di rustico tra indice e pollice.
«Fraita è scemo?»
«Ti sembra scemo?» domando.
«L’ho già visto e mi pare tuppatu. Non parla mai e sta sempre con la bocca aperta.»
«È perché nessuno gli fa le domande giuste» dico. Enrico allunga una mano zozza verso il pallone e il bambino si allontana di un passo.
«E quali sono le parole giuste?» chiede.
«Non lo so. Forse il pagliaccio gli farà la domanda giusta»
Poggia il pallone a terra e ci si siede sopra a gambe larghe.
«E quando arriva stu pagliaccio?»
«Lo spettacolo inizia alle sei. Non manca molto.»
«Come ti chiami?» chiede a mio fratello, il quale si guarda un sandalo o forse le dita dei piedi, trovandole più interessanti.
«Non è la domanda giusta. Tu come ti chiami?»
«Mariolino.»
«Perché non sei al mare?»
«Non posso uscire. La nonna sta fiacca e mamma sta a faticare.»
Lo zio Franco fischia secco e il sibilo rimbomba nella piazza silenziosa. Mi fa un cenno della mano e ci avviciniamo al tavolino. Il bambino ci pedina rimanendo a qualche metro.
«Dove sta lu pagliacciu?» mi chiede.
«Non è ancora arrivato»
«Lo vuoi un bicchiere di latte di mandorla? Piglialo pure per fraita.»
«A lui non piace il latte di mandorla»
Un suono sommesso ma distinto interrompe la quiete della piazza facendosi sempre più importante. Tendo le orecchie. Dopo qualche istante capisco che è musica scaricata da degli altoparlanti.
«Ècculu» dice lo zio Franco, guardando oltre le nostre teste, verso Via Roma.
Mio padre afferra per un braccio Enrico, lo porta a sé e gli pulisce la faccia e le mani con un fazzoletto da bar. Mio fratello dice grazie.

È musica che profuma di qualcosa di dolce. Il bambino, con il suo pallone stretto-stretto tra le braccia, guarda mio fratello che si batte ripetutamente il palmo della mano sulla pancia, significa che sta provando un qualche tipo di emozione.
Nessuno può capire se sia un’emozione positiva oppure negativa. Però è un’emozione, per me e papà è già molto.
Una Panda 4×4 rossa procede cantando. Non si intuiscono chiaramente le parole nel gracchiare dell’unico altoparlante poggiato al finestrino aperto dal lato del passeggero, ma è una canzone felice in una lingua che nessuno di noi conosce.
L’auto si parcheggia poco distante, tra il bar e la chiesa. Il motore si spegne ma non la musica.
La portiera si apre e ne scende il pagliaccio.
Indossa infradito di cuoio e pantaloni molto larghi a bande nere e bianche. È a petto nudo salvo per un gilet sbottonato, con un grosso girasole infilato nel taschino sul petto. Noto alcuni tatuaggi sbiaditi. È volutamente spettinato, come se avesse deciso di utilizzare del gel per capelli con l’intento opposto a quello per cui è stato concepito. I suoi capelli sono verdi come lo smeraldo. Il volto però non è truccato.
Apre il bagagliaio e ci s’infila con tutto il busto, sembra essersi addormentato, poi un sussulto ed esce con un balzo. Ora il suo volto è bianco di cerone, a parte la punta del naso nera e le labbra rosse.
Recupera dall’interno dell’auto delle scarpe gialle, che potrebbero essere delle barchette a remi rubate giù a Badisco, e se le infila.
Si rituffa nel bagagliaio, uscendone solo qualche istante dopo, reggendo con entrambe le braccia un grosso baule rivestito di adesivi.
Guarda la facciata della chiesa, poi s’incammina come una papera verso il centro della piazzetta.
Mio padre mi da una spintarella e mi dice di andare, che ora comincia. Poi dice allo zio Franco che si prende un’altra birra, ma gliela deve offrire lui.
Una decina di altri bambini si uniscono a noi incuriositi dalla musica che proviene dal Panda rossa del pagliaccio. Io sono il più grande e mi sistemo alle spalle di tutti, lasciando Enrico in prima fila, al fianco di Mariolino.
Un’anziana vestita a lutto raccatta la sua sedia di legno e lentamente torna in casa.

