Una normalissima domenica in famiglia

Quando ce lo chiedono, rispondiamo che nostro padre lavorava coi tubi e sapeva stringerci forte e non aggiungiamo altro.
Aveva le mani grandi che riuscivano a tenere due mele per ognuna e a noi piaceva tanto quel trucco che cercavamo di farlo: le mele ci cadevano dalle mani e nostro padre diceva «Cazzo, sempre a sprecare cibo!» Anche se poi le mele si potevano lavare. Portava le unghie lunghe e, ogni volta che mangiava, i pezzi di cibo gli s’incastravano sotto e lui se le puliva infilandoci gli angoli della tovaglia e passandoli avanti e indietro, mentre mamma gli faceva il caffè. Di piede aveva quasi cinquanta e portava o le scarpe, due grossi anfibi neri, o stava scalzo; mamma diceva che pantofole così grandi non ne facevano mica e noi ci immaginavamo due enormi ciabatte morbide e azzurre, grandi quasi quanto i divani, dove potevamo nasconderci quando lui non ci metteva i piedi dentro: sarebbero state due piccole caverne e, se un giorno ci fossimo addormentati lì, nostro padre avrebbe infilato i piedi e noi ci saremmo aggrappati alle sue dita tozze, abbracciando i grossi alluci.
Nostro padre l’abbiamo sempre guardato da giù verso su e il suo viso lo conoscevamo solo così: quando stava seduto sembrava che avesse un’altra faccia, tutta nuova, che per noi non era la sua. Dal basso potevamo vedere i suoi peli nel naso che vibravano come violini quando era arrabbiato. Apriva le narici che raddoppiavano la loro circonferenza, spalancava gli occhi neri come quelli delle bestie e gridava «Cazzooo» o perché mamma non aveva ancora stirato la giacca che gli serviva, o perché avevamo lasciato qualche gioco in giro, o perché si era svegliato così che doveva urlare e a noi ci veniva da ridere perché ci sembrava uno di quei gorilla che facevano vedere nei documentari. I peli vibravano forte anche quando rideva, ma era per cose che a noi non facevano ridere, tipo quando alla tv facevano vedere i cavalli che cadevano alle corse e poi dovevano ucciderli perché si erano rotti le gambe.
La notte l’eco del suo russare riempiva i nostri sogni che erano sempre rumorosi e prepotenti, ce li sentivamo venire addosso come onde anomale: e un giorno sognavamo di essere inseguiti dai cani, un altro che c’investivano, un altro che c’era il terremoto e ballava tutto e non riuscivamo a stare in piedi e nemmeno distesi nel letto. Mamma non dormiva mica, erano trent’anni che non dormiva, diceva. Ma appena si allontanava dal letto, mio padre s’aggrappava alla sua camicia da notte con le sue zampe e la tirava a sé, come facevamo noi quand’eravamo piccoli.
E allora, siccome sapeva di non dormire, la mamma si dilungava nelle storie della buonanotte che spesso erano molto articolate e avevano dei finali confusi che comunque noi apprezzavamo perché mitigavano gli incubi notturni. La nostra storia preferita era quella del loro matrimonio ed era quella che cambiava più spesso perché c’era sempre qualche particolare che sfuggiva e s’ingrandiva e si trasformava in una versione tutta nuova, che poi disegnavamo e aggiungevamo all’album Matrimonio di mamma e papà.
Nostro padre non ha mai visto quei disegni, avrebbe detto «Sono scemenze, cazzo» perché i baci non li sopportava e a noi piacciono tanto, invece. A lui piaceva afferrare, stringere, strizzare con le mani la nostra pelle e quella di mamma. Ci lasciava lividi dappertutto che sono tipo i tatuaggi, ma poi vanno via e non sono della forma che noi vogliamo, anche se ogni tanto ci piaceva indovinare le forme e farci le storie. Facevamo a gara a chi ne aveva di più: rimanevamo estasiati e pieni d’affetto quando nostro padre ci tirava la pelle e ci sculacciava. Dopo, durante il castigo, ci contavamo i lividi e chi ne aveva di più era il cocco di papà e poteva portargli la colazione a letto, pulirgli le scarpe, dargli il giornale mentre era in bagno a fare la grossa. Mamma aveva più segni di noi ed era normale: su di lei i lividi erano come fiori colorati. Nostro padre la stringeva forte nei momenti in cui credeva che non stessimo guardando e noi avevamo paura che l’avrebbe assorbita nel suo corpo e che avremmo dovuto vivere soli con lui.
Nostro padre ci portava pezzi di tubi dal suo lavoro che non capivamo quale fosse, però era divertente. «Non si butta via un cazzo» diceva. E noi con quei tubi ci facevamo bambole, robot, dinosauri e nostro padre era tutto un orgoglio alle cene a casa coi colleghi, quando li mostravamo. «Sono dei geni cazzo» diceva. E anche mamma era contenta e diceva «Sì, è vero.»
In quei momenti ci sentivamo che avremmo potuto fare qualsiasi cosa e infatti ci capitava spesso di sbagliare e di prenderle di nuovo. Tipo quella volta che abbiamo messo le nostre creazioni nel letto di mamma e papà e abbiamo sentito nostro padre che urlava «Cazzooo, sono dappertutto!» O come quella volta che siamo andati nel letto ad abbracciarlo, una volta che ci aveva vantato tutta la sera e ci aveva fatto leggere le nostre pagelle, e lui era diventato tipo viola e aveva parlato schizzando saliva, con i peli che tremavano più del solito «Ma cosa cazzo state facendo?» E noi eravamo corsi via ridendo perché era buffo, tutto ingolfato nel pigiama e così arrabbiato da strozzarsi, e lui non ci aveva seguiti, ma il giorno dopo non ci aveva fatto pranzare e ci aveva sculacciato coi tubi.
