[Anticamera della morte, nascita: quinto capitolo. Leggi gli altri]
Quando arrivò in via Matteotti, Rosa aveva già preparato la cena. La salutò mettendole una mano sulla testa, come faceva sempre. A Chiara quel gesto piaceva, era inusuale e le ricordava l’infanzia.
Mentre mangiavano, Rosa disse che il giorno dopo avrebbero iniziato a tagliare la legna. Il furgone aveva scaricato in cortile rami molto grossi. Li avrebbero rimpiccioliti e poi portati dentro, nello stanzino che fungeva da ripostiglio, per impilarli.
Non fecero parola di ciò che era avvenuto più di un mese prima. Chiara si chiese se ultimamente Rosa avesse guardato i notiziari. Recentemente, infatti, in quelle zone era successo dell’altro. Una bambina era scomparsa. Si chiamava Amelia e aveva sei anni, capelli biondi fino alle spalle e occhi neri. Da quello che Chiara aveva avuto modo di capire, seguendo gli aggiornamenti sul caso, nulla era ancora stato scoperto né sulla scomparsa della bambina né su ciò che era accaduto all’inizio di novembre, quando tutto era cominciato.
Più volte, nel corso delle settimane in città, era stata assalita dal pensiero che avrebbe dovuto denunciare ciò che aveva visto nella casa abbandonata. I pezzi di bambole, il fetore. Avrebbe forse dovuto comunicare a qualcuno il sospetto che il bambino, la casa, le bambole, la maglietta trovata nel canale fossero collegati. E adesso forse anche la scomparsa della piccola Amelia. Ma non lo aveva fatto.
Ora era di nuovo lì, nella Bassa. Era tornata, e già i giorni lavorativi trascorsi in città perdevano consistenza nella sua mente come se fossero stati solo una fastidiosa parentesi.
Sarebbe rimasta più a lungo, questa volta. Aveva chiesto le ferie per tutta la settimana che precedeva il Natale. Viste le recenti gelate, il suo aiuto a Rosa sarebbe stato più importante del solito, ma soprattutto, ad essere sincera, era lei stessa ad avere bisogno di stare lì per un po’ di tempo. Era come se in qualche modo si sentisse responsabile o quanto meno profondamente coinvolta nel fatto che era accaduto più di un mese prima e che ancora non le dava pace.
Dopo mangiato, bagnò del pane secco con il brodo avanzato e lo portò al cane, che aprì gli occhi lentamente, risvegliandosi da un sonno indotto dal freddo e dal buio.
Al piano di sopra, ritrovò la camera fredda e spoglia come l’aveva lasciata, la ruvida coperta di lana fatta con scampoli di colori diversi fungeva da scudo sopra le lenzuola. Ci si infilò sotto velocemente e rimase a guardare le travi di legno sul soffitto finché il sonno non la trascinò via con sé.
La mattina dopo, l’alba illuminava i ceppi buttati sulla ghiaia con un incerto chiarore. Si infilò i guanti. Rosa armeggiava dietro di lei, sollevando i pezzi di legna più piccoli. Prese la sega. Era lunga, robusta. Iniziò a tagliare, avanti e indietro, con ritmo regolare, spostandosi di tanto in tanto con il dorso della mano i capelli che le ricadevano sulla fronte.
In un paio di ore, riempirono quattro carriole e le portarono dentro. Quindi Rosa le fece segno di smettere. Erano stanche, tutte e due.
Dopo pranzo, slegò il cane. Aveva defecato nel cortile, in due punti. Risvegliando l’energia repressa, si scagliò verso il campo, noncurante dei sassi e delle buche. Chiara rimase a guardarlo e lo lasciò sfogare, finché il rumore di un motore non la fece voltare. L’uomo, il figlio del vicino, scese dalla sua berlina grigia trasportando due grosse buste della spesa. Non si voltò a guardarla nemmeno per un istante, ma girò la chiave nella toppa e sgusciò in casa veloce come un topo. Più volte si erano incrociati in situazioni simili nel corso delle settimane, ma l’uomo non le aveva più rivolto nemmeno un’occhiata.
