Well, I started out down a dirty road
Started out all alone
And the sun went down as I crossed the hill
And the town lit up, the world got still
I am learning to fly
But I ain’got wings
Coming down
Is the hardest thing
Learning to fly, Tom Petty and the Heartbreakers
L’orchidea comincia a fiorire. Me l’ha regalata la mia ragazza il giorno che mi ha lasciato. Ha steso le braccia verso di me e ha detto: «Questa è per te.» Ho preso il vaso con entrambe le mani e ho sentito le sue dita che si sfilavano. Avrei voluto trattenerla. Adesso, ogni volta che guardo l’orchidea, ho l’impressione che qualcosa mi sfugga.
Il cellulare nella mia tasca è squillato e ho risposto.
«Cosa stai facendo?», ha fatto Amanda. È mia amica dai tempi dell’asilo e, che io sappia, non ha mai imparato a salutare.
«Niente di che», le ho detto, mentre cominciavo a vaporizzare l’orchidea. Internet diceva di usare acqua piovana. Siccome non sapevo dove trovarla, ho preso quella minerale.
«Ti va di uscire?», mi ha chiesto Amanda dopo un attimo.
«Non particolarmente.»
«Vuoi passare le tue giornate a guardare una pianta?», ha sbottato lei. Forse aveva sentito lo spruzzino. È vecchio e ogni tanto devi proprio schiacciare forte.
«Non sto guardando la pianta», ho mentito.
«Allora usciamo.»
Quando vuole una cosa, Amanda non molla facilmente. Io invece, tendo ad abbattermi e a rinchiudermi in me stesso, come una lumaca nel guscio.
«Dove vorresti andare?», ho indagato.
«Portiamo Davide alle prove. Poi, dove vuoi tu.»
«O.K. Come va la preparazione?»
«Hmm. Ha gli incubi di dimenticarsi i passi e fa la pipì a letto. Altrimenti, bene.»
«Li avrei anche io al posto suo”, ho detto. Poi, sovrappensiero, ho aggiunto: «dovrei prendere del fertilizzante.»
«Stai scherzando?», ha fatto Amanda. Fosse stato per lei, l’orchidea avrei dovuto buttarla. Fare regali quando ci si lascia, aveva detto, dovrebbe essere illegale.
Sono rimasto zitto.
«Come vuoi. Tra un quarto d’ora siamo lì», ha detto alla fine.
Ho chiuso la chiamata e ho preso un petalo tra il pollice e l’indice. Era spesso e un po’rugoso, non sottile come mi aspettavo. Ho continuato a spruzzare l’orchidea, finché tutti i fiori e le foglie si sono coperti di goccioline. Non ero mai sicuro se gliene davo abbastanza o troppo poca, e nemmeno se avesse importanza. Faceva sbocciare un fiore dopo l’altro, come se io, con le mie cure maldestre, neanche esistessi.
Quando sono sceso, Amanda e Davide mi aspettavano dall’altro lato della strada. Davide saltava su e giù dal marciapiede aggrappandosi alle mani di sua madre. Prendeva la rincorsa, staccava a gamba tesa e atterrava a piedi uniti. Ad ogni salto, Amanda, perfettamente sincronizzata, alzava il braccio con un gesto sicuro, come per accompagnarlo in volo. Erano così concentrati che di me non si sono accorti.
«Eccomi», ho detto.
Davide si è appoggiato al fianco di sua madre e ha nascosto la faccia dentro il suo maglione, scoprendole, sulla pancia, una striscia di pelle bianca. È uno di quei bambini che diventano timidi quando meno te lo aspetti, e non sai mai come prenderli.
«Saluta lo zio Giulio», ha fatto Amanda tirandosi giù il maglione.
«Ciao», ha detto lui a bassa voce, senza guardarmi.
«Ciao, Davide.»
«Sono il grillo parlante», si è affrettato a correggermi, questa volta con un po’ più di entusiasmo.
«Oh, O.K.», ho detto guardando Amanda, che ha annuito. «È per la recita», ha aggiunto, «Stiamo ripassando i salti.»
«Pensavo fosse un grillo che parla», ho buttato lì.
«È un musical», ha detto Amanda. «E il grillo ha sei anni. C’è un limite alle battute che può ricordarsi.»
