[Anticamera della morte, nascita: terzo capitolo. Leggi gli altri]
La mattina seguente in via Matteotti non c’era un’automobile, né un passante. Le domeniche, nella Bassa, riuscivano a apparire perfino più desolanti degli altri giorni.
Stavano sorbendo il caffè in silenzio, era ancora molto presto, quando qualcuno bussò alla porta. Rosa riceveva poche visite e quel giorno non aspettava nessuno. Borbottò qualcosa e Chiara si alzò per andare a aprire, premendosi il maglione sul mento.
Nella cornice della porta, si stagliò una donna dal busto straordinariamente largo. Aveva la pelle rossastra e piena di venuzze, come se gliela avessero appena sfregata con violenza, e due occhi liquidi che non sembravano mettere a fuoco nulla. Sembrava faticare a reggersi sulle gambe. Era Alda, detta l’Aldina, considerata da tutto il paese una specie di bambinona inoffensiva. Non si era mai sposata e non aveva nessuno. Viveva in una misera casetta dimenticata in mezzo alla campagna. Qualcuno diceva che una volta, tantissimi anni prima, quando era ragazza, avesse avuto un aborto. Non si era mai saputo chi avesse potuto metterla incinta e Rosa non aveva mai voluto esprimere pareri a riguardo. Dopo quel fatto, che fosse reale o solo frutto delle dicerie, l’Aldina non era mai più stata avvicinata da nessuno.
La donna si appoggiò al muro con aria sperduta chiedendo di Rosa. Chiara tornò dentro e chiamò la nonna, dicendo che c’era l’Aldina alla porta. Ormai la conosceva anche lei, era abituata a vederla fin da quando era piccola. Un tempo le faceva paura, con quelle grosse mani tremolanti che sembravano volerti afferrare, ma poi crescendo aveva cominciato, come tutti, a provare per lei un misto di pietà e repulsione. Rosa era l’unica che dimostrava un’insolita pazienza nei suoi confronti, era capace di offrirle il caffè e di tenerla con sé anche un’ora prima di dirle che aveva da fare, mentre alcuni in paese reputavano superfluo perfino salutarla. La invitò a entrare per un goccio di caffè, mentre Chiara si infilava le scarpe e la giacca per uscire. Uno strano fetore accompagnò l’ingresso in casa della donna e Chiara fra sé sperò che si fermasse il meno possibile. Mentre si richiudeva la porta alle spalle, si chiese se l’Aldina la riconoscesse o se per lei la sua presenza in casa di Rosa fosse un evento paragonabile al vento che smuoveva le cime degli alberi o a una pioggia leggera.
Versò nella ciotola del cane un po’ di riso avanzato dalla sera prima. Un raggio di sole si faceva strada tra gli strati di nubi, pallido e incerto. Faceva meno freddo del giorno precedente. Chiara attaccò il guinzaglio al collare e iniziò a tirarlo verso la strada.
Quando arrivarono all’altezza della casa arancione, non svoltarono verso l’argine. Il cane dava segni di voler proseguire in quella direzione, la strada di sempre, ma Chiara glielo impedì tenendolo legato. Proseguirono ancora sulla strada asfaltata per qualche centinaio di metri. Quella camminata faceva bene a entrambi, ossigenava le menti, sgranchiva le gambe. Sul vialetto di una casa, Chiara vide una zucca. Stava marcendo, ridotta ormai a una specie di poltiglia. Il cane tirava il guinzaglio, voleva annusare, ma Chiara lo portò via. Prima di andarsene, fece appena in tempo a vedere la tenda scostarsi e richiudersi dietro il vetro di una finestra.
Dopo ancora un centinaio di metri, svoltarono. Ora si poteva andare verso l’argine, Chiara liberò il cane e rimase a guardarlo correre fra la strada sterrata e il prato. Continuò a camminare, perdendolo di vista. La sterrata era fiancheggiata da un canale. A un certo punto si accorse che il cane era scomparso. Iniziò a chiamarlo e accelerò il passo. Dopo un po’ lo vide riemergere, coperto di fango, dal canale. Aspettò che si scuotesse e si rotolasse per terra e gli andò incontro, ammonendolo con qualche parola secca. Pulirlo sarebbe stato impossibile e Rosa l’avrebbe rimproverata per averlo fatto inzaccherare così. Il cane di per sé sembrava soddisfatto, la guardò con una felicità ebete, estemporanea, e fece per rituffarsi di nuovo giù. A nulla servirono le grida di Chiara, che lo rincorreva. Lo raggiunse, ansimando. La parete di terra scendeva gentilmente verso il basso, costellata di erbacce e rifiuti. Il cane si era fissato su un punto fangoso, annusava e cercava di afferrare qualcosa con i denti. Vedendola arrivare abbaiò. Lei lo chiamò ancora, inutilmente, non aveva nessuna voglia di scendere sul fondo per recuperarlo. Già altre volte era capitato che il cane facesse una simile cerimonia per aver scoperto la carcassa di una lepre, di una nutria o di un gatto. Dopo essersi fatto chiamare per un bel po’, prese qualcosa con i denti e si convinse a risalire. Appoggiò il suo bottino sulla sterrata, schizzando fango da tutte le parti. Era uno straccio, un pezzo di stoffa. Chiara lo rigirò con il piede. Sembrava il pezzo di una maglietta. Azzurra, con una specie di faccia gialla e marrone disegnata sopra. Il muso di un cane sorridente.
