I fulmini sono la terza cosa al mondo che mi fa più paura. Mio marito apriva la porta di casa tutte le volte che esplodeva un temporale. Si appoggiava allo stipite e restava a guardare la pioggia, con le braccia incrociate. Tendeva i dorsali e la camicia si tirava. A volte i fulmini si schiantavano così vicini che le pareti tremavano.
«Chiudi!» lo pregavo, «che entrano i fulmini.»
«Ma sarai rimbambita» diceva lui, e poi rideva.
Era uno che rideva con tutta la faccia, senza risparmiarsi. Rimaneva lì sulla porta, e non la chiudeva.
Ho sempre avuto paura dei fulmini perché mia cugina c’è rimasta secca, con uno di quelli. Era entrata in una grotta, in montagna, per ripararsi dal temporale, e ne ha beccato uno in testa.
Ho scoperto così che i fulmini posso venirti a stanare.
La seconda cosa che mi fa più paura sono gli aerei. Il giorno in cui conobbi mio marito, lui mi disse che non c’era niente da temere per tutta una serie di questioni fisiche che tentò di spiegarmi e che ora non saprei ripetere. Mentre parlava giocava con il tovagliolo di carta che la hostess ci aveva dato assieme al pranzo; indossava una camicia bianca, fresca di stiratura, con le maniche arrotolate fino a metà avambraccio. Con le dita appallottolava il tovagliolo e ne accarezzava il bordo. Al primo vuoto d’aria gli presi le mani, stavo iperventilando. Lui abbassò gli occhi neri e sorrise, fra sé.
Mi disse: «Sa cosa deve fare per tenere su l’aereo? Non pensi mai alle parole morte o cadere.»
Gli risposi che non mi sembrava la cosa più indicata da consigliare a un’aviofobica. Che ora non avrei fatto che pensarci.
Lui rispose: «Certo che non lo è» e scoppiò a ridere.
Gli tenni la mano per tutto il resto del viaggio.
*
Sul ponte c’è un vento così forte che porta via i capelli. Dico sul serio: mi fanno male, ho davvero paura che si possano staccare dalla testa. Vengono sbalzati in tutte le direzioni e io ho ben pensato di non mettere l’impermeabile. In pratica, è come stare su un aereo che precipita col portellone aperto, tipo film, quando dicono: meno cinque secondi all’impatto.
«Goodbye winter, welcome spring», ha canticchiato l’autista di questo bus a due piani, che dà sul cielo. Pare che basti superare il ponte per ottenere quindici gradi in più – sole e niente vento.
«Bye bye San Francisco, Welcome Sausalito,» ha detto e io non vedevo l’ora.
Il bus scricchiola ovunque e io penso a quanto poco conti la cultura se a pochi metri hai una costiera assolata ad aspettarti.
Spesso dicevo a mio marito: «Mostra in centro o gita al mare?»
Lui rispondeva: «Mostra. Per il mare c’è sempre tempo.»
Ecco, ora so che questo non è vero.
Di solito mi documento molto prima di un viaggio perché ho paura di perdermi qualcosa per strada, e così mi capita sempre di arrivare con tutta una serie di aspettative. Un misto di informazioni, letture, sentito dire. Poi va a finire che tutto è già visto, e le emozioni me le perdo per davvero. Di Sausalito non conoscevo nemmeno l’esistenza. È così che si fanno le migliori scoperte. L’autista mi ha detto: «It’s like your Costiera Amalfitana» – certo, tranne per la fila di case vittoriane che fiancheggia la via principale. Nonostante ciò, l’odore del mare è lo stesso. Ho scoperto che Sausalito in inglese si pronuncia SOU-SU-LI-DOU e me lo ripeto a bassa voce. Ho scoperto anche che è una parola spagnola che significa bosco di salici. Il paese è adagiato in una conca sul mare perciò fa caldo e c’è quasi sempre il sole qui. Dai ristoranti azzurrini esce profumo di clam chowder e i vecchi tirano fuori dalle teche dei negozi certi soldatini di piombo della Guerra di Secessione. Controllano le pennellate in controluce.
Tutto è lento e caldo, qui.
Mi accodo a un gruppetto di turisti di mezz’età, con le polo rosa Ralph Lauren e il maglioncino preppy legato in vita. Hanno i capelli color cenere e la cute chiara, macchiata di efelidi. Un alone rossastro inizia a imprimersi sul collo del più alto di loro.
Mio marito sarebbe corso a spalmargli la crema, non ho dubbi.
È sempre stato sensibile, mio marito. Una volta gli ho proposto di riguardare Jurassic Park perché proprio non resisto quando vedo dinosauri che sbranano le persone. Lo davano in tv. Lui mi ha chiesto se preferissi guardarlo su Netflix, senza interruzioni, ma io ho risposto di no. Amo gli spot pubblicitari, allentano la tensione. A metà film mi sono girata appena e ho visto che aveva le guance bagnate. Mi ha detto che era per via di John Hammond, il vecchio coi capelli bianchi che aveva ideato il parco.
