Il 6 febbraio del 2018 è nato mio figlio. Era un martedì. Avevo passato gran parte della notte precedente a rigirarmi in un letto che emetteva, a ogni mio movimento, un suono metallico e animalesco.
Lo associo a un barrito, per capirci.
Mia moglie dormiva sul letto accanto. Per non svegliarla, a un certo punto avevo deciso che non mi sarei più mosso. Ero rimasto immobile fino all’alba, in una posizione per la schiena del tutto innaturale. E ce n’era voluto di tempo perché il dolore che dal collo si estendeva alla zona lombare sfumasse in un fastidio costante ma sopportabile.
Le luci si accesero alle sei. Nel corridoio due infermiere si misero a parlare di un centro commerciale appena inaugurato. Furono loro a svegliare mia moglie, che stizzita tirò il lenzuolo sopra la testa. Per un attimo mi sentii in dovere di uscire e chiedere di abbassare la voce, ma provavo un certo imbarazzo per aver dormito in ospedale non essendone autorizzato, almeno ufficialmente. Nessuno poteva restare in reparto oltre l’orario di visita. Nel mio caso, dato che il primario era un cugino di mia moglie, mi avevano permesso di usufruire di un posto letto, a patto che, se fosse arrivato un ricovero, avrei sloggiato senza dare troppo nell’occhio. È uno dei motivi per cui la sera prima mi ero messo a letto vestito.
Così lasciai perdere le due infermiere. Tutto indolenzito, poggiai i piedi sul pavimento e mi alzai. L’impianto di aereazione dell’ospedale era sempre acceso. Il caldo soffocante. L’odore di chiuso intenso. Aprii l’anta a ribalta della finestra per lasciar entrare un po’ d’aria fredda. Pioveva. Le gocce cadevano dalla sera prima sull’erba sintetica del campo di calcetto, sulle tegole in cotto antico della chiesa, sui balconi affollati di bici arrugginite, stendini chiusi, piante bruciate dal gelo.
Mia moglie mi chiese di accompagnarla in bagno. Le serviva una mano a trascinarsi dietro l’asta della flebo, il tubicino, il flacone e tutto il resto. La sua pipì emanava odore di frutta matura. Durante la notte la glicemia aveva avuto un’impennata e al mattino la tendenza non si era invertita. Seguivamo un protocollo che prevedeva somministrazioni scaglionate di insulina, a determinate ore e di diverse quantità. Il diabetologo ci aveva garantito una percentuale di efficacia molto alta. Ma, da come stavano andando le cose, il protocollo non funzionava.
«Non capisco cosa stiamo sbagliando», dissi tastandomi le occhiaie davanti allo specchio.
Prima di rispondere, mia moglie si era pulita, rialzata e aveva tirato su i pantaloni del pigiama.
«Adesso chiamo il dottore»
È curioso il modo in cui io e mia moglie usiamo i pronomi in relazione alla sua malattia. Io parlo sempre di noi, noi due. Chiamiamo, facciamo, andiamo. Lo vedo come un tentativo di mostrarle vicinanza. Mia moglie invece usa la prima persona singolare, io, come se non riguardasse anche me. È una possibilità che offre il linguaggio, credo, tracciare il confine fra una persona a cui succede una cosa e una persona a cui quella cosa non succede.
Alle otto del mattino, l’ostetrica venne in camera e chiese a mia moglie di prepararsi. Le consegnò un camice, uno di quelli aperti dietro e trasparenti davanti, e attese che lo indossasse. Fu rassicurante. Fece una battuta che non ricordo, ma ricordo che ridemmo tutti. Io e mia moglie ci baciammo. Poi si sistemò sulla sedia a rotelle e, mentre usciva dalla camera, le dissi qualcosa come Ci vediamo dopo o Andrà tutto bene oppure niente, c’è la possibilità che non le abbia detto niente.
