Ninfee

Amo le sale d’attesa come questa: bianca, luminosa, pulita. Deserta. Non sembra nemmeno di essere in uno studio medico. Mi lascio scivolare sulla sedia – una bella sedia di legno imbottita, non quelle robe di plastica da ospedale. Sulla parete di fronte c’è una stampa scolorita delle Ninfee di Monet. La fisso per un istante e chiudo gli occhi. Immagino di galleggiare sull’acqua. Sull’acqua del mare. Un mare denso e immobile. Non voglio pensare alle Ninfee. Forse dovrei provare a meditare, dicono aiuti. Non voglio pensare alle Ninfee. Non voglio pensare alle Ninfee.
«Cecilia Basile?». Mi siedo di scatto. Il fisioterapista, un uomo occhialuto sulla sessantina, mi sta fissando. Non l’avevo sentito arrivare.
«Sta bene?».
«Certo». Sorrido. «Grazie».
Entro nello studio e inizio a spogliarmi: la giacca, la sciarpa, il maglione, la maglietta. «Tenga il reggiseno, abbassi solo la spallina». Mi siedo sul lettino, cerco di tenere il busto dritto. Non voglio sembrare a disagio.
«Allora. Le fa male la spalla».
Gliel’ho anticipato al telefono stamattina, quando ho chiamato per prendere appuntamento. L’ho trovato su Google: era il più vicino a casa.
«Sì. Spalla sinistra. Stavo sollevando uno scatolone e ho sentito un rumore, dentro. Dentro la spalla. Una specie di schiocco. È successo due settimane fa. Pensavo sarebbe passato da solo, invece no. Mi fa ancora male se faccio così». Distendo lentamente il braccio. Lo spingo indietro, come se nuotassi a dorso. Piego il gomito. Per essere certa che capisca, accompagno i movimenti con smorfie eloquenti. Lui annuisce. Sonda con le mani l’invisibile strato di tessuti intorno alla testa dell’omero. Mi infastidisce sentire il suo respiro così vicino al mio orecchio. Provo a concentrarmi sui poster anatomici che decorano la stanza: un uomo fatto di ossa, un uomo fatto di muscoli, un uomo fatto di articolazioni. Fronte e retro. Una mappa perfetta per navigare nella complessità del corpo e intervenire nel punto preciso del dolore. E spegnerlo.
Quando esco dallo studio e mi ritrovo sul marciapiede assolato la spalla mi fa ancora male. «È un po’ infiammata», ha detto il fisioterapista alla fine del trattamento. «Non si può fare molto. Bisogna avere pazienza, e muoverla». È stato a quel punto che mi ha parlato della centralizzazione del dolore. «Quando il sistema nervoso centrale memorizza che un certo movimento causa sofferenza, semplicemente lo evita. È un meccanismo di difesa. Con il tempo quella parte del corpo guarisce, ma il cervello continua a tenersene a distanza. Evita l’argomento – sembrava particolarmente compiaciuto dall’analogia. Una volta al giorno ripeta per qualche minuto il movimento che le fa male. Arrivi alla soglia del dolore, non oltre. Bisogna ricordare gradualmente al corpo che la spalla sta guarendo, che si può tornare a muoverla senza dolore».
Centralizzazione del dolore. Mentre cammino verso casa continuo a girare intorno a queste parole, ad accarezzarle, a studiarle, come si fa con un sasso levigato raccolto sulla spiaggia. Mi sembra di avere ricevuto una specie di rivelazione, ma non riesco a metterla bene a fuoco. Vorrei raccontarla a Federica: lei saprebbe spiegarmi. «Questa la devo scrivere», avrebbe detto, e si sarebbe messa al MacBook per un’ora mollandomi da sola in una stanza o all’altro capo del telefono.
Federica. Non so esattamente quando ci siamo incontrate la prima volta. Stessa età, stesso paese, stesse scuole: probabilmente ci conoscevamo da sempre, senza farci troppo caso. Mi ricordo che alle elementari raccontava a tutti che sua madre era medico e le aveva insegnato a usare le erbe curative: raccoglieva certi fiori gialli dagli angoli del giardino, all’intervallo, li mischiava alla saliva e faceva delle poltiglie che metteva su tagli ed ematomi. Tutti volevano stare con lei. In realtà non la conosceva nemmeno, sua madre. Alle medie mi ha risparmiato un’insufficienza in Storia dell’arte: «Quali sono le opere più celebri di Claude Monet?», ero rimasta muta e la vedevo bisbigliare n-i-n-f-e-e dalla seconda fila. I suoi fiori preferiti, ma questo l’ho saputo dopo. Da quel momento abbiamo iniziato a parlarci davvero e non abbiamo più smesso, a parte i suoi giorni tristi. Quelli non ha mai saputo spiegarmeli, e io non li avevo capiti. Forse non ci ho nemmeno provato.
Quando entro in casa, prima ancora di togliere la giacca, accendo la tv. Non l’ho mai amata particolarmente, adesso non posso farne a meno: voglio avere compagnia, voglio la mente occupata. Ignoro i libri degli esami della prossima sessione ammucchiati sul tavolo. Ignoro lo scatolone nell’angolo. Non l’ho più toccato da quando mi sono fatta male tentando di nasconderlo in cima all’armadio. Dentro c’è tutto quello che ho trovato di Fede: i diari condivisi delle scuole medie, le lettere che ci siamo scritte nell’estate della terza superiore (una sua idea, diceva che era bello ricevere lettere “come una volta”), una foto della vacanza studio in Inghilterra, innumerevoli biglietti di cinema e concerti, il suo libro preferito che mi ha regalato per i 23 anni (Amleto di Shakespeare), un vestito e una maglietta presi in prestito e mai più restituiti.
Faccio una doccia che vorrei durasse per sempre. Quando esco la casa è al buio. Con il chiacchiericcio di un talk show dozzinale in sottofondo, resto in piedi davanti allo specchio, nuda e gocciolante. Mi guardo negli occhi. Vorrei fosse un momento significativo, di crescita, ma la verità è che non provo niente. Alzo il braccio sinistro, piano. L’ultima volta che ho visto Federica, un mese fa, nel cortile dell’università, abbiamo discusso. Era una delle sue giornate difficili e io ero in alto mare con un esame che non potevo permettermi di non passare. Non avevo tempo. «Abbiamo tutti i nostri problemi. Non sei il centro del mondo, cazzo». Spingo il braccio indietro, lentamente, come se nuotassi a dorso. La sera stessa mi aveva scritto un messaggio, ma avevo spento il telefono senza neanche visualizzarlo. Non avevo ancora voglia di chiedere scusa. Posso chiamarti?
Chiudo gli occhi. Piego il gomito. Ancora un po’.
Solo un po’.