[Anticamera della morte, nascita: sesto e ultimo capitolo. Leggi gli altri]
Nel giro di qualche giorno, finirono di tagliare la legna e di portarla al coperto. Impilarono i pezzi in ordine di grandezza. Non ci sarebbe stato da preoccuparsi per la stufa per almeno tre o quattro mesi. Le temperature si abbassarono ancora. Chiara provò a convincere Rosa a portare dentro il cane, almeno la notte, ma non ci fu verso di convincerla. Allora costruì con delle assi di compensato una sorta di cuccia rudimentale in cui il cane entrava a malapena. La ricoprì con teli di plastica e la foderò con vecchi stracci. Rosa non approvava quell’operazione, scuoteva la testa vedendola armeggiare con chiodi e martello, ma lasciava fare. Chiara posizionò la cuccia vicino al muro della casa, nella zona che le parve più riparata. Il cane si divertiva a entrare e uscire senza una logica, lei sperò che gli scossoni provocati dai suoi movimenti non distruggessero subito la costruzione.
Una mattina si svegliarono e la neve ricopriva i campi. Un insolito chiarore si diffondeva dalla terra al cielo e dal cielo alla terra, come se tutto avesse raggiunto una sorta di pace.
Chiara faticò a legare il cane, che si dibatteva e voleva correre nei mucchi di neve, agitando la coda, abbaiando, preso dall’euforia.
Rosa, con una pala, cercò di liberare il vialetto dalla neve ma presto dovette lasciare il lavoro alla nipote. Chiara vide il vicino spalare con ritmo e energia. Il figlio non c’era e nemmeno la sua macchina, doveva essersene andato. Il ricordo del loro incontro la turbava, ogni sera aveva preso a controllare due volte che il portone fosse chiuso con il catenaccio prima di andare a dormire. Quando ebbe finito di sgombrare il viale dagli strati di neve caduti durante la notte, slegò il cane. Era arrivato il momento di portarlo fuori per la solita passeggiata. I fiocchi continuavano a cadere, ma radi e leggeri, impalpabili. Si avviarono verso l’argine, avevano ormai ripreso a fare il solito percorso. Nel campo affiancato dal canale, il cane si scatenò. Iniziò a mordere la neve e ad abbaiare. Correva, saltava bagnandosi tutto, poi tornava da Chiara guardandola come in attesa di una ricompensa. Gli accarezzò la testa e il muso, pensando a quante notti avrebbe dovuto ancora passare al freddo prima della fine dell’inverno.
L’argine era impraticabile per via della neve. Il sentiero che conduceva alla sua sommità sembrava cancellato per sempre e, nonostante gli stivali di plastica, Chiara preferì tornare indietro. Prima di voltarsi per andare verso via Matteotti, vide una figura camminare nel campo, in lontananza. Sembrava una donna, ma era impossibile stabilirlo con certezza a causa della distanza. Richiamò il cane che, dopo aver compiuto gli ultimi tuffi nella neve, si decise a farsi legare il collare al guinzaglio.
La schiena massiccia, straordinariamente larga, della figura che camminava in mezzo al campo proseguì ondeggiando per qualche centinaio di metri fino a raggiungere una casupola isolata.
L’abitazione poteva apparire disabitata da quanto era malridotta. Gli infissi di legno sembravano doversi sgretolare da un momento all’altro e la porticina era piena di scrostature. Dal muro, intaccato da aloni e muffe, era ormai scomparsa ogni traccia di intonaco. Un caminetto instabile buttava fuori sbuffi di fumo nero.
L’Aldina infilò la chiave nel lucchetto del catenaccio che teneva chiusa la porta. Il suo respiro era rantolante, rumoroso. I capelli sudati le si erano attaccati alla fronte bagnata e i suoi occhi erano dilatati dallo sforzo.
Entrò. L’ambiente era immerso in un fetore immondo ma lei non ci faceva caso, o forse non lo sentiva nemmeno. Come in una grotta, i muri erano anneriti dal fumo e il soffitto incombeva basso e irregolare. Non c’era luce elettrica, l’unico chiarore proveniva da una finestrella coperta da un vetro opaco per la sporcizia.
Era difficile vedere in quell’oscurità ma pian piano si potevano mettere a fuoco un letto e un materasso buttato per terra. L’Aldina sollevò una specie di grosso fagotto. Si sentì mugolare. Da un involucro di coperte e corde sbucava il viso terrorizzato di una bambina di sei anni.