Il cane tornò con una lucertola morta fra i denti e a Chiara ci volle un bel po’ per convincerlo a sputarla.
Si diressero verso l’argine, per la prima volta dopo tanto tempo. Voleva salire su quello che era il punto più alto nel raggio di chilometri, sebbene si trattasse di una differenza di pochi metri rispetto al livello del suolo. Gli stivali di plastica facevano il solito monotono rumore percorrendo la sterrata. Passarono vicino alla casa arancione, dove lo avevano trovato. Chiara non poté non guardare le fessure tra le assi inchiodate sulle finestre, il ricordo di quel giorno le fece battere il cuore. Poi pensò all’annuncio trasmesso in televisione, rivide la fotografia di Amelia intenta a porgere a chi le stava di fronte una biglia azzurra di vetro. Un’altra vittima.
Il cane correva avanti e poi tornava indietro per aspettarla. Sembrava non avere ricordi del giorno in cui, diverse settimane prima, era stato lì con lei. I rumori e gli odori del presente dominavano il suo orizzonte.
Salirono. Dall’alto dell’argine si vedeva tutto il paesaggio circostante. Le case sparse, i campi piatti e sterili come ventri infantili. Sperava che quella posizione le consentisse di vedere di più. E in effetti la totale assenza di rilievi e la scarsità di alberi permetteva di far correre lo sguardo su chilometri di campagna. Un trattore si muoveva come un insetto, ronzando flebilmente, in un campo, mentre un furgoncino percorreva lentamente la strada principale. Qualcuno, un uomo reso grigio dalla distanza, uscì da una casa, gridò, si chinò verso la terra.
Un profondo senso di morte ricopriva ogni cosa come un velo, smorzando il respiro dei viventi, offuscando la vista con le esalazioni di una nebbia sempiterna.
L’argine proseguiva per chilometri. Camminarono a lungo, con il fango che imbrattava le zampe del cane e gli stivali di Chiara. Dalla vegetazione di tanto in tanto si alzava un uccello e il cane faceva uno scatto in avanti per poi tornare, agitando la coda, verso di lei.
Un’ora dopo, mentre rientravano verso casa, un’automobile grigia rallentò e quindi accostò lungo la strada, a pochi metri da loro. A Chiara parve di riconoscerla e in effetti era la berlina del figlio del vicino di casa. Provò a ricordarsi come si chiamava, Paolo o forse Pietro, non lo sapeva più. Quando lei era bambina, lui era un ragazzo di una decina di anni più grande. Aveva abbassato il finestrino e aspettava che lei gli passasse di fianco. “Ehi.” Chiara si spostò, cambiando lato della strada. Il cane iniziò ad abbaiare. Lui riaccese il motore e le si accostò, muovendo l’automobile a passo d’uomo. Chiara si fermò, irritata, e lo guardò in faccia. Il suo naso assomigliava a una zucca e i suoi piccoli occhi neri le facevano paura. “Vuoi un passaggio? Andiamo nella stessa direzione.” Chiara scosse la testa, con fermezza, “No.” Proseguì, sentendo su di sé il suo sguardo che la seguiva. Lui rimise in moto e continuò a pedinarla lentamente. La fiancheggiò di nuovo e le disse: “Vieni.” Il cane ricominciò ad abbaiare, mentre lei accelerava il passo. Chiara non rispose, non si voltò, continuava a marciare guardando dritta davanti a sé, con il sudore freddo che le colava lungo la schiena. Il cane iniziò a ringhiare e a saltare verso il finestrino aperto della macchina. Dal campo vicino, si alzò un airone. D’un tratto, Chiara vide una donna anziana, con un lungo grembiule nero, che guardava la scena dall’aia di una casa colonica. Le fece un cenno, un gesto troppo ampio per essere un semplice saluto, e sentì la berlina che li sorpassava sgommando. Nel giro di pochi secondi, tornò il silenzio e del passaggio dell’uomo non rimase altro che un vago puzzo di gas di scarico.
