La casa dei miei genitori è piena di oggetti. Ci sono abbastanza bicchieri per organizzare un banchetto, ma nessun banchetto viene organizzato mai, e tutti quei bicchieri posano tristemente dietro i vetri delle credenze. Ci sono i Topolino sgualciti dalla nostra infanzia, cruciverba risolti di molte estati fa. Ci sono abbastanza asciugamani da accomodare le esigenze di un re, ma nessun re che venga accomodato. Ci sono foto ormai ingiallite che ti guardano da un tempo in cui il tuo corpo aveva una forma diversa, ci sono videocassette di mille recite di infanzia e nessun videoregistratore in cui guardarle. Ci sono vestiti negli armadi che non ho mai visto indossare e libri che non ho mai visto leggere. Ci sono moltissimi soprammobili, qualunque sia il significato di questo vaghissimo modo di iscrivere nelle stesse lettere una teiera che non contiene the ma una pianta grassa e una damina dell’ottocento in ceramica.
Tutte queste cose raccolte negli anni, accumulate, tutte queste cose che ormai, separate dall’uso, necessiterebbero di una strenua difesa nel tribunale di Marie Kondō, mi sembra di avercele tutte addosso a schiacciarmi il petto ogni volta che varco la soglia e torno in questa casa dove ho vissuto solo pochi anni e molto tempo fa.
Non è come in quelle scene dei film americani in cui il protagonista torna a dormire nella sua cameretta di infanzia per ritrovarla esattamente come l’ha lasciata prima di partire per il college, con i poster dei gruppi pop fedelmente appesi alle pareti e i diari del liceo nascosti sotto il letto. È più come entrare in un magazzino in cui, anche se ci fosse da qualche parte un briciolo di nostalgia in forma di fermaglio per capelli, sarebbe comunque impossibile trovarlo, sommerso com’è da venti tipi diversi di insalatiere e quaderni pieni di equazioni.
Eppure, questi stessi oggetti che mi appesantiscono il respiro sono il sollievo di qualcun altro. Anche possedere tre diversi servizi di posate può essere una forma di conforto, nonostante mi costi fatica accettarlo. È così che un problema di spazio, l’ingresso di cose nuove, inevitabile nel tempo, e quelle vecchie che non vengono mai buttate via, ci fa litigare sull’impossibilità di ottenere un cassetto vuoto, di mangiare su un tavolo sgombro.
E poi c’è il problema del pulito, anche se io preferisco usare il concetto di contaminazione.
Tutta questa enorme mole di oggetti è importante che non venga sporcata, che la nostra presenza contaminante non la intacchi. Da bambina non avevo il permesso di sedermi sul divano, lo so, a raccontarlo fa ridere, ma quello che mi veniva insistentemente ripetuto era che lo avrei sporcato, o peggio rovinato. Non mangiandoci sopra o poggiandoci le scarpe, queste arditezze non mi sarebbero mai nemmeno venute in mente, ma con la mia semplice presenza. La mia presenza era contaminante, assumevo, e per sedersi c’erano le sedie, il divano era una cosa destinata agli adulti – responsabili e non contaminanti. Ha ragione il poeta: pensare è tirare un colpo di dadi. Le combinazioni possono essere molte, ma sono certamente un numero finito.
A casa di mia nonna Nunzia c’era un’intera stanza in cui non si poteva entrare, con un divano su cui non ci si poteva sedere, una credenza che non si poteva aprire e un tavolo su cui non si poteva mangiare. Mia nonna ci entrava solo indossando sulle scarpe delle pattine di cotone, perché perfino il pavimento non doveva essere intaccato.
Non era sempre stato così, c’era stato un tempo in cui il divieto era sospeso per delle occasioni speciali: in quella stanza avevo spento le candeline per i miei due anni e mangiato diversi pranzi natalizi e pasquali. Poi, morto mio nonno, le occasioni speciali erano terminate e quella stanza era rimasta sigillata per cinque anni, senza che nessuno avesse il permesso di entrarci. Quando ci sono rientrata, diversi mesi dopo la morte di mia nonna, ho provato tenerezza per quegli oggetti abbandonati, che seppure incontaminati, protetti, sarebbero finiti allo stesso modo nell’inceneritore.
Ho portato via un piccolo sbattitore della Moulinex, intonso nella sua confezione di cartone anni ottanta: mia nonna odiava cucinare, l’idea della cucina sporca l’atterriva molto di più di quella di preparare tutti i giorni le stesse frugali cose bollite. Quando lo uso nella mia casa lontana per preparare un dolce, sporco sempre moltissimo e rido dell’idea che un simile oggetto dall’enorme potenziale contaminante sia appartenuto proprio a mia nonna.