L’Aldina si sedette sul materasso, sbottonandosi il cappotto. Si scoprì il seno, due mammelle piatte e larghe, e lo schiacciò a forza contro la bocca della piccola, come per allattarla. Lei provò a dimenarsi e a mugolare, ma la donna le prese la testa e la spinse contro il capezzolo con violenza. La bambina ammutolì, aspettando il momento in cui la donna avrebbe allentato la presa per ricominciare a respirare. Tutto attorno, sul pavimento, c’erano bambole, per lo più smembrate, senza testa, senza occhi, senza gambe.
Rimasero così, per diversi minuti, finché la donna non si staccò la bambina dal seno. Allora si abbottonò il vestito e iniziò a abbracciarla, premendole la bocca sulla testa, mentre lei piagnucolava. Cantava una nenia, per calmarla, ma ciò che usciva dalle sue labbra dischiuse assomigliava di più al lamento di un animale.
Sul pavimento della casupola, in mezzo alle bambole, c’era sangue rappreso, coltelli, posate.
Erano ormai su via Matteotti quando il cane iniziò a tirare il guinzaglio. Chiara provò a calmarlo ma l’animale inaspettatamente le morse una mano. Lo slegò, spaventata, e rimase a guardare la ferita, ricordando l’unica altra volta in cui era successa una cosa simile, più di un mese prima.
Lo cercò con lo sguardo e poté vederlo a malapena, mentre scompariva correndo nel campo affossato dalla neve.
Ripensò a quel periodo, alla mattina in cui aveva trovato il corpo, alla casa delle bambole, al fatto che non aveva parlato mai con nessuno di ciò che vi aveva visto dentro. Poi pensò alla bambina, quella scomparsa da giorni sempre in quelle zone, di cui ancora non si sapeva niente. Guidata dall’istinto, prese il telefono e chiamò il numero di emergenza. Fece fatica a rispondere alle domande sul dove si trovasse e perché avesse telefonato. Mentì. Disse che le era sembrato di vedere la bambina, di averla riconosciuta dalle fotografie che circolavano in televisione. Quindi buttò giù e si mise a correre per inseguire il cane.
Lo raggiunse davanti a una casupola che sembrava affogare nella neve. Avrebbe pensato che non ci fosse nessuno dentro, da anni, se non fosse stato per il fumo che usciva da un piccolo caminetto. Il cane abbaiava, con insistenza, contro di lei e contro la casa mentre tutto intorno la neve attutiva i rumori.
Chiara aveva la bocca arsa, rimase immobile, in piedi, per un tempo che le sembrò infinito, senza sapere cosa fare. Perché si era fidata del cane, perché lo aveva seguito? Probabilmente tutto quello che stava avvenendo non aveva alcun senso.
Infine, sentì le sirene e un rumore di macchine in avvicinamento e il tempo riprese a scorrere. Il cane, testardo e sovraeccitato, continuava a abbaiare.
Questa volta la serie di domande fu molto più lunga. Uno degli uomini non nascose il suo stupore nel trovarsi davanti per la seconda volta proprio Chiara e sempre a proposito di quella storia. Le fecero domande private, se avesse un ragazzo, dei figli, quali fossero i suoi passatempi e perché una giovane donna della sua età trascorresse tutto il suo tempo libero in un posto del genere, dove non c’era nulla, nulla di interessante, nulla da fare.
La guardavano, doveva sembrare proprio strana. E non meno strano doveva apparire il cane, non abituato ad avere attorno tutta quella gente e quindi aggressivo e sovraeccitato al contempo. Tuttavia la bambina era viva e, in una maniera più o meno fortuita e indiretta, lo era grazie a loro. Questa consapevolezza le fece quasi venire le vertigini, mai nella vita si era sentita così. Le sembrava una cosa troppo grande per lei.
Infine, Chiara e il cane ripresero la via di casa. Questa volta non attraversando il campo innevato, che li aveva bagnati da capo a piedi, ma percorrendo la strada più lunga che dall’argine li riportava su via Matteotti per poi tornare verso la casa a due piani dove Rosa viveva da sempre e sempre sarebbe rimasta. Era ormai sera e il freddo si faceva più pungente, facendole lacrimare gli occhi. Nessuno, a parte loro, avrebbe osato percorrere a piedi quelle strade in una notte del genere. Ma loro ci erano abituati, erano tutt’uno con quella sterminata pianura, quei campi, le ombre delle case sparse che emergevano di profilo dall’oscurità, illuminate dai lampioncini delle aie, come fantasmi.
Accelerò il passo e chiamò il cane, che venisse più vicino a lei senza perdersi a cercare carcasse sul bordo della strada.
Rosa, già da tempo, li aspettava per cena.