Non appena rientrarono, trovarono il vicino, Egidio. Stava sulla porta, nella postura tipica della gente del luogo che passava a far visita senza voler accettare l’invito a entrare in casa. Che la cosa facesse penetrare all’interno aria gelida sembrava non disturbare troppo la nonna che, affacciata fuori con uno scialle di lana sulle spalle, annuiva ascoltandolo. Chiara si avvicinò, in silenzio. Le sembrava assurdo il contatto avuto poco prima con suo figlio, se Egidio lo avesse saputo probabilmente si sarebbe vergognato moltissimo e la cosa avrebbe incrinato i rapporti decennali tra lui e Rosa. Non disse altro che un rapido “Salve”, cercando di non pensare a quanto il viso del vecchio assomigliasse a quello di suo figlio. Egidio la salutò con un sorriso e una pesante pacca sulla spalla, commentando qualcosa a proposito del fatto che fosse cresciuta parecchio. Il solito commento, anzi l’unico, che le rivolgeva da quando era nata. Poi guardò il cane e borbottò in dialetto che certe bestie era meglio ammazzarle da piccole. Rosa non si scompose. I due si salutarono. Chiara legò il cane ed entrò in casa. La nonna aprì il sacchetto che il vicino le aveva portato. Un salame della dimensione del braccio di un uomo. Iniziò a tagliarne alcune fette, spesse, per assaggiarlo subito. Ne prese una e la allungò alla nipote, mettendogliela direttamente in bocca senza che Chiara avesse il tempo di accettare. Il sapore era forte, pepato, e si sentiva l’odore della carne macinata di fresco. Le spezie non bastavano a smorzare quel gusto che sarebbe potuto apparire nauseante per chi non vi fosse abituato. Chiara cercò istintivamente in cucina un pezzo di pane, ma trovò solo dei tozzi rancidi buoni per il cane. Disse che quel pomeriggio sarebbero andate in paese. Oltre al pane mancavano anche le zucchero e il caffè e bisognare fare rifornimento di qualche alimento a lunga conservazione.
La Panda scivolava a velocità moderata verso il centro abitato da appena un centinaio di anime, sussultando a ogni buca dell’asfalto. Era primo pomeriggio e c’era un po’ di sole. I raggi illuminavano le facciate delle case e il piccolo campanile che si ergeva ormai muto e invalido, dopo il terremoto. Le impalcature coprivano la facciata della chiesa e delle assi di legno sostenevano i muri degli edifici. Gli addobbi di Natale, penzolanti sulla via principale, anziché rallegrare l’atmosfera la coloravano di mestizia. Chiara si chiese per quanto tempo si sarebbero visti i segni del terremoto, quanto ci sarebbe voluto a quelle zone per riprendersi.
Al forno non c’era nessuno. Comprarono pane comune e qualche rosetta. Poi entrarono nel piccolo supermercato, che ancora sopravviveva nonostante la concorrenza dei centri commerciali inaugurati a qualche chilometro. Chiara controllava le date di scadenza della pasta, del riso, della farina, come la nonna le aveva insegnato quando era piccola. La regola era che gli alimenti dovevano poter durare il più a lungo possibile, come se ci si potesse sempre trovare in uno stato di emergenza.
Mentre riempivano il bagagliaio della macchina, videro una figura passare poco distante da loro. Aveva un’andatura claudicante, rallentata dal peso del grosso corpo avvolto in un lacero cappotto di lana. Era l’Aldina. Rosa la guardò da lontano, senza chiamarla. La donna si fermò in mezzo alla piazza, davanti al campanile, a testa bassa, poi riprese a camminare.