Ogni mattina, per recarsi al Ministero, scendeva la scalinata che da casa sua portava a Trastevere: disseminata qua e là di escrementi di cani, cartacce, talvolta topi morti.
Ma lei guardava sempre dritto davanti a sé, per un’abitudine inculcatale già dall’infanzia: quindi vedeva solo cose belle, i tetti dei palazzi, il cielo di Roma, il Cupolone. E la sua espressione era costantemente atteggiata a un sentimento di ammirazione e gratitudine. Se la felicità è fatta di piccole cose, ebbene lei, ogni mattina, era felice.
Giunta in Viale Trastevere, aspettava con calma l’arrivo del 28, che a volte tardava oltre ogni limite di sopportazione. La gente si ammucchiava sul marciapiede, imprecava prendendosela col Comune, col Governo, con Dio; lei guardava tutti e nessuno, vagava con gli occhi in giro, senza soffermarsi su alcun particolare, consapevole che l’ansia e le arrabbiature non facevano scorrere il tempo più veloce.
Mai le era venuto in mente di imparare a guidare, di rendersi indipendente da quella schiavitù quotidiana dell’attesa, del viaggio scomodo e irritante. Avendo accettato come inevitabile e immodificabile qualsiasi aspetto della propria esistenza, si era persuasa che la virtù dei forti fosse la rassegnazione.
Quando finalmente il 28 appariva lentissimo a distanza, ecco che la gente cominciava a ondeggiare, a spostarsi, chi raccogliendo le borse e le cartelle appoggiate per terra, chi appostandosi strategicamente nella posizione più adatta all’assalto del predellino.
Lei restava ferma, sospesa a quel suo sorriso che non diceva niente e non era rivolto a nessuno, se non forse ai suoi pensieri, se ne aveva.
Il 28 si fermava proprio davanti al Ministero, svuotandosi di quasi tutti i passeggeri. Allora scendeva tra gli altri, senza alcuna precipitazione, perché mai le capitava di essere in ritardo; attraversava la piazzola con le aiuole e le palme, ed entrava nel portone custodito dai due militari.
L’usciere che non salutava nessuno se non i funzionari di grado più elevato, degnava lei di un leggero inchino, accompagnato da poche parole: «Buongiorno, signorina Felicita».
La signorina accentuava di poco il sorriso stampato e dolcissimo, rivolgendo a quell’uomo la prima frase articolata dal momento del risveglio: «Buongiorno a lei».
Felicita l’aveva voluta chiamare suo padre, impiegato al Tesoro e poeta in proprio, un omino mite innamorato delle parole, ma con tale pudore che le adoperava il meno possibile. Felicita in onore a Gozzano, di cui tenevano un ritratto in salotto: il padre, piemontese, l’aveva conosciuto, in gioventù, e ora ne sapeva a memoria l’opera omnia.
La loro casa sarebbe piaciuta a Gozzano, diceva il padre menandone qualche vanto coi pochi amici: sempre un po’ in penombra per via dei pesanti tendoni verdi, con poche piante grasse, consunti tappeti, due credenze piene di soprammobili “di pessimo gusto”, severi ritratti familiari appesi alle pareti, bianche.
Anche la Felicita reale sarebbe piaciuta al Poeta: aveva sin da ragazza un viso slavato, piuttosto inespressivo, senza alcuna ombra di trucco, con due occhi rotondi e buoni, non azzurri “di stoviglia”, no, ma di un verde annacquato e stemperato tanto che le iridi sembravano occupare tutto il bulbo. I capelli rossicci raccolti alla nuca, le mani corte e ben curate, i vestiti dignitosi, di un’eleganza insipida: gonna scura e camicetta chiara.
Non si era mai sposata, non aveva mai scritto o ricevuto una lettera d’amore, tuttavia versava lacrime smarrite guardando certi film romantici alla televisione, o ascoltando una melodia un po’ stucchevole alla radio.
Pativa, insomma, di frequenti malinconie.
Dopo la morte del padre, la signorina Felicita viveva sola, con un gattone striato cui aveva affibbiato il nome originale di “Micio”. Non faceva né riceveva visite, la sua vita scorreva uguale tra l’abitazione e l’ufficio; la domenica a messa, più per abitudine che per fede.
Mancavano vent’anni al nuovo millennio, e chissà se ci sarebbe arrivata: intanto, lasciava che ore giorni mesi stagioni trascorressero senza regalarle nessuna novità, nessuna imprevista emozione.
Le uniche occasioni di incontro, di screzio subito ricomposto e di soddisfazione a lungo covata e benedetta, erano date dal suo impiego al Ministero, a cui era fedele più che qualsiasi moglie timorata al suo sposo.
Il Ministero era diventato l’istituzione per eccellenza, in cui compendiare ogni senso del dovere e di carità cristiana, a cui dedicare sollecitudine e impegno e, perché no?, la gioia di esistere per qualcosa, di servire a qualcosa.
Le ragazze più giovani, le nuove assunte, quelle che arrivavano su biciclette rosa, su motorini gialli, con gonne a fiori o jeans sdruciti, la chiamavano ridendo “la moglie del Ministero”.
