Grazia Guglielmini era a scuola da quarantasette anni anche se ne aveva solo cinquantatré. Dopo le superiori si era iscritta a lettere classiche, già all’università aveva cominciato a far supplenze negli istituti magistrali e visto che si era trovata bene aveva fatto di tutto per rimanerci. Da alunna diligente si era trasformata in una professoressa rigorosa, sapeva ben poco della vita oltre ai libri e pretendeva dai suoi alunni la stessa devozione. La odiavano in pochi, la temevano tutti. Entrava in classe leggera e malvestita, sembrava una cartaccia trasportata dal vento. Indossava sempre gli stessi maglioni e un corallo rosso che sottolineava le clavicole come fossero un errore.
Trattava i ritardatari, i bugiardi e i fannulloni come i sassi dentro le scarpe: li sopportava con fastidio, cercava di levarseli dai piedi il più in fretta possibile. Persino il preside si prodigava nel far cominciare le riunioni sempre in orario, perché Grazia Guglielmini aveva un orologino regolato cinque minuti in anticipo e con quello faceva correre tutta la scuola. La 4°D arrancava per seguirla. Ai visitoni la professoressa brontolava di non aver mai avuto una classe così svogliata e che se erano svogliati gli alunni probabilmente lo erano anche i genitori, che non si preoccupavano abbastanza della mediocrità precoce dei loro figli.
Faceva eccezione solo Greta Pustello, il suo più grande dispiacere.
Greta riusciva ad eccellere senza fatica. Se il sabato aveva voglia di dormire sua madre le firmava la giustificazione e lei entrava in classe con la piega del lenzuolo ancora stampata sulle guance. Quando usciva interrogata parlava talmente bene che i compagni tiravano fuori la matita per prendere appunti. La Guglielmini però le dava sempre dieci meno, perché era convinta che si offrisse volontaria solo quando si strizzava le tette nel reggiseno col push-up. E infatti Greta Pustello usava lo studio per mettersi in mostra, perchè più della letteratura amava piacere agli altri. Piaceva persino alla professoressa Guglielmini, trovava talmente incantevole il suo eloquio che si sentiva legittimata a punire tanta vanità.
Le uniche scarpe col tacco che teneva sotto il letto, la Guglielmini le metteva soltanto ai funerali, sicché erano praticamente nuove anche se avevano la metà esatta dei suoi anni. Quando la gente piangeva un morto non badava alle gambe di nessuno, così la professoressa indossava pure la gonna e si concedeva di essere tristissimamente bella, camminando dietro il feretro fino al cimitero.
Suo fratello era morto prima di Pasqua, gli era venuto un infarto finché sceglieva il mangiare per il cane. La professoressa allora si era comprata un vestito di seta perché suo fratello era l’ultimo parente che le era rimasto, voleva salutarlo come si deve. Si era occupata della cassa, aveva telefonato al fiorista, scritto l’epigrafe e parlato con il prete. Mancava soltanto la scuola. Grazia aveva pianto sul libro di grammatica, le lacrime erano cadute sui pronomi personali e su quelli relativi, annacquando l’inchiostro. Aveva continuato a lavorare fino a mezzanotte, quando la lista dei compiti da lasciare al supplente l’aveva fatta addormentare sulla scrivania.
Non capitava mai che la Guglielmini si assentasse per più di un paio d’ore, i ragazzi erano abituati a essere contagiati dalle sue influenze, che portava dietro la cattedra con stoica indifferenza. Invece la professoressa non si era vista, per quattro, cinque, dieci giorni. Era scesa sulla scuola una calma stupita, il preside aveva cominciato le riunioni con un quarto d’ora di ritardo e gli studenti avevano avuto il tempo di uscire tutti i pomeriggi.
Quand’era ritornata nessuno aveva avuto il coraggio di chiederle cosa fosse capitato. La Guglielmini aveva gli occhi scavati, simile una bestia che aveva patito la fame. Camminava in lungo e in largo, irrequieta: faceva lo slalom attraverso i banchi, a ricreazione usciva in cortile anche se non era il suo turno di sorveglianza. Alcuni colleghi pensavano di aver avuto una specie di rivincita e pregustando il suo tramonto definitivo le offrivano un caffè alla macchinetta, cercando di capire se avesse un tumore o se davvero fosse solo il dispiacere.
