Cecilia bambina è seduta al tavolo della cucina e fa merenda con biscotti e succo di frutta. Senza preavviso chiede al papà, perché il tavolo si chiama tavolo e la sedia si chiama sedia? Giocherella con le briciole nel piatto e aggiunge, quasi tra sé e sé, io magari gli voglio dare nomi diversi. Il papà raccoglie questa sfida genitoriale alla sua capacità di improvvisazione, ci pensa un attimo e le risponde che può provare a chiamare il tavolo sedia e la sedia tavolo, ma poi che cosa penserà il cameriere che si senta dire ‘Una sedia per tre, per favore’? Compiaciuta dall’esito della sua innocua contestazione infantile, Cecilia ride buttando indietro la testa bionda e riccioluta.
Cecilia e Felix si erano conosciuti di fronte alla porta dell’ufficio del relatore di tesi di Cecilia. Lei non era mai uscita con un uomo che non fosse italiano, e si chiese se la necessità di parlare inglese avrebbe limitato la loro comunicazione. La sua preoccupazione si ridimensionò quando fu chiaro che erano entrambi curiosi di scoprire le rispettive lingue; le sembrava che i loro scambi linguistici li riportassero all’infanzia, quando il mondo acquista un senso al ritmo di una parola alla volta. Albero. Nuvola. In tedesco? Baum. Wolke. Dopo i primi incontri in facoltà decisero di esplorare luoghi noti e meno noti della città. Felix era arrivato poco più di un mese prima, del tutto impreparato a destreggiarsi in mezzo a quella densa storia a cielo aperto. Un giorno le disse entusiasta, qui c’è così tanto da scoprire – come si fa a visitare tutta Roma in una vita sola? Cecilia rise e gli diede un bacio: queste sue prove di ingenuità la intenerivano. Le piacevano i modi schietti di Felix, il suo sorriso generoso e la maniera in cui si spettinava i capelli con una mano e sospirava quando le spiegava il sistema politico svizzero.
Durante una visita alle Terme di Caracalla, scoprirono che luna e sole cambiano genere nel passaggio dall’italiano al tedesco; cercarono altri esempi simili e ne trovarono qualcuno. All’uscita dalle Terme, si incamminarono verso il palazzo della FAO e a un tratto Felix esclamò, guarda! Indicava dall’altra parte della strada, dove una signora di mezza età con una tuta bianca portava a spasso un collie. Che bel cane, disse a Cecilia, erano anni che non ne vedevo uno. Lei sorrise e rispose, quando mio padre era bambino aveva un collie – mi sa che l’ho visto in una foto, aggiunse. Si fermarono un attimo, e mentre il cane e la signora in bianco si allontanavano Cecilia disse, credo che sia una femmina sai? Felix annuì, abbassò lo sguardo sul marciapiede e poi, cercando conferma per un’intuizione di cui andava fiero, guardò Cecilia e chiese, la cana? Esatto, rispose Cecilia: il cane, la cana. Si presero per mano e continuarono a passeggiare senza una meta precisa. In romanesco ‘cana’ è perfettamente valido – e suona molto meglio di ‘cagna’, pensò Cecilia.
Cecilia tredicenne sperimenta il potere delle parole in quel terreno di battaglia che è la scuola, dove non si fanno prigionieri e i fendenti puntano al petto. Durante la ricreazione, un’amica racconta a Cecilia della sua prima lezione di pattinaggio sul ghiaccio. Due ragazzini della loro classe si avvicinano bisbigliando e strattonandosi a vicenda: uno dei due tende un biglietto piegato a metà all’amica di Cecilia prima di correre via portandosi dietro il suo compare. Lei dà un’occhiata veloce al biglietto, scatta in piedi e grida, e Cecilia non la inviti? Lui si gira senza fermarsi e lancia, le secchione non ce le voglio al mio compleanno. L’altro ragazzino scoppia a ridere. Cecilia rimane immobile, in silenzio e con i muscoli contratti. Lascia perdere quei cretini, dice la sua amica infilando il biglietto nella tasca della giacca. Riprende il suo racconto e Cecilia fa del suo meglio per ascoltarla, ma è come se quella parola le si fosse appiccicata in faccia. Sente lo sguardo annebbiarsi per un istante; porta le mani alle guance e le trova bollenti.