Ho incontrato persone che credono nella memoria degli oggetti, una delle ostetriche dell’ospedale milanese in cui ho partorito ci aveva parlato della memoria dell’acqua. Scriveva parole “positive” sulla sua borraccia e sosteneva che l’acqua le avrebbe memorizzate e trasmesse. L’idea dell’acqua in bottiglia potenziata non mi ha convinta, ma trovo che ci sia qualcosa di affascinante nel credere che gli oggetti abbiano una memoria, se non un’anima propria, che finiscano per trattenere un frammento di coloro che li hanno posseduti. Ma è l’uso, litigo con i miei genitori, non la conservazione, che li rende speciali: questo è il punto in cui differiamo.
Ora che nonna Nunzia non c’è più e nessuno vive in quella casa, tutta la casa è diventata come quella stanza immobile. Le tapparelle sono abbassate, i tavoli sgombri e nei cassetti dormono le vettovaglie. Tutta la casa è entrata in quel tempo sospeso, quel tempo che è di lutto e separazione, quel tempo in cui si lascia e si aspetta, come se al defunto dovesse essere dato un certo margine per tornare indietro e reclamare ciò che era stato suo.
In una delle nostre liti mia madre ha gridato: quando muoio seppellitemi con tutte le mie cose, e la mia fervida immaginazione è corsa alle piramidi e ai faraoni, ma mi sono ripromessa di nascondere anche solo una forchetta nel suo vestito, quando il tempo verrà.
Qualche settimana fa invece è venuto il tempo di nonna Concetta, quella da cui ho ereditato il nome meridionale e pesantissimo, l’ultimo dei nonni che mi era rimasto, quella le cui stanze erano sempre aperte, le porte spalancate e che sul divano da bambina non solo mi ci lasciava sedere, ma anche fare le capriole. Il giorno del mio trentanovesimo compleanno si è spenta nel suo letto e non mi guarderà più con i suoi occhi azzurri. Era un’accumulatrice anche lei, come i miei genitori, le sue borse erano piene di foglietti della messa e annunci di preghiera, aveva cucito fodere per cuscini con i suoi vestiti vecchi e non buttava mai via niente. Ma non c’era nulla di conservato o nascosto a casa sua, nessun oggetto che non potesse essere gioiosamente contaminato.
Quando dieci anni fa le avevo detto che mi sarei sposata, aveva tirato fuori da un cassetto il coliere delle sue nozze e mi aveva detto “Prendilo, e se ti piace indossalo per il matrimonio, ma comunque è tuo”. Lo avevo indossato e le avevo poi regalato una foto in cui noi, freschi sposi, eravamo sorridenti in primo piano e io avevo il cuore in gola assieme al suo girocollo di oro rosso. Una delle poche foto che i miei zii non avevano buttato via, la settimana dopo la sua morte, probabilmente perché la cornice di poco valore non aveva attirato la loro attenzione.
Che abbiano buttato tutto, così rapidamente e senza nemmeno chiedercelo, senza nemmeno offrire quel tempo sospeso, senza il beneficio di quell’attesa, di quella separazione necessaria fra il prima e il dopo, è stato un dolore di cui avrei volentieri fatto a meno. La sospensione di giudizio di mio padre non aveva giovato alla situazione, e mentre noi facevamo i conti con la sua scomparsa, la cognata di mio padre aveva fatto incetta di ciò che di valore rimaneva: gli orecchini, la fede, il pendolo e alcune cornici e il cognato aveva provveduto a buttare via il resto senza alcun riguardo.
Veniamo a questo mondo senza portare nulla e ce ne andiamo senza portare nulla. Eppure passiamo gran parte del nostro tempo nell’acquisizione e nell’accumulo di oggetti che, nella migliore delle ipotesi, aiuteranno chi ci lascia andare a tenerci ancora un po’ con sé.
Con le tasche piene solo delle mani, cammino con le mie sorelle fra le navate del cimitero: quali sono le cose che restano? La lapide di nonna Nunzia, ultima della sua fila all’ingresso del corridoio, è esposta al sole per tutto il pomeriggio. Mia madre dice che la nonna in quella posizione le sembra abbronzata, guardo la sua foto e mi viene in mente il suo sorriso il giorno della mia laurea. Sono queste le cose che restano?
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in racconto