Il pagliaccio è come se non avesse ancora notato i bambini seduti per terra, davanti a lui. Armeggia con l’interno del baule. Estrae alcune forme ricavate da dei palloncini, un grosso pettine nero e una clava di gomma. Apre la portiera del passeggero e ci infila un braccio. La musica si è spegne, torna il silenzio.
Il pagliaccio si volta per tornare indietro. Si arresta, guardando verso di noi stupito, come se si fosse accorto solo ora che siamo lì fin dal principio. Si guarda alle spalle, poi di nuovo verso noi, si porta un dito alle labbra e assume una caricaturale espressione stupita. Poi si avvicina lentamente, curvo in avanti, camminando a gambe larghe.
Lo spettacolo è iniziato.
Mio fratello si colpisce la pancia con il palmo aperto. Mariolino lo blocca e gli cinge le spalle con un braccio. Inaspettatamente Enrico non si sposta, non urla come spesso ha fatto in situazioni analoghe. Resta immobile, lasciando che il bambino lo abbracci.
Il sole sta tramontando ma il pagliaccio suda copiosamente e sudando il suo trucco si scioglie, colandogli sul collo e poi sul petto a impiastrarsi con la folta peluria.
Per tutto lo spettacolo ha provato a coinvolgere il suo minuscolo pubblico, ma con scarso successo.
Ha anche chiesto qualcosa a Enrico, il quale chiaramente non ha risposto. Mariolino, al suo fianco, ha urlato che non gli ha fatto la domanda giusta.
Al termine dello show, Checco il Pagliaccio corre e riaccendere la musica all’interno della Panda, poi torna facendo grandi inchini fingendo di cadere ogni volta che si curva in avanti. Solo ora i bambini ridono e applaudono.
Si allontana e si mette seduto in macchina. Chiude la portiera. La musica si attenua. Uno ad uno i bambini si alzano e tornano da dove sono venuti, chi verso il bar, chi verso casa. Alcuni affiancano la macchina e colpiscono con le mani la portiera e il finestrino, ridendo e urlando. Il pagliaccio non si muove, come se fosse stato spento e appoggiato dentro l’abitacolo in attesa del prossimo spettacolo. Dopo un po’ si annoiano e se ne vanno.
Mi avvicino a Enrico ancora lì seduto accanto a Mariolino e il pallone. Gli dico di seguirmi.
Il bambino mi guarda, dice «Lu pagliacciu è più scemo di fraita»
Gli sorrido e gli chiedo se vuole venire al bar con noi. Lui risponde che torna a casa da nonna, poi saluta Enrico toccandogli un braccio.
«Ciao eh» dice.