In un’assolata domenica di fine giugno, Cecilia e Felix decisero di andare a Ostia. Il traffico romano metteva Felix in agitazione: in questa città siete così aggressivi quando guidate, diceva. Ma Cecilia voleva che Felix vedesse la pineta, e non le piaceva l’idea di dover controllare l’ora di continuo per non perdere il treno al ritorno. A Ostia faticarono per trovare un parcheggio. Innervosita, Cecilia si avventurò in stradine residenziali anonime, e a un incrocio si dimenticò di dare la precedenza alla macchina bianca che arrivava a velocità sostenuta e inchiodò appena in tempo. A Cecilia parve di essere finita sott’acqua: trattenne il respiro mentre si voltava prima verso Felix, le cui mani erano spalancate davanti a sé come a volerne contare le dita, e poi guardava in direzione della macchina bianca in cerca dei volti dei suoi passeggeri. Il vetro del finestrino dalla parte del conducente si abbassò, rivelando un uomo sui quarant’anni con una pettinatura gelatinosa e un’abbronzatura esasperata. Riemersa dall’apnea, Cecilia agitò le mani in segno di scusa e senza abbassare i vetri della sua auto disse a voce alta, mi dispiace, mi scusi. L’uomo alzò la mano come se fosse un vassoio e didascalico aggiunse, anvedi ‘sta rincojonita, prima di ripartire con una sgommata. Cecilia tagliò l’incrocio e accostò appena possibile. Sollevando le mani sudate dal volante chiese a Felix, stai bene? Non è da me guidare così, scusami, disse. Lui rispose, va bene dai, non è successo nulla – ma che ti ha detto quell’uomo? Rinco – rincoglionita, proseguì Cecilia, è un modo per dire che sei lento a capire le cose. Tra sé e sé pensò, poteva dirmi di peggio.
Cecilia e i suoi genitori sono a casa e hanno finito di cenare. La mamma è al telefono con un parente che vive all’estero; il papà è sul divano e salta da un canale televisivo all’altro per sfuggire alla pubblicità. Si ferma su un documentario e alza un po’ il volume. Cecilia, seduta accanto a lui, avvolge le braccia intorno alle gambe e poggia il mento sulle ginocchia: non è dell’umore giusto per un documentario. Passano pochi minuti e Cecilia esplode, urlando al papà che del Serengeti non le importa nulla e che i documentari sono da secchioni. Il papà, strappato alla savana, toglie l’audio – poi ci ripensa e spegne la televisione. Passa una mano sui capelli della figlia e le chiede, da dove spunta questa parola? Quando Cecilia dice che è così che la chiamano a scuola da un paio d’anni, il papà è incredulo: da quando essere bravi a scuola vuol dire essere secchioni? Tu spiegaglielo ai tuoi compagni che c’è una bella differenza, dice il papà. Le parole hanno un significato preciso, continua, e se non ci pensano i tuoi professori a chiarire la faccenda allora lo devi fare tu: un secchione studia e basta, tu hai tanti interessi. Cecilia annuisce con gli occhi abbassati sulle sue unghie rese lucide dallo smalto trasparente della mamma. Si dice che non farà mai niente del genere: lanciarsi in una disquisizione semantica sarebbe il modo migliore per sancire il suo totale isolamento.
Cecilia e Felix camminavano sul lungomare di Ostia con i loro gelati gocciolanti. La spiaggia era affollata come ci si sarebbe aspettati in una giornata così calda, e il rumore del mare si perdeva tra le grida eccitate dei bambini e il vociare indistinto degli adulti. Gli scambi linguistici avevano coperto i gusti dei gelati che Felix ancora non conosceva – zabaione, ricotta dolce – e alcuni oggetti che popolavano la spiaggia. Ombrellone – con due elle, precisò Cecilia. Sdraio. Cecilia guardò con rinnovato interesse verso la riva, e si ricordò che la sabbia scura di Ostia non le era mai piaciuta. Ripensò all’incidente sfiorato e alla reazione del conducente dell’auto bianca. La infastidiva essere stata così distratta al volante in presenza di Felix. Essere chiamata rincoglionita invece non le pesava: se fosse stata da sola in circostanze simili, se lo sarebbe detta lei stessa.
