Ci arrampichiamo su questa stradina incastrata in mezzo al paese, con il sole che sembra voglia appiccicarmisi addosso da quanto picchia forte. Il mio primo giorno avevo messo le scarpe eleganti, talmente scomode che già all’ora di pranzo non ne potevo più di scarpinare in quei raffinati strumenti di tortura. Eppure, non avevo imparato la lezione e ogni giorno maledicevo il me stesso di qualche ora prima, colpevole di aver messo di nuovo quelle scarpe.
Oggi per fortuna è una giornata tranquilla: io e Alessandro dobbiamo coprire al massimo una trentina di esercizi commerciali e l’unica seccatura, oltre alle scarpe scomode, ai jeans irritanti, alla camicia comprata in promozione prendi-due-paghi-uno, al caldo, è la morfologia del territorio.
Alessandro va più spedito, non deve nemmeno portarsi a spasso novanta e passa chili, ma comunque, almeno nella prima parte della giornata, riesco a tenere il passo con accettabile facilità.
«Buongiorno signora, lei ha il POS, giusto? È soddisfatta della sua connessione a internet?».
La signora gestisce un negozio di bigiotteria, ci dice che la sua connessione va più che bene e che lei non ha tempo da perdere. Non vorrebbe nemmeno metterci un timbro, tanto le stiamo antipatici. Alessandro insiste, la signora farfuglia qualcosa in dialetto, tira fuori il timbro e ci suggerisce caldamente di non intervallare più la sua giornata con la nostra presenza.
«Guarda questi due. Hanno già chiuso un contratto.»
Alessandro mi fa vedere sul cellulare la foto che gli ha inviato Matteo: ci sono lui e Gianluca con in mano un contratto firmato per l’allaccio di una connessione Ultrafibra in promozione per i primi dodici mesi.
«Bravi, no?»
«Becchiamo sempre la parte sbagliata del paese.»
Alessandro scuote la testa e allunga il passo, la strada non accenna a spianare, anche se non dovrebbe mancare molto alla piazza in cima al paese.
«Ale?»
«Dimmi.»
«Ho fatto un sogno strano stanotte.»
«Sì?»
«Sì, ho sognato che davo un pugno a un fascista.»
Alessandro ridacchia, anche se non vorrebbe farsi vedere, è ancora seccato dalla signora sgarbata e soprattutto dal fatto che gli altri due hanno già chiuso un contratto.
«Hai dormito dai tuoi stanotte?»
«No.»
«Non era finita con Laura?»
«Sì, però lei non voleva dormire da sola.»
«Forse volevi dare un pugno a lei invece che al fascista.»
«Ma perché devi dire queste cazzate.»
Alessandro borbotta qualcosa a denti stretti che non capisco, si è infilato dentro un tabacchi. Solo perché le sue scarpe eleganti non sono scomode.
Entro in un negozio di abbigliamento, dò uno sguardo in giro, mi soffermo su una camicia bianca che sembra molto leggera: costa 109,95€. Non conosco nessuno che spenderebbe una cifra simile per una camicia.
Una ragazza in gonna corta e top verde mi si avvicina
«Caldo eh?»
«Parecchio.»
«Stava guardando le camicie?»
«Oh, no, ehm, volevo sapere se siete soddisfatti della vostra connessione internet.»
«Oh, sì grazie, buona giornata.»
La ragazza batte in ritirata sprofondando nel negozio, provo a chiederle se mi può mettere un timbro, ma fa finta di non sentirmi e io non ho il coraggio di inseguirla. Alessandro me lo dice sempre: sono la persona peggiore per fare questo lavoro.
«Perché entri in questi posti?»
«Ho provato il colpaccio.»
«Il timbro?»
Allargo le braccia sperando di suscitare simpatia nel mio Generale Ammiraglio della Fibra Ottica Cittadina. Niente, mi manda a cagare.
Finalmente arriviamo in cima. Se fossi un turista sarei contento di questa passeggiata, perché mi avrebbe portato al cospetto di una graziosa piazzetta, dominata da una chiesa imponente e bellissima, e affollata di persone bramose di soddisfare la loro sete di arte, cultura, quelle cose lì. In realtà io odio fare il turista, ma soprattutto odio i turisti.
Per fortuna Alessandro conosce il paese, ci infiliamo in un vicoletto poco lontano dalla chiesa, ci sediamo sui gradini di un pozzo e Alessandro tira fuori una bustina di marijuana.
«Com’era?».
«Chi?»
«Il fascista, hai detto che hai sognato di prendere a pugni un fascista.»
«Boh. Ho detto che gli ho dato un pugno comunque.»
«Vabbè, com’era?»
«Non lo so. Come sono fatti i fascisti?»