Seduto tra mio fratello e mio padre, osservo il pagliaccio mentre si strucca, con il bagagliaio della Panda aperto. Sfila velocemente le scarpe e poi i pantaloni. Indossa di nuovo gli abiti civili e un cappello nero con la visiera smangiata.
Chiude l’auto e si dirige verso il Comune. Entra e ne esce dopo una decina di minuti accompagnato da un ragazzo alto e abbronzato. Intanto è scesa la sera, c’è più fresco, Enrico sembra tranquillo, sorseggia Coca Cola in lattina da una cannuccia. I tavoli all’aperto sono al completo, turisti con le maniche delle camicie di lino arrotolate fino ai gomiti insieme alla gente del paese.
L’accompagnatore del pagliaccio è il Messo Comunale. Saluta lo zio Franco da lontano. Si urlano qualcosa in dialetto uggianese che nemmeno io riesco a capire.
Si avvicinano a noi.
«Lui è mio cugino» dice il Messo una volta arrivato al tavolo.
«Il clown» dice lo zio Franco.
Mio fratello si batte il palmo della mano sulla pancia, lentamente ma ripetutamente.
«Sono un pagliaccio, non un clown. Piacere Francesco» allunga una mano ancora sporca di cerone.
Lui e lo zio se la stringono, poi la stringe a mio padre. A me e mio fratello ci saluta.
«Eravate allo spettacolo voi?» mi domanda.
Faccio un cenno con la testa.
«Ssittative» dice lo zio Franco e il pagliaccio si accomoda davanti a me.
Enrico tiene la testa bassa, inclinata in un lato.
Mio padre lo guarda e, senza badare agli altri, mi chiede «Che cos’ha?»
«Deve andare in bagno» rispondo e aiuto mio fratello a scendere dalla sedia. Non oppone resistenza.
Entriamo nel bar e poi nel bagno sul retro.
«Cosa c’è Enrico?» domando quando siamo soli.
Lui non risponde, si guarda i piedi picchiandosi la mano sulla pancia.
«Ti fa paura il pagliaccio?» mi inginocchio e metto la mano sulla sua, bloccandogliela.
«È tranquillo, è arrivato con il Messo Comunale. E poi fa ridere, è stato bello lo spettacolo»
Mio fratello risponde grazie e lascia scivolare la mano lungo il fianco.
Torniamo a sederci sulla terrazza.
Lo zio Franco sta raccontando ai nuovi arrivati della sua vita in Canada. Quando ci sediamo papà mi si avvicina bisbigliandomi «Ha riattaccato con la storia del Canada. Adesso ce ne torniamo a casa»
«Domani ci porti al mare a Badisco?» domando.
«Certo.»
Mio padre prova a cambiare discorso, chiede a Checco il Pagliaccio se vive in zona.
«Sono barese, ma ho perso l’accento perché ho viaggiato molto, per lo più in Spagna e in Marocco. Sono stato anche in Albania per un po’» indica con un braccio verso l’Adriatico.
«E che ci sei stato a fare in Albania?» domanda lo zio Franco.
«Ho girato e sono capitato anche lì. Non è distante, in fondo. Da qui ci possiamo arrivare in barca» sorride.
Sono dispiaciuto per Enrico, è evidente che non è tranquillo, ma mio padre non lo capisce oppure finge di non notarlo.
Allora gli dico che vado a fare un giro e me lo porto dietro. Mio padre dice che dieci minuti e si torna a casa.
Dico che va bene e ci allontaniamo.
Mentre camminiamo sento mio fratello bisbigliare.
«Cosa hai detto?» domando, ma lui non risponde.
«Hai detto qualcosa, Enrico?» ci riprovo.
Camminiamo lungo Via Roma, ci fermiamo davanti ad un portone spalancato, guardo dentro e nell’ombra fresca intravedo solo altre ombre. Socchiudo gli occhi a prendermela.
Sento uno sciabattare alle mie spalle e vedo Enrico che affretta il passo, allontanandosi.
Mi volto e scorgo Checco il Pagliaccio.
«Vi ho spaventato?»
Non rispondo, raggiungo mio fratello e lo blocco. Ricomincia a bisbigliare qualcosa ma non posso capirlo, quasi non posso sentirlo.
Il pagliaccio ci raggiunge.
«Tuo padre dice che se ne vuole andare, così sono venuto a cercarvi»
«Perché ha mandato te e non lo zio?» domando.
«Questo non lo so. Vi è piaciuto il mio spettacolo?»
«Io sono grande per gli spettacoli dei pagliacci»
«Non esistono grandi e piccoli quando si è davanti a un pagliaccio. A tuo fratello è piaciuto?»
Mi sento a disagio e vorrei tornare da mio padre, ma lui blocca la nostra direzione. Ho anche paura di fare la figura del bambino impaurito.
«Perché non lo domandi a lui?» gli rispondo secco.
Checco il Pagliaccio guarda mio fratello. Si inginocchia.
«Ti è piaciuto il mio spettacolo?»
«No grazie» risponde lui.
Guardo Enrico come se avesse parlato per la prima volta in vita sua, mi domando se veramente abbia risposto alla sua domanda, ma a cancellare ogni dubbio è Checco.
«Oh, mi dispiace. La prossima volta cercherò di impegnarmi di più per farti ridere.»
«Grazie.»
Sono incredulo. Stringo con forza la mano di Enrico, vorrei trascinarlo via, ma ho i piedi impiantati nell’asfalto.
«Vi conviene tornare da vostro padre o credo si arrabbierà, anche se il più cattivo dei due mi sembra vostro zio» chiude con una risatina. Enrico bisbiglia qualcosa di incomprensibile, poi tace.
Mio fratello torna a battersi la mano sulla pancia e questo mi sveglia.
«Dobbiamo tornare» strattono Enrico.
Lui lo osserva per un attimo e, senza dire una parola, ci lascia passare. Mentre faccio il passo che mi porta da davanti a lui a dietro lui, sento un odore dolciastro e mi torna in mente la musica proveniente dalla Panda rossa quando è atterrato in piazza.
«Che canzone era all’interno della tua auto?» chiedo poi girando e notando che si era già voltato a guardarci mentre ci allontanavamo.
«Una bellissima canzone spagnola a cui tengo molto. Ora correte da vostro padre, mi sembra un po’ ubriaco, potrebbe dire cose che non deve» alza una mano pallida di cerone, poi si volta e s’incammina.
«Non riprendi la tua auto?»
Si ferma e si volta ancora una volta.
«La recupero domani, tanto non la rapisce nessuno quella vecchia scassona. Alloggio a Casamassella, qui dietro. Ci vado a piedi che è una bella serata»