Ha detto: «Lui in quel parco ci aveva creduto davvero.»
Dopo i titoli di coda, ha acceso il pc, l’ha collegato alla televisione, e ha aperto una cartella di fotografie vecchie di dieci anni. Viaggi, cene, amici che non ricordavo d’avere avuto. Le abbiamo guardate tutte. A ogni mia foto mi coprivo la faccia con le mani e dicevo: «Cazzo, quando sono invecchiata.» Lui mi ha risposto che ero più bella con qualche ruga. Balle, ovviamente. Poi ho visto una foto di mia madre e ho pianto. Aveva in braccio il gatto che ora è sepolto sotto il vaso di begonie. Mio marito mi ha dato un bacio in fronte. Dentro la cartella ce n’era un’altra, con il mio nome sopra. In una foto ero nuda, stavo appoggiata al lavandino col seno fuori; in un’altra ero di schiena, facevo vedere il culo. Erano tutte foto che mi aveva fatto qualche anno prima. Glielo avevo chiesto io di scattarmele. Lui cliccava col mouse sui capezzoli e faceva un verso strano con le labbra, come se si succhiasse la lingua, e io gli ho detto di smetterla. Ma lui continuava e risaliva la coscia con la mano. Mi sono alzata dal divano, mi sono versata un bicchiere d’acqua. Lui mi ha raggiunta, mi ha tolto il bicchiere di mano, ha iniziato a baciarmi. Mi ha detto che gli sono sempre piaciuta, più di tutte. Mi ha messo un braccio intorno al collo e mi portata a letto. Mi ha detto di non muovermi ed è andato in bagno. È tornato dopo qualche minuto, aveva gli occhi truccati di ombretto blu. Ho girato la testa di lato mentre lui faceva.
Alcuni artisti di strada pescano turisti a caso dalla fiumana di gente e li convincono a fare cose. Se ne stanno sul parchetto assolato piazzato fra la Bridgeway Promenade e il mare. C’è profumo di eucalipto nell’aria. Un hippie coi capelli da Gollum e un panciotto pieno di spille attende dietro a un banco su cui è appoggiato un cartoncino che dice: SHITTY ADVICE $1. Mi metto in fila, non mi capita mai di ricevere consigli non richiesti; sarà perché ho imparato a tenere a distanza le persone. Quando arriva il mio turno, dico all’uomo una cosa che non ho mai detto a nessuno. Mi avvicino, glielo bisbiglio all’orecchio. Lui cambia espressione, e per un attimo mi guarda come si guarderebbe un animale ferito. Estrae dalla tasca slabbrata del panciotto una matita e si piega sul banco a scrivere qualcosa. Copre il foglio con tutto il busto, come fanno i bambini a scuola. Arrotola il biglietto e me lo consegna, io infilo cinque dollari nel barattolo di vetro con gli adesivi sopra. Lo rigiro fra le dita, provando ad aprirlo, ma la donna ossigenata dietro a me inizia a schiarirsi la voce, così me lo ficco in tasca e mi sposto di lì.
Cammino verso il mare, e una ragazza in jeans e maglietta si offre di leggermi la mano per cinquanta dollari. Dice che è possibile pagare col POS. Le rispondo di no, che la prima volta mi è bastata. Mi ci accompagnò mia madre, era una tradizione delle donne di famiglia. Una maga di tutto rispetto, con fazzoletto nero in testa e cornetti al collo. Usava le sibille napoletane e quando le chiesi se veniva dal sud lei mi guardò come avrebbe guardato un uomo con un braccio solo, e rispose in dialetto reggiano che era nata a San Martino in Rio. Mischiò le carte, che erano grigiastre, raddoppiate di volume per via dello sporco delle mani. Mi fece alzare con la sinistra. Mi diceva i nomi delle carte, man mano le calava sulla tovaglia rossa: la Fanciulla, il Gran Signore, l’Imeneo. Poi i Deliranti, la Morte e qualcos’altro ancora. Mi disse che mi sarei sposata con un medico o un avvocato, o qualcosa del genere, e che avrei avuto una vita agiata. Mi disse anche che avrei avuto due gemelli e che verso i quarant’anni la mia vita sarebbe cambiata del tutto. Mi disse che io e mio marito ci saremmo separati. Questa storia piaceva a mio marito, la raccontava proprio a tutti. Era un anatomopatologo e non credeva a nulla che non potesse vedere al microscopio. Ecco la sua prova del nove. Non avremmo avuto i gemelli, e di sicuro non ci saremmo mai separati.
