Il mare d’inverno

«Questa è la mia canzone preferita», mento.
E ho appena mentito di nuovo, perché quello che ho detto davvero è: «This is my favourite song», riferendomi alle prime note de Il mare d’inverno che riempiono questa macchina in affitto. La mia canzone preferita è un’altra, distante migliaia di chilometri e qualche decennio dall’Italia degli anni ‘80. Eppure adesso, mentre guidiamo verso un mare che non è il mio, parlando una lingua che non è la mia, prendere in prestito una canzone che non è davvero la mia preferita mi sembra il minore dei tradimenti.

Ho chiesto a Nathaniel di portarmi al mare perché sono sei mesi che non torno a casa. A casa casa, intendo, una precisazione che ho imparato a fare per risparmiare al mio ragazzo la confusione di dover capire se mi riferisco al nostro appartamento a Londra, o all’isola del Sud Italia in cui sono cresciuta. So di ferirlo lievemente ogni volta che riservo quella ripetizione di ‘casa’ a un posto in cui non vivo più da anni e che non gli appartiene come il nostro appartamento, ma so anche che questo sdoppiamento per Nathaniel non esiste.
Quando non hai bisogno dei nomi delle strade per navigare una città, ma i tuoi punti di riferimento geografici sono la tua scuola elementare, la casa della ragazza per cui avevi una cotta a tredici anni, il pub in cui hai iniziato a lavorare a sedici, casa è singolare. Una volta l’ho sentito parlare al telefono con suo padre, e descrivere un nuovo supermercato che ha aperto «oltre i giardinetti, hai presente quelli vicino al campo da calcio? Ecco, lì dietro». Mi ha sconcertata la mondanità di quelle indicazioni, la consapevolezza che in quel momento suo padre, nell’immensità della città, potesse collocare con precisione suo figlio basandosi sui più banali punti di riferimento. Mia nonna ha dovuto imparare a usare Google Maps, ed esplorare virtualmente ogni strada londinese in cui io abbia abitato, per poter immaginare dove fossi.

Ci fermiamo a un semaforo. Nathaniel allunga un braccio e lascia la sua mano sinistra, quella sbagliata, riposare sulla mia gamba. Una nuvola grigia copre il sole.

Il mare d’inverno / è solo un film in bianco e nero visto alla TV

Mi chiede cosa significhi, traduco come posso. All’inizio me la cavo abbastanza bene, sono tutte immagini rendibili in inglese: a black and white film, wet sand, a letter carried away by the wind. Nel frattempo il semaforo diventa verde, ripartiamo. Nathaniel sorride per la serietà con cui sto prendendo la sua domanda, io mi ricordo che in uno dei versi successivi c’è la parola ‘parabola’ e tiro fuori il telefono per consultare il mio traduttore più fidato. ‘Parabola’, nel senso geometrico, rimane parabola in inglese; nel senso biblico, diventa parable.

Stanche parabole di vecchi gabbiani

C’è una decisione artistica da prendere – buttarsi sul metaforico, e attribuire ai gabbiani la capacità di raccontare storie come vecchi marinai, o disegnare una traiettoria grafica, concreta? Scelgo la seconda: old seagulls’ tired parabolas.
«Do you mean parables?»

No. Intendo parabolas. Anzi, ‘pa-ra-bo-le’, in italiano, senza quella storpiatura nel plurale.

Negli ultimi anni, il mio rapporto con la mia lingua è stato spesso conflittuale, e in continua evoluzione. Appena arrivata, ho imparato in fretta a perfezionare il mio accento inglese al punto da camuffare la mia nazionalità. Per farmi capire meglio, ho inglesizzato il mio nome e pronunciato volutamente male le parole italiane di cui l’inglese si è impossessato. E mi sono scoperta persa. Non ho mai capito il patriottismo, tantomeno l’ho mai provato per un Paese da cui sono fuggita appena ho potuto, ma nella solitudine di Londra mi sono finalmente arresa a un bisogno di appartenenza al quale pensavo di essere immune.
Ho iniziato così a riappropriarmi della mia lingua: ho lasciato che la mia pronuncia inglese si tingesse di sfumature dal sapore più naturale; ho iniziato a scandire bene il mio nome, marcando le R e le doppie; sono diventata una snob linguistica e culinaria, e ho dichiarato guerra a chiunque utilizzasse l’agghiacciante espressione ‘spag bol’ al posto di ‘Spaghetti alla Bolognese’; soprattutto, ho scoperto la musica italiana, in un tentativo di rinsaldare i rapporti se non con un paese che ho abbandonato, almeno con la sua cultura pop. È stato quello il periodo in cui ho deciso di far diventare Il mare d’inverno la mia canzone preferita. È un’appropriazione che sa di farsa, ma mi serviva un’identità, ed eccola lì, l’approssimazione musicale più vicina alla realtà.

E io che non riesco nemmeno
A parlare con me

Inizio a vedere la spiaggia. Non è inverno, ma almeno ha iniziato a piovere.

Mare, mare, qui non viene mai nessuno
a trascinarci via

Smetto di tradurre. Che senso ha condividere una canzone sulla solitudine?

Mare, mare, qui non viene mai nessuno
a farci compagnia

«Hey, why did you stop?»

Mare, mare, non ti posso guardare così, perché…

Ho smesso per non rovinare la perfezione del prossimo verso:

… questo vento agita anche me

Mi volto verso Nathaniel, e ripeto, in unisono con la Berté, «questo vento agita anche me». So che non esiste un modo esatto di tradurre la poesia di quell’agita, come non esiste un modo di far capire a chi è nato in città quel rapporto implicito, simbiotico, col mare, e allora glielo canto in faccia, come quella volta in cui ho comprato una piantina di basilico, gliel’ho piazzata sotto al naso e gli ho detto «Senti? Questo è il profumo di casa mia».

Non mi accorgo neanche che nel frattempo abbiamo parcheggiato. Faccio per spegnere la musica e scendere, ma Nathaniel mi ferma. Rimaniamo in silenzio ad ascoltare il resto della canzone. Lo guardo mentre cerca di dare un’interpretazione ai suoni che ho smesso di tradurre. Lo guardo, e al contrario i suoni per me iniziano a perdere ogni significato, a mescolarsi con le gocce d’acqua che tamburellano, sempre più forte, sul parabrezza. L’odore di pioggia si confonde con quello del mare, mentre le voci dei bagnanti che cercano riparo, distorte dal vento, perdono ogni idioma riconoscibile. Potremmo essere ovunque. E invece siamo qui, in un luogo in cui la mia lingua perde il suo significato per me e ne acquisisce uno nuovo, che non mi appartiene, per lui.

La canzone finisce, Nathaniel mi guarda e dice, sorridendo incerto, ammorbidendo le consonanti, «questo vento agita anche me». Non so cosa voglia dire. Non importa. Potremmo essere a casa.