«Faccio anche la ruota», ha precisato Davide e, rivolgendosi a me, ha aggiunto: «Tu sei guarito adesso?»
Ho guardato Amanda, che ha alzato le spalle.
«Quasi», ho risposto.
Davide è rimasto un attimo zitto, poi ha detto che voleva un gelato.
«Ottima idea», ho detto.
Mentre Davide sceglieva i gusti, Amanda e io ci siamo seduti ad un tavolino fuori. Non la vedevo da quasi tre mesi. Prima ero stato troppo preso da Nadia, poi ero stato troppo preso dalla fine della mia storia con Nadia. Adesso che eravamo uno accanto all’altra, mi sembrava pallida, dimagrita e vagamente triste. Ogni tanto si girava a guardare Davide che chiacchierava col gelataio.
«Va tutto bene con lui?», le ho chiesto quando si è voltata di nuovo verso di me.
«Più o meno. A volte mi chiede perché suo padre non può restare a dormire, o perché non possiamo avere una casa sola grande al posto di due piccole.»
«E tu?»
«Io? Dico qualcosa di stupido che mi fa sentire una pessima madre.»
«Questo non è vero.»
«E chi lo sa? Magari gli sto rovinando la vita e dovrà andare dallo psicologo finché campa.»
Stavo per replicare che andare dallo psicologo non era un’attività criminale, quando Davide ci ha raggiunti al tavolo reggendo tra le mani un cono gocciolante.
Dopo un attimo è arrivato anche il gelataio. «Volevo fargli assaggiare il gusto nuovo, ma non ha voluto», ha detto allargando le braccia.
«Non si preoccupi», gli ha risposto Amanda, «in questo periodo non gli piace cambiare.»
«Non è vero!», ha fatto Davide. «Questo è limone e fragola. Di solito prendo fragola e limone.»
«Oh», ha fatto Amanda. «Hai ragione. Mi ero dimenticata. Adesso mangia che si scioglie.»
«Qual è il gusto nuovo?», ho chiesto al gelataio.
«Caramello.»
L’ultima volta che ero uscito con Nadia, ci eravamo fermati a prendere un cono in due. Ho scelto melone e lei, dopo una serie di ripensamenti, aveva ripiegato sul cioccolato bianco. «‘sti due non ci azzeccano proprio», aveva detto passandomi il cono. «Se c’era il caramello, vedi che era la morte sua.»
Il gelataio si è schiarito la voce. «Vuole provarlo?», mi ha chiesto.
«No. La ringrazio. Sto bene così.»
Davide ha finito il gelato appena prima che arrivassimo a scuola. Amanda si è inginocchiata a pulirgli le mani con una salviettina e gli ha messo in spalla lo zainetto. «Le ali te le ho piegate a metà», gli ha detto. «Appena arrivi, le tiri fuori e le appendi, così non rimane il segno. Hai capito come si fa ad attaccarle?»
«No, ma di solito me le mette Tina», ha risposto Davide, con aria dubbiosa. «Speriamo che viene.»
«Speriamo che venga. O.K. Vai, adesso», ha fatto Amanda. Gli ha dato un bacio e Davide è corso verso la maestra.
Amanda si è tolta gli occhiali da sole per sistemarsi i capelli. Mi è sembrato che avesse gli occhi lucidi.
«Sono per il costume da grillo?», ho chiesto.
«Sì, non so perché hanno insistito per farle staccabili. Non ti dico che casino mettere il velcro sulla calzamaglia.» Si era rimessa gli occhiali, ed era difficile dire di che umore la mettessero le ali.
«Saranno più pratiche», ho finito per dire.
Siamo rimasti nel cortile finché tutti i bambini non sono entrati, sotto lo sguardo vigile della bidella che presidiava l’ingresso.
«Suo padre non viene nemmeno», ha fatto Amanda con lo sguardo fisso sul cancello chiuso
«Come?» ho detto.
«Il padre di Davide. È in viaggio e non viene alla recita.»
Stavo per dire qualcosa ma Amanda si è girata di scatto e ha attraversato il cortile. «Andiamo. Volevi il fertilizzante, no?»