Non era la prima volta che lei andava e io restavo. Ci era già capitato sei anni prima, quando si era sottoposta a un intervento al rene destro. E anche dopo, con le tac, le risonanze, i controlli periodici, si perpetuava lo stesso identico meccanismo. Per quanto sperassi il contrario, inevitabile giungeva il momento di dirci Ciao o A dopo o cose del genere. Lei andava e io restavo, seduto sulla solita sedia di plastica nella solita sala d’attesa illuminata dai neon.
Per più di un’ora nessuno si fece vivo. Andai al distributore e ci rimasi non so quanto, indeciso se prendere un caffè o una Coca Cola. Alla fine presi un caffè, ma prima che potessi fare un solo sorso, un ragazzino, correndo, mi venne addosso. Il caffè finì sul pavimento e in parte sulle scarpe.
Quando l’ostetrica si avvicinò, mi stavo ancora ripulendo. Eravamo nel corridoio. Non la riconobbi. Era la stessa che avevo visto un’ora prima, eppure mi rivolsi a lei convinto che fosse un’altra persona. Mio figlio era nato e stava bene.
«Ok», dissi.
«Tra poco verranno a chiamarti per vederlo»
«E mia moglie come sta?»
«Sta bene, ma è molto stanca, adesso riposa»
Non sapevo cos’altro dire. Mi morsi il labbro. La ringraziai. L’ostetrica si allontanò e io tornai in camera. Inviai alcuni messaggi WhatsApp per dare la notizia agli amici più vicini. Andai in bagno, più di una volta. Mi mossi galleggiando verso il distributore per un altro caffè e questa volta feci in tempo a buttarlo giù.
Al mio ritorno trovai i parenti. Avevano avuto il permesso di entrare e loro, spietati, avevano fatto irruzione. C’erano tutti. I padri e le madri, i fratelli e le nipoti. Anche una lontana zia sul cui nome ero incerto. Operosi ed efficienti, avevano già addobbato la camera a festa. Confetti azzurri, paste di mandorla. E poi fiori, fiocchetti, palloncini con su scritto Benvenuto.
Durante la cerimonia degli auguri mi accorsi di avere un alito fognario, le cui esalazioni appestavo l’aria già viziata della camera. Iniziai a mettere la mano davanti alla bocca, ogni volta, prima di parlare, fingendo di pulire il naso o di grattarmi il labbro. Auguri. Grazie. Auguri. Grazie. Tutti chiedevano la stessa cosa. A tutti rispondevo la stessa cosa. Tutti sorridenti. Tutti inquieti.
Mezz’ora dopo ebbi l’impressione che qualcuno mi stesse chiamando. Smisi di ascoltare il chiacchiericcio dei parenti e mi concentrai sui suoni provenienti dall’esterno.
«Ferrara!», urlava una voce che a mano a mano si faceva più vicina.
Mi precipitai fuori dalla camera.
«Sono io»
«Buongiorno papà, venga con me»
All’apparenza mi parve un medico, ma avrebbe potuto essere un assistente o un infermiere. Capelli carichi di gel, schiena dritta, passo impettito. Mentre camminavo dietro di lui, realizzai che quell’uomo era stato il primo a chiamarmi papà da quando lo ero diventato. Mi condusse davanti a una porta, sullo stesso piano, sfilò un mazzo di chiavi dalla tasca del camice e la aprì. Prima di andare, mi lasciò nelle mani di un’infermiera.
La donna indossava una divisa bianca con i personaggi dei fumetti Disney disegnati su: Topolino, Pluto, Pippo e qualcun altro. Mi diede tutte le informazioni relative a orari di apertura, procedura d’ingresso e igiene. Mi chiese di indossare un camice verde e dei copriscarpe. A ogni sua indicazione facevo di sì con la testa. Subito dopo mi mostrò un piccolissimo bagno, dentro il quale c’erano solo un water e un lavandino. Lavai le mani e le braccia fino ai gomiti. Strappai un foglio di carta per asciugarmi e, una volta pronto, l’infermiera mi fece cenno di seguirla. Io annuivo ancora.
