Parti sconosciute

Bruna Leoni odia le ripetizioni. Bruna Leoni odia le ripetizioni. Bruna Leoni odia le ripetizioni. Ripetizioni. Petizioni. Lezioni. Addizioni. Moltiplicazioni. Fazioni. Odia il numero tre ancora di più. La terza A contro la terza B, sempre a ogni ricreazione. I maschi a sfidarsi a colpi di pallone, le femmine a mosse di ballo copiate dalla tv. E Bruna in un angolo, sudata di corsa campestre a leggere l’ultimo numero di Psycho-Pass nel bagno con le inferriate alla finestra. Ché qualcuno ci si è ammazzato da lì, dicono. Un salto di una decina di metri, dritto sulla testa a rincalcare le vertebre a fisarmonica. Chissà chi l’ha pulito il sangue dalle crepe dell’asfalto, poi. Dalle foglie di stoppione che si spelano a ciuffi nelle aiuole trasandate. Chissà. Chissà chi l’ha pulito il sangue dalle crepe dell’asfalto. Dallo stoppione spelato a ciuffi, quel sanguinaccio infestante. Bruna le odia le sue dita secche e i rimasugli di croste sotto le unghie, perché le rendono difficile concentrarsi.
Bruna Leoni odia anche la scuola con tutto il suo bagaglio. I professori, i bidelli, il parcheggio che puzza di corpi sudati, le processionarie che cadono nei colletti e bruciano come una bestemmia. Una blasfemia, un Dio a cui neanche crede — ma sua mamma sì, sua mamma sempre, quindi va bene così no? Angelo di Dio che sei mio custode prima di andare a letto, anche se Bruna sa che non esiste. Quell’angelo che è sempre di Dio e mai di se stesso, mai libero.
Leoni? Leoni? Leoni?
La voce del professore stride come un’unghia sfaldata sulla lavagna, come quella volta che il nonno ha stretto il collo di un coniglio così forte che Bruna si è sentita le vertebre scoppiettare. Petardi di sangue e nervi pronti a esplodere.
Si chiamava Brillo. O forse Birillo. Biri. Lillo. Bile. Non importa il nome di fronte alla morte — uno spezzatino in salsa non ha nome né scopo, il nonno ha detto. E il nonno deve aver ragione, lui che di conigli ne ha visti tanti.
Leoni, te l’ho già detto: se non stai attenta fili dal preside.

Bruna Leoni odia le ripetizioni e il suo nome non fa eccezione. Rotola fuori dai denti del professore come un grugnito. Un proto-suono di superiorità. Un assordante botto di capodanno. Come i fuochi d’artificio che il nonno, sempre lui, l’ha portata a vedere l’anno prima. Boom. Boom. Boom. Un coito pirotecnico esagerato, incongruente. Così tanto che Bruna non ha avuto dubbi: i fuochisti devono essere per forza uomini.
Scusi, prof. Scusi. Prof, scusi.
Può essere che non l’ha detto, può essere che per una volta la ribellione ha vinto davvero. Ma il professore annuisce, soddisfatto, e Bruna lo sa di aver perso anche stavolta. La sente sfilacciarsi sotto i polpastrelli quella emancipazione che ancora non ha nome, e portare via le croste di sangue da sotto le unghie. Forse vogliono tornare anche loro da dove sono state scorticate. Da quei solchi sulle scapole che Bruna si scava sovrappensiero sotto la doccia tanto che poi la mamma le chiede se le è venuto il ciclo. Ti è venuto? E allora cosa sono queste macchie di sangue? E poi la mamma le chiede se le è venuto il ciclo. Ti è venuto? Ancora e ancora, tanto che Bruna la doccia non ha quasi più voglia di farsela.