La domenica era sempre un giorno di festa. Nostro padre voleva che ci facessimo il bagno e che mettessimo i nostri vestiti migliori, anche se non andavamo in chiesa o da qualche altra parte. Ordinava alla mamma cosa mangiare e poi usciva, a comprare le sigarette diceva ridendo, ma mica lui fumava. Tornava quando il pranzo era quasi pronto e portava pasticcini e caramelle e un mazzo di fiori per mamma, che però non veniva messo nel vaso e rimaneva davanti alla finestra e si aggrinziva e faceva un odore di dolce e di marcio.
Nostro padre sembrava felice la domenica e ci dava delle pacche forti sulla schiena, come se ci volesse far sputar qualcosa, ma la mamma non era tanto allegra e vedevamo che a tavola cercava di non guardarlo mai in faccia, mentre lui rideva e le diceva che era bella. Dopo, quando stavano loro due in cucina, le strizzava il sedere e le tette e cercava di baciarla. Una domenica la mamma si era messa a urlare e lui le aveva tappato la bocca e le aveva detto «Cazzo, stai zitta» e le aveva sollevato la gonna. Ma non era la prima volta. Il resto della giornata lo passavamo come se fossimo nell’acqua ferma di una piscina senza pensare a niente, che per noi era meglio. La domenica era dolce come i pasticcini e amara come uno sciroppo: il sabato ci sentivamo inquieti e pregavamo di avere solo la parte dolce, che quella amara ci faceva contorcere la notte come se avessimo mangiato il veleno per topi che stava sotto la credenza.
Quella domenica, se ce lo chiedono lo raccontiamo così, nostro padre ci portò un gatto. Era piccolo e nero e anche un po’ bianco e aveva gli occhi come la piscina comunale. Non ci credevamo mica che potessimo tenere un gatto ed eravamo così felici che ci tremavano le mani e avevamo paura di prenderlo, così l’abbiamo lasciato girare per la casa. Anche la mamma era felice e siamo rimasti un po’ a tavola a mangiare le patate al forno, un po’ appresso al gatto, che non doveva combinare guai.
Dopo pranzo nostro padre ha alzato la voce in cucina, ma non sappiamo perché. Ci siamo trovati a cercare il gatto e siamo capitati lì. «Cazzo» diceva, «Cazzo, cazzo, cazzo» e la mamma piangeva un po’, senza fare rumore. Il gatto è salito sulla sedia e poi sul tavolo e lui l’ha guardato, ci ha guardati, e l’ha afferrato nella sua mano. Era tutto rosso e sudato e stringeva la mano e le nocche diventavano bianche «Non vi dovete impicciare cazzo, quante volte ve lo devo dire?» Mentre il gatto miagolava forte e lo sentivamo morire tra quella mano grande da cui sporgeva il mantello nero e un po’ bianco. Ha lasciato la presa troppo tardi e noi siamo scappati via e la mamma anche e lui è rimasto con una cosa morta in mano e siamo quasi sicuri di averlo sentito piangere.
L’abbiamo sentito salire per le scale, ma deve essere stato male tipo all’ultimo gradino, perché subito dopo c’è stato un rumore come quello delle bombe. Era per terra, disteso a pancia in giù e diceva parole a mezza bocca che mica sentivamo. Ma non ci volevamo avvicinare, ci faceva paura. Abbiamo sentito solo «Cazzo, mettetemi bene che sto per morire» ma non ci siamo mossi e ci siamo messi a ridere perché eravamo disperati. Mamma, che era uscita, ci ha trovati così e si è disperata anche lei e ha avuto per un attimo paura di noi. I medici l’hanno trasportato nel letto e mamma si è coricata con lui e per la prima volta ha dormito. Noi abbiamo portato a nostro padre i giochi fatti da noi coi tubi e glieli abbiamo messi tutt’intorno e lui non ha detto niente e abbiamo anche potuto abbracciarlo. È morto la settimana dopo, il primo giorno di pioggia dopo l’estate. Mamma pianse e noi no, solo ogni tanto perché ci sentivamo obbligati. Abbiamo passato una normalissima domenica in famiglia e abbiamo fatto tutto quello che non potevamo fare quando c’era nostro padre, anche la mamma è sembrata allegra: abbiamo cercato di prendere le mele con due mani, abbiamo guardato le corse dei cavalli e ci siamo intristiti quando sono caduti; abbiamo abbracciato il corpo di nostro padre ancora e ancora, la sua mano che non afferrava più non ci ha lasciato segni. Ci siamo infilati i suoi abiti, le sue scarpe e mamma si è messa a ridere forte con le lacrime e la bocca all’ingiù. Abbiamo preso un gattino e ci abbiamo giocato per tutto il giorno, senza paura di prenderlo; abbiamo mangiato e sprecato cibo e poi, con le pance gonfie, ci siamo messi a letto e abbiamo aspettato la storia della mamma. Ma lei non è venuta da noi. Il giorno dopo ci siamo annoiati a morte e le abbiamo chiesto «Quand’è che torna papà? Non lo facciamo più.»