La prima cosa che notai fu il tubo infilato in gola e il cerotto che serviva a tenerlo fermo sulla bocca. Un ago scompariva nella vena del braccio destro. Fili, sensori e spie lampeggianti con cautela si aggrappavano al suo corpo. Le gambe erano due pezzetti di legno un po’ ricurvi, ricoperti di pelle. I polmoni si gonfiavano e si sgonfiavano, riempiti di ossigeno dal respiratore, svuotati dal ritorno elastico dei loro stessi tessuti. Aveva molti capelli, neri.
«Perché è qui…che è successo?» chiesi.
Il medico si avvicinò e mi strinse la mano. Aveva modi delicati e gentili. Il suo sforzo di mostrarsi sorridente era innegabile. Ciò nonostante sembrava avesse altre faccende da sbrigare.
Mi spiegò tutto ciò che andava spiegato. Fu rapido. Senza giri di parole. Mio figlio aveva avuto un arresto cardiaco. Il battito si era interrotto pochi secondi dopo la nascita. Era stato rianimato e poi intubato. Il medico fece una pausa, durante la quale forse avrei dovuto porre una domanda, forse guardarlo negli occhi, magari smetterla di annuire. Ma non feci nulla e lui riprese. Il bambino era nato con quasi due mesi d’anticipo, dovevamo tenerne conto. Il decorso era imprevedibile e dipendeva da molti fattori.
«Dobbiamo aspettare», disse per chiudere il discorso.
Mi strinse di nuovo la mano e si diresse spedito verso un’altra culla. Iniziò ad armeggiare sul corpo di un bambino ancora più piccolo di mio figlio, osseo, rossastro.
L’infermiera mi chiese se volevo fare una foto.
Ci pensai su.
«È meglio di no».
«Non sarebbe permesso, ma se vuoi, puoi farlo».
Suppongo si riferisse al fatto che ero cugino del primario e di conseguenza meritevole di un trattamento di favore. Detesto quel tipo di insinuazioni, mi fanno sentire fuori posto. Eppure, non so perché, presi il telefono dalla tasca dei jeans. Aprii la fotocamera e scattai, con il volto di mio figlio in primo piano. Infilai il telefono in tasca e mi ripromisi di tenere la foto per me.
Seguì un lungo silenzio interrotto solo dai bip delle macchine. Non sapevo cosa fare, dove mettere la mani, dove guardare. Avevo capito che non potevo trattenermi ancora, ma l’infermiera, per delicatezza, aspettava a farmelo notare. Senza una reale intenzione mi voltai verso di lei e subito mi invitò a uscire.
«Potrai rivederlo più tardi, durante l’orario di vista»
«Cioè, a che ora?»
«Alle 11.30»
Controllai l’orario sul telefonino, non mancava molto. Subito dopo la porta si chiuse con un click alle mie spalle.
Mia moglie era a letto. In attesa che diminuisse l’effetto della sedazione, l’avevano lasciata in una stanza accanto alla sala parto. Mi accostai a lei per baciarla. Da vicino mi sembrò ancora più stanca, sfatta e intorpidita di quanto avevo immaginato entrando.
Nella saletta c’erano anche alcuni parenti. La cosa mi parve inopportuna e lo feci notare a mia madre che, dal canto suo, non trovò soluzione migliore che offendersi. Stavo per dirle che la loro presenza era inutile, ma mia moglie mi fulminò con gli occhi e la smisi.
Mi chiese se lo avevo visto.
Feci di sì con la testa.
«E com’è?»
«È bellissimo», risposi e scoppiai a piangere.
Nessuno disse niente per un bel pezzo. Mi lasciarono fare. E, in fondo, gliene fui grato. Quando finalmente riuscii a calmarmi, dissi a mia moglie della foto. Lei pretese di vederla.
«Ho lasciato il telefono in camera», provai a dire, ma sapevo che non mi avrebbe creduto. Si mise a insistere. Allora gliela mostrai.
La guardò a lungo.
«L’hanno intubato?»
«Sì».
«Perché?»
«Non lo so perché»
«Non te l’hanno detto?»
«Sì. Cioè no, non me l’hanno detto»
«Ma ci hai parlato con i medici?»