Quando torniamo al bar, mio padre dice che è ora di andare, poi si volta verso il Messo e dice «Dov’è finito il pagliaccio? Ha detto che andava in bagno ma è sparito»
Mi si gela il sangue nelle vene.
«È tipico di mio cugino. È un tipo strano, sparisce senza dire nienzi a ciuveddhri. Non ha famiglia e vive in giro per il mondo»
«Nu vagabondo» dice lo zio Franco.
Mi volto verso la Panda, ancora parcheggiata nello stesso posto.
«Mé, Francuzzo portaci a casa che lascio qui la macchina» dice mio padre, rivolgendosi a mio zio.
«Sei brillo?» chiede il Messo Comunale.
«Chiudilo dentro il Comune. I fiji soi li porto a casa ieu» dice lo zio e mi fa l’occhiolino.
Ridono tutti, mio padre si alza facendo fracasso con la sedia di metallo. Aiuto Enrico e ci alziamo anche noi.

La mattina dopo ci svegliamo presto, ci mettiamo i costumi e andiamo in piazza per recuperare la macchina di papà.
La Panda del pagliaccio non c’è più.
«Papà, mi sa che hanno portato via l’auto di Checco»
«Figurati se portano via la macchina del cugino del Messo. Se la sarà ripresa ieri sera»
«Mi ha detto che l’avrebbe lasciata qui e sarebbe andato a casa a piedi»
«Quando te lo ha detto?»
«Ieri sera, lo abbiamo incrociato su Via Roma. Ha detto che volevi andartene ed è venuto a cercarci.»
«Mé, io non mi ricordo nienzi. Sciamune, che vi porto al mare»

Faccio fare i tuffi a Enrico stando attento che non si faccia male. Gli dico che deve sempre entrare prima con i piedi. Nuotiamo insieme mentre papà ci guarda dalla riva, con l’acqua ai polpacci, le mani sui fianchi e un costume a mutanda di un nero scolorito.
Nella tarda mattina arrivano due suoi amici e si mettono a parlare di politica, mentre io leggo Capitani Coraggiosi e Enrico gioca con la sabbia.
Poi lo zio Franco passa e mi dice se l’indomani voglio andare a prendere i ricci con lui. Gli chiedo se può venire anche Enrico.
Mio padre dice che non se ne parla.
Enrico non protesta. Non protesta mai.
Lo zio Franco dice che deve andarsene che ci sono problemi in paese e vuole capire se può dare una mano.
«Cos’è successo?» chiede mio padre.
«Nu casinu, si è perso un bambino.»
«Ma quando?»
«Stammane presto. Mammasa ha detto che è uscito nu n’è turnatu.»
«Ma magari torna.»
«Ora vedo se vogliono una mano a cercarlo che c’ho la macchina e pure la barca»
«E a che ti serve la barca?» domanda mio padre.
«Taggiu rispunnire?»

Al ritorno dalla spiaggia andiamo in piazza a prendere un latte di mandorla.
Quando arriviamo lo zio Franco è seduto a uno dei tavolini di metallo, con occhiali da sole a specchio e una tazzina di caffè vuota davanti.
«Non sei a cercare il bambino zio?»
«Aggiu cercatu, ma non ho trovato nienzi.»
«Non l’hanno trovato?» chiede mio padre sedendosi con baccano.
«Magari lo trovano. Le guardie si sono portate via pure il Messo.»
«Perché?»
«Perché è sparitu puru u pagliacciu e gli stanno facendo domande.»
«Il cugino?»
«Quello stava a Casamassella, ma hanno detto che non c’è più né lui né la macchina né la roba sua. Se n’è andato senza pagare il B&B. Può darsi ca nu c’entra nienzi però.»
Enrico comincia a bisbigliare, avvicino l’orecchio alle sue labbra e provo a comprendere quello che sta dicendo. È incomprensibile.
L’afa del tardo pomeriggio cerca di superare i perimetri di fresco tracciati degli ombrelloni del bar, vomitando calore addosso alla gente che non ha trovato riparo.
«Chi è il bambino?» domando.
«Quello persu? Mariolino. È de quai, la nonna sta mmore, la madre è fuori tutto il giorno a faticare. Sono poveracci. Vedi bene che a quello non lo controlla nessuno. Magari torna stasira con una cesta de ficalindie per tutti.»
La canottiera dello zio Franco ha una macchia di sporcizia secca, vecchia di giorni, incrostata nel centro esatto del petto.