Quando era entrata in 4°D nessuno aveva osato fiatare. La professoressa aveva tirato fuori il libro di storia e aveva spiegato Napoleone Bonaparte. Solo alla fine Greta Pustello aveva alzato la mano, chiedendo come mai non avessero fatto italiano, visto che avrebbe dovuto esserci compito.
Nel frattempo il sole si scaldava, le maniche dei vestiti si accorciavano sempre di più, sicché gli occhi scoprivano posti lieti che l’inverno aveva fatto dimenticare.
Per la Guglielmini la primavera era sempre stata un nemico da sconfiggere, chiudeva le finestre e abbassava le serrande perché diceva che le rubava le buone idee dei ragazzi. Invece quell’aprile aveva preso il registro e aveva fatto lezione in giardino.
Neanche la 4°D sapeva più cosa pensare.
Leggevano certe poesie confuse, al posto di fare latino. Ogni tanto la professoressa si dimenticava di interrogare, aveva già perso un pacco di verifiche; i ragazzi avevano il terrore potesse succedere di nuovo, perché se fare un compito era brutto farlo due volte era peggio di sicuro. In più avevano cominciato ad annoiarsi. La Guglielmini non spiegava più come una volta, guardava fuori, perdeva il filo, lasciava in pace gli sfaccendati in ultimo banco.
Greta Pustello e i suoi compagni avevano deciso di pedinarla a giorni alterni. Per pranzo si portavano un panino e aspettavano che la Guglielmini andasse a recuperare la tracolla in aula insegnanti. Percorrevano un tragitto breve, perché la professoressa aveva un appartamento in centro, non troppo distante dal quartiere degli istituti. La guardavano prendere le chiavi dalla borsa e richiudere il portone stando attenta a non farlo sbattere. Poi, siccome non c’era più niente da spiare, se ne andavano subito. Solo Greta rimaneva a mangiarsi una mela seduta sulla scalinata del duomo. Studiava storia, guardava il cellulare, faceva gli esercizi per il giorno dopo, tanto sua madre rientrava la sera. La Guglielmini usciva raramente, qualche volta Greta la vedeva prendere la bici per andare a fare la spesa. Tornava con una sporta enorme ficcata chissà come dentro il cestino, il manubrio era così pesante che sui sampietrini vacillava come la fiamma di un lumino.
Era venerdì quando un carro funebre aveva parcheggiato sotto il balcone della professoressa. Greta Pustello non ci aveva fatto caso, poi un uomo era sceso e aveva premuto il campanello più in basso, proprio quello della Guglielmini. Greta si era messa lo zaino sulle spalle ed era andata più vicino. Era uscita dal palazzo una donna elegante, coi capelli raccolti e un giro di perle che le cingeva il collo sottile. Camminava incerta su un paio di scarpe fuori moda. L’uomo delle pompe funebri le aveva aperto la portiera, solo allora, quando la donna si era voltata leggermente, aveva riconosciuto la sua professoressa.
Il carro funebre arrivava ogni venerdì alle cinque e trequarti. Greta si era fatta prestare lo scooter da suo cugino. Seguiva la macchina fino al cimitero. Lasciava il motorino vicino ai cassonetti e si nascondeva dietro a un cipresso circondato da lapidi sghembe, così vecchie che la terra sembrava ostinata a fare sparire pure la pietra, mezza sprofondata dentro la ghiaia. La Guglielmini e il suo becchino passeggiavano davanti ai loculi fioriti, si stringevano la mano e lentamente arrivavano fino alla cappella mortuaria. Entravano guardinghi, senza farsi il segno della croce. Greta allora se ne andava ridendo: Grazia Guglielmini aveva un amante.
Era successo al funerale di suo fratello. Quando era entrato Vincenzo con la bara sulla spalla e gli occhi austeri, invece di sentirsi triste Grazia si era scaldata all’improvviso e il cuore aveva cominciato a festeggiare. Anche Vincenzo, che era abituato a non badare a nessuno, si era ritrovato a fissare la donna seduta di fronte all’altare. Aveva temuto che fosse rimasta vedova, le vedove erano noiose, piene di paure o di pensieri per il marito sotterrato. Dopo le condoglianze si era offerto di accompagnarla a casa, la Guglielmini gli aveva chiesto di salire per bere una tisana: erano rotolati a letto subito, senza nemmeno fingere di voler mettere l’acqua a bollire.