«Sì che ci ho parlato.
«E allora?»
«Ha avuto difficoltà respiratorie…ora va tutto bene. Appena sarà pronto, toglieranno tutto. Si tratta solo di qualche giorno».
Mia moglie ingrandì la foto. Credo che stesse cercando di capire a chi dei due somigliava. Ne aveva parlato spesso durante la gravidanza. Aveva anche delle teorie a riguardo. Poi perse il controllo e pianse. Benché non avessi motivi concreti per farlo, provai un violento senso di colpa. Mi mancò il fiato e borbottai che avevo bisogno di uscire.
Feci un giro intorno all’ospedale. La vita lì fuori era andata avanti incurante di tutto, di noi, di me, e così avrebbe continuato a fare. Lo trovai ingiusto. Camminai odiando tutti, senza distinzioni. Avevo voglia di fare a pugni e speravo che qualcuno mi desse noia.
Comprai dei fiori, cinque gerbere di colori diversi. Ne approfittai per entrare in un Tabacchi. Da anni avevo smesso di fumare, ma quella mattina mi andava di ricominciare. Presi un pacchetto di Chesterfield Blue − quelle che fumavo quando ero all’università − poi tornai all’ingresso dell’ospedale. La donna rom seduta a terra mi salutò sollevando la scatola dell’elemosina. Io non la guardai e non risposi. Accesi una sigaretta e la nausea arrivò già al secondo tiro, improvvisa, come un banco di nebbia nella testa.
Intorno alle undici riportarono mia moglie in camera. Non poteva muoversi e neanche mangiare. Le era permesso bere, ma solo a piccoli sorsi per evitare che vomitasse. La sacca del drenaggio se ne stava sotto il letto, mezza addormentata sul pavimento, e con calma si riempiva di sangue.
Le feci vedere i fiori che avevo comprato. Mi ringraziò, un po’ delusa. Chiese di lavarsi le mani. Non si rivolse a qualcuno in particolare, semplicemente lo chiese. Sua madre si offrì di aiutarla. Fui brusco, forse maleducato, quando le dissi che ci avrei pensato io.
Andai in bagno, presi un contenitore e lo riempii d’acqua. Prima le insaponai la mano destra, la sciacquai e la asciugai. Poi rifeci la stessa operazione con la mano sinistra. Tornai in bagno, svuotai il contenitore nel water e misi a posto il resto.
Erano le 11 e dieci. Con un po’ di anticipo mi avviai verso la terapia intensiva. Le gambe erano pesanti, calde. Il pavimento cosparso di una gelatina densa e collosa su cui i piedi restavano appiccicati.
Suonai il citofono. Dall’altra parte una voce severa mi invitò a rispettare l’orario di visita. Mi sentii ingenuo per essermi mostrato così ansioso di entrare, dato che con me, nel corridoio del reparto, aspettavano mezzi imbambolati anche gli altri genitori. Per rifarmi, accennai un saluto, ma nessuno rispose.
Mi domandai, guardandoli, quale malattia fosse causa di quegli sguardi opachi, di quei corpi fiacchi. Lo avrei capito nelle settimane a venire. Quella che di solito definiamo stanchezza, oltrepassato il confine della terapia intensiva neonatale, diventa altro: saltare la colazione, prepararsi in fretta e correre in ospedale; il primo ingresso, il secondo; mangiare un piatto di pasta in mensa, sonnecchiare sui divanetti della sala d’attesa; e poi, nel pomeriggio, il terzo e il quarto ingresso; pronunciare frasi come Oggi sta meglio oppure Ha mangiato poco; i piccoli progressi; entrare in un negozio per distrarsi e sentirsi subito in colpa; sentir squillare il telefono e credere ogni volta che sia l’ospedale; abbandonarsi senza scampo a una monotonia anomala di cui nessuno conosce la durata; dormire ma non dormire mai veramente. Ecco cosa diventa, la stanchezza.