Mi ero dimenticato di averlo detto, ma Amanda mi aveva preso sul serio. Da quando Nadia mi aveva lasciato, non l’avevo più sentita. Non rispondeva alle mie chiamate, e i miei messaggi WhatsApp non diventavano nemmeno blu. Mi aveva privato della sua attenzione in una maniera così istantanea e definitiva da rendere il suo distacco irreversibile.
«C’è un po’ da camminare», ho buttato lì. Amanda guardava il semaforo in attesa che diventasse verde.
«O.K.», ha risposto tranquilla, e ho capito che era troppo tardi per tirarsi indietro.
Avevo accompagnato Nadia al negozio una volta sola e mi aveva chiesto di aspettare fuori. La padrona, si era giustificata, non vedeva di buon occhio le visite.
Sulla porta, Amanda ha esitato e si è tirata un po’ indietro, ma le ho fatto cenno di entrare.
In piedi accanto al bancone c’era una signora rotondetta, che doveva essere la proprietaria. Aveva in mano un mazzo di rose e le stava accorciando. Procedeva inesorabilmente e un po’ a casaccio, come si aspettasse che fossero i gambi a dirle di smetterla.
«Posso aiutarvi, ragazzi?», ci ha detto senza smettere di tagliare.
Stavo guardando i pezzetti di gambo cadere sul pavimento e per un attimo non mi è venuto niente da dire.
«Fertilizzante ne avete?», ha fatto Amanda.
«Là sullo scaffale gioia, tutto quello che vuoi.»
Amanda mi ha stretto leggermente il braccio e si è allontanata.
«Nadia c’è oggi per caso?», ho chiesto.
La signora ha smesso di tagliare e mi ha guardato.
«Non lavora più qui.»
«Ah», ho detto. Aveva ricominciato a tagliare. Solo la prima domanda l’aveva presa alla sprovvista.
«Mi spiace», ha continuato, «se ne è andata due settimane fa. Senza neanche tanto preavviso, se devo dirla tutta.»
«Ah», ho ripetuto.
«Me lo aveva detto all’inizio, eh, che non stava troppo tempo. Però, gioia mia, da un giorno all’altro così, uno ci rimane male. Peccato, perché coi clienti ci sapeva fare.»
«Ha detto mica se c’era un motivo?»
«Ha preso un’orchidea e mi ha detto di scalargliela dalla busta paga. Ma se vuoi saperlo gliel’ho regalata. Le piaceva tanto. Ogni volta che qualcuno cercava di comprarla finiva per dargliene un’altra…»
Il pavimento era pieno di pezzetti di gambo. Mi è venuta voglia di raccoglierli tutti e provare a riattaccarli e mi è sembrato di non riuscire a respirare.
Amanda mi ha raggiunto fuori dal negozio e si è seduta accanto a me sul marciapiedi. Ai miei piedi ha appoggiato un sacchetto di carta.
«Questo ti può sempre servire.»
Ho sollevato il flacone di fertilizzante e l’ho rimesso a posto. «Come no», ho detto, «posso bermelo.»
«Mi spiace, Giulio.»
«Pensavo che andasse bene.»
«Lo pensavi sul serio?»
«No. Non so. A volte. Sembrava contenta.»
«Magari è così.»
Per un po’ nessuno dei due ha detto niente. Ce ne stavamo seduti a guardare le macchine che arrivano dal lato opposto. Ho cominciato a pensare che saremmo rimasti lì per sempre, quando Amanda ha detto: «Ce l’hai una foto?»
«Di Nadia?», le ho chiesto.
«No, dell’orchidea.»
Ho preso il telefono e ho cercato la foto che avevo scattato quando erano sbocciati i primi fiori.
Amanda l’ha guardata in silenzio. Ingrandiva e rimpiccioliva l’immagine col pollice e l’indice, cambiava l’inquadratura, come volesse essere sicura di osservarla nel modo giusto. «È proprio bella», ha detto alla fine, restituendomi il telefono. «Devi tenerla.»
«Lo sai che non ci so fare con le piante. A scuola mi morivano tutte.»
«Quelle erano le mie», ha fatto Amanda alzandosi in piedi e pulendosi i pantaloni con la mano. «Quando si seccavano, scambiavo i miei vasetti con i tuoi.»
Io e Amanda non ci sentivamo dal giorno del fiorista. Mi aveva scritto per sapere se stessi bene, ma non le avevo risposto. Il giorno dopo l’avevo richiamata, ma la sua segreteria mi aveva dato ai nervi: «Non sono disponibile. Se volete lasciate un messaggio ma non sempre li ascolto.»