«Che cazzo di domanda è? Sei tu che l’hai sognato.»
«Boh, continuava a urlare qualcosa di fascista e io gli ho dato un pugno.»
Alessandro gira la canna, la accende, fumiamo lontano da sguardi indiscreti, ci passa a fianco una coppia di ragazze con gli zaini in spalla che ci sorride, ma siamo già troppo vecchi per sorridergli a nostra volta. Alessandro spegne la canna e siamo di nuovo sulle stradine strette, a farci mettere timbri su un foglio di carta per dimostrare alla nostra azienda l’impegno profuso nel nostro imprescindibile lavoro.
«Guarda, tanto lo so che te lo hanno già detto, però è vero, fidati, le donne vanno e vengono, a un certo punto te ne accorgi e basta.»
Ci siamo fermati a pranzo con gli altri due. Alessandro ovviamente ha detto a Matteo e Gianluca che io e Laura ci siamo lasciati. Avevo sperato che non lo facesse, ma allo stesso tempo non volevo dare l’impressione di quello che si vergogna perché la tipa l’ha lasciato.
«Guarda me cazzo, oh, io mi sono sposato con una bravissima ragazza!»
«Siamo ancora tutti molto sorpresi da questa cosa.»
«Vaffanculo Ale.»
«Però ha ragione. Evidentemente lei non era quella giusta.»
«Boh, io non lo so mica se esiste quella giusta. Mi sembra anche un po’ sessista.»
Vengo ricoperto di insulti e accusato di voler riportare sempre il discorso su argomenti diversi da quelli che si stavano affrontando in quel momento. Gianluca non aveva parlato per niente e volevo avere anche il suo parere, tanto era stata buttata definitivamente in caciara.
«Boh, che ne so, basta che non rimanete amici, tanto non vuol dire una sega».
Ringrazio Gianluca per il suo prezioso contributo a questa discussione, mi prendo un altro giro di bonari vaffanculo, e ordino un panino cotto e formaggio.
Quando finiamo il lavoro Alessandro mi vorrebbe riportare a casa, ma gli dico che ho appuntamento con mia madre dal meccanico.
Lei è convinta che la mia presenza, in quanto primogenito maschio, sia garanzia di un trattamento equo e disinteressato da parte del meccanico, il quale di solito, invece, sempre secondo le sue convinzioni, tenta di arraffare più soldi possibili senza nemmeno aggiustare le macchine. Alessandro mi lascia dove gli chiedo, mi saluta, mi dà una pacca sulla spalla e dice che ci vediamo domani. Lo ringrazio, scendo, dal meccanico ci sono mia madre e mia sorella che aspettano fuori dall’ufficio.
«Beh?»
«Ciao, siamo appena arrivate, dice che la macchina è pronta, tua sorella sta parlando al telefono, com’è andato il lavoro?»
«Bene.»
«Perché hai messo di nuovo le scarpe scomode? Hai ancora l’altro paio, quelle da ginnastica a casa, vero?»
«Sì.»
«E perché hai messo quelle? Hai detto che ti fanno male.»
«Eh.»
Il meccanico esce dall’ufficio, è abbastanza sorpreso di vedere una famiglia intera per ritirare una macchina. Non posso dargli torto. Entriamo nel garage, lui ci spiega qualcosa che ha che fare con una cinghia di trasmissione, non ho capito molto, non mi intendo per niente di motori, ho provato a spiegarlo a mia madre, ma lei continua a dire che comunque ne so più di lei. Mentre torniamo a casa, io e mia sorella su un’auto, mia madre nell’altra, quella con la quale erano venute, noto che l’allergia di mia sorella è peggiorata.
«Come stai?»
«Bene.»
«Come va la faccia?»
«Ieri ho fatto le analisi, non dovrei avere altre allergie.»
«Allora perché è così?»
«Non lo so, sono allergie, non ci si può fare niente.»
«Ma tu stai bene?»
«Sì, te l’ho detto, madonna.»
Continuo a guidare in silenzio, lei fa qualcosa sul cellulare, mi ha detto che anche lei si è lasciata da poco con il suo ragazzo.
«Stanotte ho sognato che davo un pugno a un fascista.»
«Che cazzata.»
«Perché?»
«Perché è stupido.»
«È divertente.»
«Come no.»
«Guarda che non era il tuo ex come si chiama.»
«Ancora. Non era un fascista.»
«Diceva che era contento che il nonno avesse le stampe del Duce sul corridoio.»
«Scherzava. Madonna oh, uno non può più dire niente.»
Parcheggio sotto casa di mia madre, saluto mia sorella e riparto, devo ancora finire il trasloco e stasera avevo promesso a Laura che avremmo cenato insieme. Quando scendo dalla macchina sono stanco, non tanto fisicamente, ma mi sento stanco. Faccio dei respiri profondi, la mia counselor ha detto che può essere di aiuto.