Cecilia bambina è a Firenze con la famiglia di una sua amica. Le piacciono le cupole, e cerca di contarle dal belvedere dove si sono fermati prima di scendere giù in centro. Con l’indice destro puntato, chiede alla mamma della sua amica che l’ha presa in braccio, quello cos’è? La donna non capisce che cosa Cecilia stia indicando, così la bambina stira il braccio destro come a farlo diventare un unico, lungo indice e dice, lì sotto, vicino al Lungotevere. La mamma ride, la mette giù e le spiega, questo non è il Tevere: è l’Arno, per questo i fiorentini dicono Lungarno e non Lungotevere. Quando racconta questo episodio ai suoi genitori Cecilia sentenzia, allora perché non possiamo dire Lungofiume, così funziona dappertutto.
Qualche giorno dopo la loro gita fuori porta, Cecilia raggiunse Felix in una delle pizzerie a taglio nei pressi della facoltà. Ordinò per entrambi e traghettò i vassoi di plastica fino all’angolo che Felix aveva difeso con abilità dal flusso ininterrotto di studenti affamati. Mentre portava un rettangolo di pizza margherita alla bocca, Cecilia intravide una faccia familiare nella fila tentacolare per la cassa. Sperò di sbagliarsi, ma era fisionomista e infatti non sbagliava. La faccia apparteneva a un suo compagno di scuola, e gli occhi di quella faccia avevano messo a fuoco Cecilia. Lei provò a fare finta di nulla e a concentrarsi sul pranzo, ma il suo stomaco l’aveva preceduta e si era già annodato. Pensò, non verrà a salutarmi, non ne ha motivo. Quando lo vide dirigersi verso il loro angolo rimpianse quell’iniziale ottimismo. Si chiese se la presenza di Felix la rendesse più o meno nervosa. Cecilia, ma dimmi tu, saranno almeno quattro anni? Lei esitò un attimo – Andrea, lui si chiama Andrea. Già, direi quattro, confermò lei con un sorriso un po’ rigido e le guance infuocate. Studi alla Sapienza? Sì, disse Cecilia, anche tu? Sì, rispose lui, ma ho cambiato corso di laurea due volte, insomma, un casino. Tu sarai già laureata, giusto? Lei disse quasi, sai architettura sono cinque anni, ma ho tenuto il passo e quindi – ci credo, la interruppe lui, una secchiona come te, dai, devo andare ché ho la macchina in doppia fila, in bocca al lupo per la tesi e stammi bene. Andrea fece un cenno di saluto anche a Felix, il quale aveva partecipato alla conversazione rivolgendo uno sguardo sorridente ad Andrea pur senza smettere di masticare la sua pizza salsiccia e broccoletti. Cecilia vide Andrea agguantare due bicchieri di plastica vicino alla cassa prima di emergere dal negozio.
Felix chiese, è un tuo amico? Le salsicce e i broccoletti erano scomparsi. No, siamo andati a scuola insieme, disse Cecilia. La margherita, ormai tiepida, riposava sul vassoio. Se fosse un mio amico vi avrei presentati, aggiunse lei. Lui annuì, pulendosi bocca e dita con un tovagliolo di carta. Non ho ancora trovato un modo per non sporcarmi, disse ridendo. Non c’è, ribatté Cecilia, ti ungi tutto e poi ti pulisci come puoi o ti lavi le mani. Allora è per questo che avete le fontanelle, scherzò Felix. Una volta le aveva detto che i ‘nasoni’ lo avevano fatto sentire a casa, perché anche Zurigo è costellata di zampilli. Abbiamo oltre mille fontane, aveva precisato. Cecilia si era chiesta se qualcuno si fosse mai preso il disturbo di contare le fontanelle romane.
Uscirono dalla pizzeria e si diressero verso la facoltà mano nella mano. Che vuol dire secchiona? Felix formulò la domanda come se questa fosse riaffiorata all’improvviso, scollegata da tutto ciò che li circondava – il traffico di macchine e motorini, gli studenti e gli impiegati in pausa pranzo, l’asfalto che perdeva solidità sotto il sole estivo – ma sufficientemente pressante da tornare in superficie. Cecilia ritrasse la mano, si toccò i capelli e si ricordò che aveva le mani ancora leggermente unte. Lui inclinò la testa perplesso. Le chiese, va tutto bene? Lei esitò un attimo, si guardò intorno senza fissarsi su un punto in particolare, poi sorrise scuotendo la testa e disse, tutto bene. Secchiona? Non è una parola che si usa spesso, continuò lei, vuol dire brillante, di successo – una cosa così. Cecilia sorrise di nuovo, alzò le spalle e riprese la mano di Felix nella sua.
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in racconto