Puntuale, un ronzio elettrico aprii la porta. La massa lenta e disordinata si mosse. Una volta dentro, a turno, indossammo i camici e i copriscarpe, lavammo le mani e le braccia fino ai gomiti. Non mi isolai, come al solito. Anzi, mi mostrai attento alla presenza degli altri. Lasciavo passare, sorridevo cordiale, ringraziavo. Facendo così, da un lato arginavo i sintomi dell’ansia, dall’altro provavo a guadagnarmi fin da subito l’ammissione al club dei genitori tristi.
Il gruppo si divise. L’infermiera mi aspettava accanto alla culla. Mio figlio aveva cambiato leggermente posizione, la pelle stava perdendo il rossore iniziale.
«Come sta?», chiesi.
«È stabile»
Un’altra cosa che avrei imparato presto è che stabile vuol dire fermo e non migliore, ma in quel momento mi parve una buona notizia. Senza aggiungere altro, l’infermiera aprì gli sportelli laterali dell’incubatrice.
«Toccalo, metti le mani dentro»
Pietrificato, feci di no con la testa. L’infermiera rispose con un largo sorriso e mi mostrò cosa fare. La pelle del bambino era ancora molto sottile, mi spiegò, non dovevo accarezzarlo ma solo appoggiare le mani su di lui.
«Guarda, come una coperta».
Infilai le mani nell’incubatrice. Provai inutilmente a non spostare fili e sensori. Mio figlio era caldo, fragile. Avevo paura di non essere abbastanza delicato, di fargli del male. Era densa la paura, una sostanza solida che mi riempiva lo stomaco. Passò qualche minuto prima che mi rendessi conto di quanto mi somigliava. Aveva la mia bocca, e anche il taglio degli occhi era il mio. Stesso naso a patata, stessi piedi. Mi venne da ridere pensando a mia moglie, a tutte le previsioni che aveva fatto.
La madre di un altro bambino chiese all’infermiera di avvicinarsi. Non credo ci fosse alcun problema particolare, ma la donna mi parve comunque in preda al panico. Prima di allontanarsi, l’infermiera mi disse:
«Parlagli. Lui sa che sei qui»
Ho un ricordo distorto di quello che accadde − o forse io preferisco che sia distorto. Rimasto solo, mi sforzai di pensare. Mi schiarii la gola e gli dissi che lì c’era papà, che non doveva avere paura perché i medici e le infermiere erano bravissimi, che la mamma non vedeva l’ora di conoscerlo e che presto ce ne saremmo andati tutti a casa. Lui forse fece un sospiro, come di sollievo, una breve interferenza alla respirazione imposta dalle macchine. Gli promisi che sarei stato un padre decente e che almeno avrei provato ad esserci sempre. Non ricordo altro. Ogni attimo inciampava, e nel cadere si frantumava. Io scivolavo senza opporre resistenza nell’attimo successivo, che a sua volta inciampava e si frantumava, e così l’attimo seguente e quello dopo ancora.
Riemersi un’ora dopo, quando l’infermiera mi avvertì che l’orario di visita era finito. Dovevo uscire. Potevo tornare nel pomeriggio, disse, dopo pranzo. Salutai mio figlio con un cenno della mano e mi incamminai verso l’uscita.
Fuori, nel corridoio, passò di corsa un ragazzino. Faceva volare un aeroplanino di carta. Lo raccoglieva e lo lanciava di nuovo in aria. Riconobbi lo stesso che al mattino mi era venuto addosso. Abbassai gli occhi. Una macchia scura e secca spiccava ancora sulla punta bianca delle scarpe. Il ragazzino scomparve in una camera e uscì poco dopo aggrappato alla vestaglia di sua madre. La donna teneva in braccio una bambina appena nata.
Entrai in camera. I parenti erano andati via. Mia moglie dormiva. Teneva le mani intrecciate sul grembo, come se nostro figlio fosse ancora lì. Guardai a lungo le macchie di sangue secco e disinfettante sulla vestaglia. Mangiai un confetto. Mi sedetti su una sedia accanto al letto e cercai di non far rumore per lasciarla riposare. Non è colpa di nessuno, pensai, prima di poggiare la testa alla parete, sfinito.