Lei mica se la prendeva, non era del genere delle nubili stantie e rancorose che si trovano in qualsiasi ambiente professionale: lei no, sorrideva compiaciuta, fiera di meritarsi quel riconoscimento.
Nel suo non fare assenze, nella sua ortodossa puntualità, non esisteva la benché minima esibizione, la benché minima riprovazione riguardo alla neghittosità altrui. Tollerava le chiacchiere inconcludenti dei colleghi e lo sferruzzare a maglia delle colleghe, le pause per il caffè protratte per ore, il ciondolare da un reparto all’altro di impiegati e funzionari indolenti, le malattie improvvise e inventate. Capace addirittura di fornire alibi, di portare a termine lei una pratica iniziata da altri e lasciata a giacere in un cassetto.
Non sottolineava, nel fare ciò, una sua particolare superiorità, né si attendeva encomi dai direttori, che anzi spesso la prendevano benevolmente in giro: semplicemente sembrava chiedere il permesso di continuare a essere quel che era, di poter rimanere così.
La sua stanza era il gioiellino di tutto il piano: lindo, con i pochi scaffali sempre in ordine, la vecchia macchina da scrivere coperta da un telo di plastica quando non era in funzione, il tavolo sgombro e senza polvere: vi lasciava in bella vista una risma di carta bianca, una penna stilografica verde e nera, un vasetto con fiori finti.
Sua suprema soddisfazione era poter ricopiare a mano i documenti riservati che le affidavano i superiori: ricorrevano a lei perché aveva studiato calligrafia per anni, conosceva persino i caratteri gotici, e vi si applicava più che con pazienza: con amore. Tanto che dopo aver trascritto elegantemente l’originale in bella (fosse anche una sfilza di aridi numeri), prima di riconsegnarlo se lo covava con lo sguardo, lo accarezzava orgogliosa.
La signorina Felicita era una persona strana. Strana, ma innocua.
Quella mattina i colleghi la salutarono con maggiore affettuosità.
«Buongiorno, Felicita!», così dicevano, con un sorriso indecifrabile.
«Buongiorno, buongiorno!», lei ricambiava cordiale, e camminando placidamente nelle sue scarpe comode dal tacco basso, percorreva gli androni squallidi dai soffitti elevati, apriva porte di vetro, avanzava lungo corridoi sporchi e umidi come a occhi chiusi, tanto li conosceva in ogni mattonella traballante.
«Grosse novità, oggi», accennò allusivo un collega, sventolando la mano in aria in misteriosi ghirigori, «Gran giornata!»
La signorina si chiese se fosse giunta voce di un aumento di stipendio, ma concluse che no, ne avrebbero avuto comunicazione scritta.
Davanti al suo ufficio, ostruiva l’entrata un crocchio di segretarie confabulanti e affannate. «Dobbiamo fare subito una riunione», «Sentiamo prima il parere dei delegati», «Siamo sempre gli ultimi a sapere quello che ci riguarda». E altre frasi sibilline del genere.
Felicita pensò a qualche questione sindacale irrisolta, gli arretrati o gli scatti di avanzamento: lei si sentiva al sicuro perché era iscritta all’associazione più forte, e pagava puntualmente la tessera.
«Ma Felicita, dica, lei sapeva?», domandò la piccolina dello sportello ricorsi.
«Di cosa stanno parlando?», chiese Felicita, ancora lontana dall’essere preoccupata.
«Degli ospiti che ci hanno piazzato in ufficio…».
«Ospiti? E chi mai…», le si smorzarono le parole in bocca.
Trepida e intimorita, già vedeva la sua scrivania buttata all’aria da una decina di mani rozze e incapaci, peste sul pavimento, puzza di sigarette ovunque.
«Entri, entri pure. Vada a controllare!», continuò la piccolina che pareva la più indignata.
Felicita spinse esitante la porta a vetri della stanza, si affacciò dapprima con la testa, poi mosse tre passi all’interno.
Non c’era nessuno. Nessun essere vivente, cioè.
Ma ben in vista sulla sua scrivania, un enorme apparecchio, bianco, complesso.
«Una tivù?», sorrise un po’ stupidamente la signorina, sentendosi penetrare da un certo sollievo nel non rilevare la presenza di estranei.
«Macché tivù!», si avvicinò l’impiegato dell’ufficio di fronte. «È un terminal, un personal. Un computer, insomma. Non so esattamente neanche come si chiamano…».
«Non li ha mai visti nella pubblicità?», aggiunse un’altra collega.
«Sì, sì, ho capito», si affannò a confermare Felicita. «Ma perché da me? Cosa devo farci?»
«Hanno proposto tre dipendenti, su questo piano, per la verifica. Senza interpellarci, a loro discrezione. Lei è tra i prescelti. Forse dovrà fare un corso, chissà. Forse lo dovremo fare tutti…», la ragguagliarono più voci, sovrapposte ed eccitate.
«Alle 10 assemblea!», passò veloce una ragazza del piano di sotto, raggiante, stentorea.