Dopo averci riflettuto avevano deciso di andare fare l’amore al cimitero per due ragioni: Grazia Guglielmini non voleva chiacchiere sul suo conto, proteggeva la sua reputazione di zitella perché non voleva pettegolezzi che le rovinassero la carriera. I genitori dei suoi alunni ficcavano il naso in ogni questione, li aveva sentiti dal panettiere sparlare di quella di spagnolo e le era bastato. Vincenzo invece viveva con sua madre, che era convinta fosse ancora il suo bambino, preferiva non darle un dispiacere.
Il giorno dopo Greta Pustello si era messa la minigonna e si era fatta interrogare su Foscolo. Aveva studiato tutta la notte, anche il programma che avrebbero dovuto svolgere la settimana seguente. La Guglielmini l’aveva ascoltata guardandole le caviglie. Si era chiesta quanti uomini avesse avuto e se Vincenzo avesse potuto desiderarla anche se era soltanto una ragazzina.
Si era detta di sì, così le aveva messo nove e mezzo.
Greta aveva sgranato gli occhi, ero da dieci, aveva detto alla Guglielmini e lei le aveva risposto che avrebbe potuto farsi interrogare di nuovo.
Ogni mercoledì Greta Pustello alzava la mano e più era preparata più si scopriva. La 4°D assisteva malvolentieri alla solita farsa: la Guglielmini faceva finta di ascoltarla e Greta muoveva i fianchi maliziosa.
Agli scrutini di giugno la professoressa aveva lasciato i suoi colleghi di stucco, aveva arrotondato per eccesso le medie dei suoi studenti, voleva andare al mare con Vincenzo senza avere il pensiero dei corsi di recupero. Ma anche se si era dimenticata dei somari Grazia Guglielmini non aveva scordato le cosce di Greta.
Nove in latino, nove in storia, nove in italiano. Quando la Pustello era andata a vedere i tabelloni le era venuto da vomitare. I suoi compagni, loro sì che festeggiavano, si davano pacche sulle spalle e telefonavano ai genitori tutti pimpanti. Avevano già il costume sotto i vestiti, al posto dei libri dentro gli zaini c’erano la crema solare e l’insalata di riso. Erano partiti insieme, sgommando verso la piscina. C’era anche Greta, imbronciata e piena di rabbia, si era stesa sotto l’ombrellone e da lì non si era più mossa. Aveva ascoltato le sue amiche parlare di concerti, il giorno dopo sarebbero andate a Milano in macchina e non sapevano ancora come vestirsi.
Che giorno è oggi? Aveva chiesto Greta all’improvviso.
Venerdì, le avevano risposto le altre.
Grazia Guglielmini e Vincenzo avevano accostato il carro funebre in fondo alla stradina sterrata. Nessuno andava al cimitero d’estate, sicché facevano una passeggiata tra i campi macchiati di papaveri. Grazia era stata così felice soltanto alla sua laurea. Si era comprata uno scamiciato senza maniche che le toglieva dieci anni, Vincenzo le aveva baciato il collo: andiamo alla cappella, aveva bisbigliato.
Grazia gli aveva preso la mano ed aveva accelerato il passo. Ormai i visi sulle lapidi erano diventati volti famigliari.
Erano strisciati nella chiesetta buia, cercandosi voraci. Grazia rideva e rideva anche Vincenzo, si stringevano come non ci fosse altro – perché davvero – non c’era altro al mondo a cui valesse la pena tenersi aggrappati.
E poi c’era stato un rumore.
Un frullo d’ali avevano pensato subito, una civetta aveva fatto il nido sotto la statua di San Francesco. Ma presto era diventato scrosciante. Grazia Guglielmini allora aveva guardato verso l’altare, insieme a Gesù e tutti i santi c’erano gli alunni della 4°D che applaudivano abbronzati e contenti. Greta Pustello era in piedi, in mezzo alla navata, più bella della Madonna.
Volevamo ringraziarla, professoressa.