Il giorno in cui lo abbiamo portato via mia madre mi ha detto che ci aveva sperato fino all’ultimo, non fosse stato per le parole della maga. Lo amava, mia madre, come tutti. Quel giorno ho visto tante persone piangere, in chiesa. Camminavo lungo la navata, come il giorno del mio matrimonio, e non ce n’era una che non piangesse, non esagero. E mentre le guardavo mi sentivo euforica e mi chiedevo come sarebbe stata, quella mia seconda vita. Credevo sarebbe stato facile come passare la spugna su un vetro pulito.
Cammino fino allo yacht club dove decine di dorsi bianchi scintillano nell’acqua. Un uomo con un cappello alla pescatora e un cacatua sulla spalla si avvicina, in perfetto silenzio. È tutto vestito di bianco, senza espressione, e io mi chiedo se non provenga dal teatro, o qualcosa del genere. Andavo spesso a vedere le tragedie greche, a mio marito piacevano. Io mi sentivo solo un’ignorante. Quest’uomo mi ricorda gli uomini del coro – sarà per la faccia solenne, o il colore uniforme dei vestiti. Mi si affianca. Il cacatua bianco mi salta sull’avambraccio e lo usa come un trespolo. Inizia a fare le giravolte. L’uomo mi mette una nocciolina fra le labbra, muovendo le mani guantate come un mimo, e il cacatua mi dà un bacio. Poi mi mette a sedere su uno sgabello, davanti a una delle estremità di un lungo tubo bianco con su scritto THE BABY MACHINE. Non parla, ma sa essere parecchio autoritario, e mi indica uno spioncino al centro esatto del cerchio di cartone che sigilla il cilindro e io mi abbasso per guardare. Vedo tutto bianco finché, alla fine del tubo, non compare il cacatua. Abbassa la testa, rotola. Mi viene incontro, diventa sempre più grande, è sempre più vicino. Ha gli occhi neri come bacche e le palpebre blu. Mi guarda dentro, e a me manca il fiato. Quando giro la testa, l’uomo col cappello si tocca la pancia e mi dice: «It helps fertility.» Gli chiedo come si chiama il cacatua. Lui risponde: «Chinhook.» Dice che viene da Santa Monica e che non sopporta il freddo. Che quando stavano a San Francisco ha provato a suicidarsi volando in un giardino pieno di cani. Per questo si sono trasferiti qui, a Sausalito, dove c’è sempre il sole.
Poi mi dice che parla. Gli chiedo cosa sa dire e lui risponde: «Only lies.»
Verso le cinque riprendo l’autobus. Goodbye Sausalito, welcome back San Francisco.
In lontananza, oltre alle colline verdi di El Presidio, si stanno addensando delle nubi nere, minacciose. Un grumo scuro ed elettrico. Due fulmini vengono calciati fuori, come espulsi dalla placenta. So che sono troppo lontani per venirmi a stanare, così li guardo fisso e mi metto l’impermeabile sulla pancia. La sento ingrossare sotto le mani mentre i tuoni esplodono. O forse è solo una mia impressione. Se ci fosse stato mio marito lo avrei pregato di proteggermi e lui mi avrebbe detto: «Che imbranata!». E io avrei avuto paura.
Mentre attraverso il Golden Gate tolgo dalla tasca il biglietto dell’hippie e lo apro. C’è una scritta in stampato, un tratto leggero, tracciato da una matita dalla china dura. Dice: DONT RUN AWAY FROM IT. JUMP INTO IT.
I fulmini sono la terza cosa che più mi fa paura; la seconda sono gli aerei. È l’idea di cadere che mi fa paura, e più precisamente di inabissarmi nell’oceano. Di scomparire nel blu profondo, di colare a picco mentre un’elica di bolle luminescenti risale in superfice, e tutto intorno a me continua a vivere. Mi rigiro il biglietto fra le mani e mi torna in mente la faccia dell’hippie quando gli ho detto che la cosa che mi fa più paura al mondo è il blu dell’oceano. Non sono stata sincera prima, quando ho detto che questa cosa non l’avevo mai raccontata a nessuno. Mio marito lo sapeva, sin da quel primo giorno, sull’aereo.
«Perché non guarda fuori dal finestrino? Aiuta sa?» mi aveva detto.
«Non posso, tutto quel blu mi terrorizza.»
Lui aveva sollevato il mento e aveva spostato i suoi occhi su di me. «Allora guardi me e basta.»
Di colpo una folata di vento mi solleva i capelli, e il biglietto viene scaraventato in cielo. I vetri dell’autobus si mettono a vibrare nelle cornici di metallo. Come dicono nei film: due secondi all’impatto. Getto gli occhi oltre al ponte, sulla massa d’acqua cobalto che scorre sotto di me. Durante il viaggio di andata pensavo a come sarebbe stato bagnare d’oceano la mia giornata. Ma questi sono pensieri che non mi posso più permettere d’avere. Il vento fa scivolare l’impermeabile dalla pancia, e i capelli mi si sollevano tutti, come all’interno di una gabbia di Faraday.