D’un tratto il ricordo della mattina prima le attraversò la mente, vivido. Il cuore iniziò a batterle in petto e la mente, all’opposto, iniziò a mettere in campo tutti gli strumenti della razionalità per farla calmare. Uno straccio in un canale non significava niente. Uno straccio avrebbe potuto finire nello scarico come qualsiasi altro oggetto; non c’era nessuna connessione con il fatto. Tuttavia, Chiara si guardò intorno e mise a fuoco due case, separate da un centinaio di metri l’una dall’altra, che dovevano entrambe scaricare nel canale. Una sembrava abitata, dal davanzale pendevano panni stesi. L’altra invece aveva l’aria di non ospitare nessuno da tempo. Chiara si lasciò trascinare avanti dai suoi stessi passi. Non pensava più al cane, che le correva appresso. Una sorta di curiosità spaventosa, che avrebbe voluto respingere, la portava ad avanzare verso la casa disabitata.
Quando fu vicina al cancello, si fermò. Era chiuso ma un buco nella rete poco più avanti, circondato da una siepe selvaggia, costituiva un passaggio perfetto. Forse era già stato usato. Ci ragionò su qualche istante poi si girò, allacciò il guinzaglio attorno al collare del cane e si avvicinò al foro. Il cane abbaiò e lei gli colpì il muso, una volta, severamente, per dirgli di smetterla. Poi lo guardò, inutilmente offeso e incapace di capire. Cercò un albero e lo legò al tronco. L’animale la guardava con occhi sperduti ma non abbaiava più.
Il foro era largo abbastanza perché potesse passarvi in mezzo. Atterrò su un terreno umido. L’erba era rada e spenta e si alternava a zone di terra nuda. La casa era grigia e muta e contro una delle finestre al piano terra erano state attaccate delle assi, mentre sulla porta una vernice rossastra andava scrostandosi. Fece qualche passo nel giardino, tendendo le orecchie. Provava una sensazione simile a quella avuta cospetto della casa arancione. Era come se non fosse lei a guardare la casa ma viceversa. Attribuì quel pensiero alla suggestione, era lei forse che in quelle case voleva trovare un’anima.
Il disegno dell’edificio era insolito per quelle zone, più spigoloso e verticale delle altre costruzioni. C’erano tre piani e in più, su un lato, svettava una sorta di piccola cabina a forma di torretta. Le serrande erano scure e cadenti e Chiara puntò lo sguardo verso una di esse, per un istante le era sembrato di cogliere un movimento.
Salì i tre gradini che conducevano all’ingresso e spinse il legno marcescente con la punta delle dita fino a sentire uno scricchiolio. Qualcosa, dall’interno, stava cedendo. Non fu difficile entrare e si trovò in una stanza buia e spoglia, immersa in uno strano fetore. Un odore animale, come di sudore e feci, pellicce sporche o bagnate. Fece un altro passo e intravide nel buio un piccolo topo che correva a nascondersi.
Lanciò un’ultima occhiata alla porta, come salutando quell’appiglio in grado di riportarla all’aria e alla luce, e si addentrò. Dopo la prima stanza ce ne erano altre, tutte vuote, simili l’una all’altra, e sempre invase da quel puzzo nauseabondo. Per un attimo le attraversò la mente che fosse la casa stessa a emanare quel fetore. Come se una ferita l’avesse squarciata e ora stesse lentamente imputridendo. Arrivata nei pressi delle scale, valutò l’ipotesi di tornare indietro. La casa era un luogo immondo, dimenticato da tutti, non c’era forse nessuna vera buona ragione per proseguire oltre. Poi pensò al cane. Se le fosse successo qualcosa il cane sarebbe stato il segnale che la padrona non poteva trovarsi lontano. E se qualcuno lo avesse slegato? Stornò dalla mente quel pensiero. Qualcuno chi? Decise che sarebbe salita, si sarebbe tolta la curiosità e poi sarebbe finalmente uscita. La scala era parzialmente crollata, probabilmente a causa del terremoto, e a tratti si vedeva lo scheletro di metallo che sosteneva i gradini, oltre il quale si aprivano metri di vuoto. Al primo piano c’era ancora più buio e Chiara andò a sbattere contro qualcosa. Si fece luce con il cellulare. Altre due stanze vuote e poi la terza –
Nella terza stanza il pavimento era ricoperto da giocattoli, o più precisamente, bambole e bambolotti. Teste, mani, gambe, braccia e busti informi. Ce n’erano a decine. Smembrati e talvolta assemblati secondo una logica posticcia e innaturale.
Ora voleva andarsene, si girò di scatto e scese le scale, di corsa. Un piede le si infilò per sbaglio in una fessura e avvertì un dolore pungente. Zoppicando, ritrovò la porta e ci si appoggiò contro per uscire.
Appena fuori, respirò avidamente l’aria dell’esterno. Ritrovò il punto nella siepe nel quale c’era il passaggio e ci si infilò.
Fece qualche passo sulla strada poi cercò con gli occhi il cane. Non c’era più, legato all’albero. Non c’era nemmeno il guinzaglio. Lo chiamò, guardandosi intorno, con voce angosciata. Infine, dal fondo del campo lo vide correre verso di lei, rispondendo al richiamo, fino a raggiungerla. Trascinava dietro di sé il guinzaglio, che era nero di terra. Lo afferrò, imbrattandosi le mani, e facendosi guidare si rimise sulla strada di casa.