«Assemblea, già, assemblea. Per approvare quello che hanno deciso i nostri capi, all’insaputa di ciascuno. Anzi no, i sindacati saranno stati a conoscenza del progetto, sicuramente. Hanno firmato, come al solito, zitti e buoni. Solo noi, soliti fessi, non ne sapevamo niente».
Sbatterono molte porte, furiose, alle spalle di chi tornava al lavoro, masticando rabbia e sottomissione.
La signorina Felicita si ritirò nella sua violata proprietà. Più che affranta o arrabbiata, si sentiva smarrita. Si sedette al suo posto, ancora col cappotto addosso. Prese in mano la stilografica, fece scorrere qualche foglio tra le dita, poi affrontò con sguardo serio – come si sfida un intruso – il nuovo apparecchio.
Era uno schermo, un po’ più piccolo del suo televisore, verdastro: e sotto, i tasti di una macchina da scrivere.
Li sfiorò con un dito. «Forse ci riuscirò», cercava di consolarsi, tenendo a bada il magone che le montava in cuore e in gola.
All’assemblea ci andò, come faceva sempre, ma con qualche motivazione in più, questa volta. Eppure non poteva concentrarsi, si distraeva a guardare gli altri che la fissavano incuriositi, forse ironici.
Prendevano la parola in molti, spesso ripetendo pari pari gli interventi di chi li aveva preceduti, e ribadendo le stesse argomentazioni. I discorsi, le prese di posizione, i distinguo di chi concionava, le sembravano ripetitivi, verbosi, inconcludenti. Si votò alla fine per la mozione che proponeva un corso qualificante per tutto il personale, con l’utilizzo di esperti da affiancare agli impiegati prescelti per la sperimentazione, fino a quando questi non avessero raggiunto la necessaria disinvoltura nell’uso dei computer.
La giornata passò fumosa e snervante.
Felicita si sentiva intorpidita nei pensieri, pesante nei movimenti, come se si trascinasse addosso l’influenza. Evitò di guardare il personal o come si chiamava per tutte le ore di lavoro che le rimanevano. E di lavoro, ne concluse poco.
Riprese il tram 28, girando intorno gli occhi spalancati come fosse la prima volta, senza più sorridere a niente e a nessuno. A Trastevere risalì la scalinata, sobbalzando nelle spalle ogniqualvolta inciampava in bucce, carte, sporcizia. Si fermò al solito negozietto per quel poco di spesa che le serviva, e al commesso che le chiedeva cosa avesse, rispose che sentiva nelle ossa la febbre.
Finalmente a casa, accese la radio sperando che un po’ di musica la distraesse; si scaldò un piatto di minestra e si infilò a letto, appisolandosi subito.
Dormì poco, due orette, centellinando il resto della serata e della notte tra piccole e varie operazioni, qualche lettura, svogliate carezze a Micio, e tanti ragionamenti affollati, perplessi.
La televisione le incombeva dall’alto come quell’altro schermo che si era insediato nel suo ufficio, prepotente, angoscioso.
Le sue riflessioni oscillavano tra due estremi: «sarò capace?» e «non sarò capace», ogni tanto variando con altre sullo stesso tono: «perché proprio a me?», «perché non a un giovane?»
Verso l’alba, cominciò a tormentarla la visione allucinata della sua penna stilografica verde e nera, probabilmente inutile d’ora in poi, probabilmente da portare a casa per scrivere gli auguri di Natale.
La signorina Felicita, poco prima di alzarsi dal letto, si lasciò andare a un pianto sommesso, e breve.
La giornata era serena, abbastanza fredda, ma limpida.
Uscì di casa in anticipo, tanto per non rimuginare le stesse cose, e perché l’attesa le sembrava più spossante di qualsiasi novità.
Quella mattina le avrebbero presentato l’esperto, secondo le indicazioni avute il giorno prima. Cercava di immaginarsi la persona con cui d’ora in poi avrebbe dovuto condividere intere giornate.
Incamminandosi verso la solita scalinata, le si affacciò l’ipotesi di chiedere al direttore di essere sostituita, o ancora meglio, di venire trasferita (ma cosa, cosa! La si costringeva a sperare: di lasciare il “suo” ufficio!). Sarebbe stata comunque una soluzione di ripiego, perché tutti gli impiegati del
Ministero erano destinati alla riqualificazione.
Nessuno scendeva con lei verso Trastevere. Alzò gli occhi a guardare il Cupolone e il cielo pulito. Appoggiò male il piede sinistro, chinò la testa stupita per ciò che le accadeva, lanciò un urletto accorgendosi di perdere una scarpa e di stare rotolando di gradino in gradino, fino a battere con le spalle contro il marmo duro di una fioriera. Realizzò di essere sdraiata a terra, di non stringere più in mano la borsetta, di avere le calze strappate.
Di fronte a lei la fermata del 28, la gente accalcata che la osservava distratta e indifferente.
Pensò che per la prima volta in tanti anni sarebbe arrivata in ritardo, e ci rimase male.
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in racconto