L’orchidea, adesso, era in piena fioritura. Non c’era un gambo che fosse rimasto spoglio, e persino qualche radice aveva cominciato a farsi largo fuori dal vaso. Un giorno, mentre la innaffiavo, mi sono ricordato della recita. Se mi fossi sbrigato, forse avrei fatto in tempo. Mi sono cambiato e sono uscito.
Ho aperto la porta della sala e sono entrato, giusto in tempo per vedere due bambini sbucare da dietro le quinte e correre sul palco. Un coro di farfalle viola ha attaccato a cantare: “We don’t need no education, we don’t need no thought control”. Ho riconosciuto i Pink Floyd, e mi è venuto il dubbio di essere allo spettacolo sbagliato. I bambini hanno cominciato ad avanzare verso il pubblico tenendosi per mano. In sala si sono accese le luci. Le persone, illuminate da colori soffusi, sembravano accedere, istantaneamente, a una loro versione più brillante.
Mi sono guardato intorno in cerca di Amanda. Era seduta in una delle ultime file, il lato destro del suo corpo avvolto da un alone blu.
Mi sono avvicinato e le ho messo una mano sulla spalla, lasciando che la sua luce blu si impossessasse delle mie dita.
Amanda si è voltata e mi ha sorriso. Ha spinto un po’ indietro la sedia per farmi passare e, per un attimo, è tornata del suo colore naturale.
«Chi sono questi?», le ho chiesto sedendomi accanto a lei.
«Il gatto e la volpe. Vedi che hanno la coda.»
I due bambini adesso erano proprio sul davanti del palco. Oltre alla coda, avevano i baffi e dei cerchietti con le orecchie finte. Difficile dire chi fosse il gatto e chi la volpe.
«Non mi aspettavo una cosa così … avant garde», ho continuato.
«È una metafora», ha spiegato Amanda.
«Oh. Davide me lo sono perso?», ho chiesto.
«No. Esce adesso.»
«Grazie per l’altro giorno», ho aggiunto. Ogni volta che facevo per parlarle, Amanda chinava la testa verso di me. Era così vicina che mi sembrava di farle scivolare le parole direttamente nell’orecchio.
Una signora anziana della fila davanti si è voltata e ci ha guardato con disapprovazione.
Amanda ha allontanato il viso dal mio e ha sorriso portandosi l’indice alle labbra.
«Che strazio. È la nonna, mi sa», mi ha sussurrato.
«Del gatto? O della volpe?», le ho chiesto.
Amanda ha scrollato le spalle. «Boh. Aspetta. Mi sa che sono gemelli.»
La canzone arrivava alla fine. Il gatto e la volpe, perfettamente sincronizzati, si sono inchinati al pubblico, hanno tirato su la coda per non inciamparci e sono corsi dietro le quinte.
Davide è entrato in scena con una serie di ruote. La prima gli è venuta un po’ storta, ma la seconda e la terza le ha centrate in pieno.
«Non sapevo fosse così bravo», ho detto ad Amanda.
Le farfalle viola hanno attaccato di nuovo: “Well, some say life will beat you down, break your heart, steal your crown.” Tom Petty and the Heartbreakers.
Al ritornello, Davide ha preso la rincorsa e ha cominciato a saltare, percorrendo il palco a cerchi concentrici. “I am learning to fly, but I ain’got wings, coming down is the hardest thing”, cantava il coro.
Una delle farfalle si è staccata dal gruppo e ha raggiunto il grillo al centro del palco. Aveva in mano qualcosa di largo e trasparente.
«Oddio», ha fatto Amanda posando la sua mano sulla mia, «le ali! Se le è dimenticate?»
La farfalla solista ha appoggiato le ali sulla schiena del grillo, prima una e poi l’altra, poi gli si è messa accanto e tutti e due hanno cominciato a piroettare intorno al palco. Ad ogni giro, le ali si aprivano e si chiudevano. “I am learning to fly, around the clouds”, cantava il coro, “what goes up, must come down.”
«No», ho detto piano ad Amanda. «Penso sia una metafora.»
Il sipario è calato e ho sentito le sue dita intrecciarsi alle mie.