Raccolgo l’impermeabile, me lo allaccio in vita. È ancora troppo presto perché possa vedersi, ma io mi ostino a nascondere tutto con maglioni spessi e vecchie camicie di mio marito. Quando sono andata alla visita, l’unica domanda che ho fatto al ginecologo è stata: «Quanti cuori vede?» Lui mi ha sorriso con quel modo paternalistico che hanno quasi tutti i dottori. Come se dovessero sedurti e farti da padre, allo stesso tempo.
«Stia tranquilla, lei avrà solo un bambino», mi ha detto.
Ho letto di storie assurde, gravidanze gemellari scoperte all’ultimo minuto, parti con sorpresa. Ma a me non succederà. La maga si è sbagliata. Mi ripeto che non esiste nessun destino, che ci sarà solo quello che avrò la forza di fare. Non so se è vero, ma è un pensiero che mi consola.
Mi accarezzo la pancia mentre il vento fa tremare l’autobus. Abbiamo attraversato quasi tutto il Golden Gate. Mi allontano dall’oceano, mi sento più serena ora.
*
La prima cosa che ho notato quando la ragazza giapponese mi ha mostrato l’appartamento, è che da qui si vede la baia. Dalla camera da letto, per la precisione.
Vicino la finestra c’è una toeletta di legno con un grande specchio. Ho riscoperto il piacere di truccarmi. Con il pennello piatto raccolgo un po’ di polvere, la stendo sulla palpebra – riscopro i gesti meccanici di quand’ero ragazza. Intuisco che il blu mi dona.
Tra poche ore sarò sull’aereo ma mi sento calma – quasi rilassata, in effetti. Non riesco a credere che questa vacanza sia già finita. Mio marito l’aveva programmata per mesi. Le case vittoriane, Lombard Street, Muir Woods. Solo Sausalito non era compreso nell’itinerario. Quella è stata una mia idea.
Ci sono tornata in quel posto, proprio questa mattina. C’era poca gente, qualche nuvola grigia. Un’aria completamente diversa rispetto alla prima volta. Non ho visto l’uomo col panciotto, e nemmeno la cartomante. È stato come tornare in chiesa, poche ore dopo il tuo matrimonio, o come in piazza, la mattina del primo giorno dell’anno. I ristornati erano chiusi, uno spazzino con la tuta verde raccoglieva filtri di sigarette da terra. C’era solo l’uomo vestito di bianco. Era seduto di fianco alla sua BABY MACHINE, con le gambe accavallate. Fumava una paglia dietro l’altra, buttava a terra le cicche. Si è allontanato solo una volta. È entrato nel bar, dall’altra parte del parco. Dopo dieci minuti, è uscito con una bottiglia d’acqua in mano, si è fermato a parlare con una cameriera giovane e bella. Sorrideva, piegava la testa di lato, come i cani quando cercano approvazione. Dava le spalle alla strada, al tubo magico che aiuta la fertilità. Alla gabbia.
Il display del telefono si illumina, dev’essere il taxi per l’aeroporto. Controllo che il trucco sia venuto bene, che la sfumatura sia elegante e non volgare. La baia è luminosa e chiara. So che tutto questo mi mancherà.
Raccolgo le valige, incrocio il suo sguardo. I suoi occhi sono neri come bacche – le palpebre blu. Fa un saltello, si aggrappa col becco a una delle sbarre della gabbia – apre le ali, svolazza un po’. Sembra confuso. Ritorna sul trespolo, mi osserva. Piega la testolina bianca di lato. Mi sta chiedendo di restare, io lo so. Mi sta chiedendo di non lasciarlo, di tirarlo fuori dalla gabbia. Forse ha fame, o forse è spaventato. Magari ha freddo. Penso che potrei portarlo con me, fargli conoscere il mio bambino. Lui gli parlerebbe, lo cresceremmo insieme. Non importa se le sue parole saranno verità o un mucchio di bugie. Mentre penso a questo mi avvicino alla gabbia, e subito mi manca il respiro. I suoi occhi – è come scivolare in un posto buio, in profondità, dove non c’è ossigeno. È come annegare mentre tutto intorno continua a vivere. Sento le vecchie paure tornare, aggrapparsi a me. Paura di volare, di annegare. Paura del destino, del colore blu. Di restare sola. Sono pensieri che non posso più permettermi d’avere.
Il telefono squilla di nuovo. Salgo in superfice, riprendo a respirare. Afferro le mie cose ed esco dalla stanza, senza più guardare il mare.