Entro nel palazzo dove abito (o abitavo a questo punto) dietro alla Signora Vicina, una donna bionda e non curata della quale non ho mai saputo il nome. Sono entrato in contatto soprattutto con le due donne filippine che vengono ad accudire la madre della Signora Vicina. Suonano il mio campanello ogni sera, tra le 20:40 e le 21, perché sanno che io e Laura le conosciamo. Mi sono sempre chiesto come abbiano fatto a entrare quando io e Laura eravamo fuori. Una sera mi hanno detto che la Signora Vicina aveva promesso che le avrebbe fatto un mazzo di chiavi per entrare nel palazzo, ma dal momento che il nostro citofono ha continuato a suonare, suppongo che la cosa non sia andata in porto.
«Buonasera.»
«Buonasera.»
«Lei è la figlia della signora anziana al secondo piano, giusto?»
«Sì.»
«Ehm, ecco, volevo chiederle se ha pensato di fare le chiavi, per, ehm.»
«L’hanno disturbata?»
«No, macché, no, nessun disturbo, però, sa, adesso io mi sto trasferendo quindi.»
«Ho capito.»
«Forse avranno bisogno delle chiavi.»
«No. Le perdono.»
«Oh, beh, io non credo che.»
«Le perdono. Si fidi.»
«Ah.»
«Grazie, buona serata.»
La Signora Vicina sale le scale, si starà chiedendo come abbia fatto a essere così ingenuo da pensare che due badanti filippine possano prendersi cura di un oggetto così problematico come un mazzo di chiavi. Spero, comunque, di averla offesa.
Faccio una rampa di scale, tiro fuori le chiavi, che io invece perdo spesso, ed entro in casa.
«Ehi».
«Ciao!»
Laura mi sorride, è sul divano che sta leggendo una rivista in inglese, la luce soffusa di una lampada a sale rosa le illumina il viso. Ha i capelli corti tutti arruffati e le pochissime lentiggini sul viso sono valorizzate dalla luce calda della lampada. Mi avvicino, le dò un bacio sulla guancia prima di togliermi le scarpe, ma per questa volta non ci fa caso che non me le sono tolte sull’uscio, anzi, mi chiede se ho pensato a cosa ho voglia di mangiare.
«Non lo so. Tu di cosa hai voglia?»
«Potremmo fare del riso.»
«È vero.»
«Oppure, non lo so, a te va il riso?»
«Sì, perché no.»
Mi tolgo le scarpe, la camicia, la giacca, tutto, mi metto in tuta anche se dovrei andare prima a fare la doccia, ma non ne ho nessuna voglia. Mi siedo vicino a lei sul divano, lei chiude la rivista e mi dà un abbraccio.
«E invece una pizza?»
«Che buona idea. Sei sicura?»
«Sì, dai, è l’ultima sera.»
Chiama lei la pizzeria che sta in centro, è di proprietà di due iraniani che usano il lievito madre per l’impasto, ci siamo andati un sacco di volte, la pizza è ottima.
«Hai visto tua madre oggi?»
«Sì, anche mia sorella. Sarà uno spasso.»
«Immagino.»
«Non ho voglia di vivere lì. Penso che cercherò qualcosa per conto mio.»
«Hai dei soldi tuoi, fai bene.»
Sì, ho dei soldi miei, è da quando ho capito che non avrei mai potuto ambientarmi nella mia famiglia – quindi compiuti i quindici anni – che volevo dei soldi miei: volevo andare via e sognavo di farlo proprio con una ragazza come Laura. Ironia della sorte, avevo incontrato una ragazza come Laura, anzi, meglio, Laura in persona, prima di scoprire che le relazioni, al contrario della Fibra Ultraveloce, non semplificano la vita. Forse sono stato troppo duro nel giudicare il mio lavoro.
«Io non voglio che ci lasciamo.»
«No, nemmeno io.»
Lo abbiamo detto a turno almeno cinque volte a testa nell’ultimo mese, tanto che ormai non ha nemmeno più importanza chi pronuncia la prima battuta e chi la seconda. Lei mi ha detto che non avrebbe mai smesso di starmi vicino e io le ho risposto che non c’era mai stato nessuno di così importante nella mia vita.
«Ho fatto un sogno stanotte.»
«Uh, ma pensa, cosa hai sognato?»
«Ho sognato che davo un pugno a un fascista.»
Laura scoppia a ridere fortissimo, ha una risata che si prende la stanza. Ovviamente mi metto a ridere anche io. Lei mi guarda dritto negli occhi, senza smettere di ridere.
«Hai fatto bene!»