Dopo scuola il bus non passa. O forse è già passato. Forse a quella fermata si è già fermato ed è diventato passato. Un passato di verdure freddo si chiama gazpacho. La madrelingua di spagnolo lo ha portato a far assaggiare alla classe ma a Bruna è tornato a gola fino a sera, con quel retrogusto di peperone crudo che si attacca all’esofago come una macchia d’olio sui vestiti. Dopo scuola il bus non passa e Bruna scalpita sul posto con l’ansia di scappare, di correre via da quel rumore di tacchetti che le tamburella la schiena.
Aspetti anche tu quello dopo? Le chiede Diletta e Bruna odia che il bus sia già passato, che l’abbia abbandonata sul marciapiede a inzupparsi di pioggia e grandine. Non hai freddo? Se vuoi puoi venire sotto il mio ombrello. Ché poi Diletta è un nome così lezioso e stupido. Non hai freddo, eh? Non hai freddo? Bruna vorrebbe dirglielo, che odia il suo nome. Le sue mani curate. I suoi capelli lucidi e piastrati. La sua precoce eteronorma. Le scarpe di marca. Il lucidalabbra rosa pallido nascosto nello zaino. La sua risata trillante. Il gommino per capelli argentato. Lo sbaffo di matita ché sua mamma sicuro l’ha notato ma non ha detto nulla. Il gonfiore di seno a tirare il girocollo nero. Il cellulare ultima generazione usato come specchio. Gli occhi curiosi, troppo curiosi. Curiosi da giornale di gossip, curiosi da paparazzo del popolo. Curiosi tanto che Bruna se li sente bruciare addosso. Curiosi tanto da essere belli, ché improvvisamente il fatto che siano attaccati a un nome tanto brutto non ha più importanza. Non hai freddo, Bruna? L’acqua scende nel colletto della felpa e Bruna non risponde, non la guarda, ma Diletta si sposta comunque e d’improvviso la pioggia si è fermata. Il caldo del suo fiato umido le fa sudare le guance.
Un uomo fischia a una donna dalla vigliaccheria della sua Panda blu. L’addetto al traffico smanacca sull’attraversamento pedonale. Una vecchia apre il bidone dell’umido e ci lascia cadere un sacco grosso come un corpo morto. Una mamma discute con un‘altra mamma per la priorità sul parcheggio. Un gruppo di ragazzi della terza B intona una canzone sconcia. Il bidello maledice il giorno in cui ha lasciato il lavoro all’Enel. Una donna preme il telefono all’orecchio e batte il piede a terra con impazienza. Una coppia si bacia su un balcone del palazzo di fronte alla scuola. Un docente impreca contro il plico di compiti che si è appena sparso al suolo come uno stormo di uccelli morti. Qualcuno starnutisce. Qualcuno saluta. Qualcuno discute per la fila al panificio. Qualcuno parlotta sottovoce. Qualcuno cammina silenzioso. Qualcuno corre sotto lo scroscio di pioggia. E Diletta che respira pesante, ferma al suo fianco nel suo cappotto di omologazione ché Bruna vorrebbe strapparle di dosso. Per vedere cosa c’è sotto, per rivestirla così che le faccia meno paura. Per snaturarla o forse snaturare sé stessa. O forse per liberare entrambe. Qualcuno starnutisce. Qualcuno saluta. Qualcuno discute per la fila al panificio. Qualcuno parlotta sottovoce. Qualcuno cammina silenzioso. Qualcuno corre sotto lo scroscio di pioggia. Qualcuno che non è Bruna e che non è Diletta e quindi, di conseguenza, qualcuno che non ha importanza.

Bruna Leoni odia le ripetizioni. Dopo scuola il bus è passato. Non hai freddo? Dopo scuola il bus alla fine è passato e Bruna non ci è salita. Leoni? Leoni? Leoni? Ti è venuto il ciclo? Boom. Boom. Boom. Il bus è passato e Bruna non ci è salita. Ha camminato fino a casa sotto la pioggia. Fradicia. Sudata. Accaldata e fredda allo stesso tempo e col respiro pesante. Ha salito le scale del portone a due a due col terrore di chi ha qualcosa da nascondere. Ha ignorato le urla di sua mamma e le gocce di fango sul tappeto del corridoio. Ha fatto una doccia e non si è grattata e le croste si sono sciolte dalle spalle in rivoli ferrosi. Ha aperto il manga, preso una penna indelebile e ha iniziato a scrivere.
Bruna Leoni odia le ripetizioni. Bruna Leoni odia le ripetizioni. Bruna Leoni odia le ripetizioni. Eppure un nome fa eccezione.
Diletta. Diletta. Diletta.