Sempre a fare chiasso

Come sempre, eravamo stipati nel cucinino stretto e lungo, davanti ai fornelli, a sgranocchiare noccioline mentre ci versavamo a vicenda bicchieri di vino bianco.
«Con le bollicine?» aveva chiesto la zia.
«Con le bollicine» avevo annuito io, stappando con uno schiocco il prosecco da venti euro che mi era stato regalato giusto il giorno prima da un cliente, e che avevo prontamente riciclato per la mia famiglia.
Mio fratello stava appoggiato al piano cottura, la camicia fuori dai pantaloni, a una spanna dal prendere fuoco, e fumava una sigaretta. Ogni tanto allontanava il fumo con la mano, come se fosse un nugolo di moscerini, con il risultato di spostarlo verso mia madre, che era quasi immersa nel lavello e continuava a dire: «Ma perché non vi spostate in salone? Marco, Cristo santo, la vuoi smettere di fumare?»
Io parlavo a bassa voce con mia cognata, mentre me ne stavo seduta sul top della cucina, vicino al lavello. Ero a piedi nudi e dondolavo le gambe, ogni tanto posando i piedi sul forno sotto di me, così, per scaldarmi. Dentro al forno c’erano pollo e patate. Era domenica, d’altronde.
Non so perché ci mettessimo sempre lì. La casa dei miei genitori era grande, davvero immensa rispetto alle case a cui è abituata la mia generazione. Erano più di centocinquanta metri quadri, con un’organizzazione non troppo chiara, come un sacco di case degli anni Settanta. Corridoi lunghi e alti che facevano eco, lunghi bagni stretti, e poi un grande salone con un tavolo che, un anno, a Natale, eravamo riusciti a espandere fino a farci stare venticinque persone. C’erano anche un paio di divani e una poltrona. Eppure noi adoravamo il tinello, lunghissimo e strettissimo, come il bagno. Non che fosse una scelta deliberata, non è che decidessimo con una votazione democratica. Semplicemente ci ritrovavamo lì, tutte le volte, tutte le domeniche, tutti i giorni di festa, tra sportelli aperti e pentole borbottanti, a dar fastidio a mia madre che spadellava, mentre noi bighellonavamo, fumavamo, chiacchieravamo. E spesso, chiacchierando, urlavamo.
Avevo il sospetto che in realtà anche a mia madre piacesse che ci accalcassimo lì e che ogni tanto le versassimo da bere in quei bicchierini tondi, da osteria, con le scanalature ai lati. Credo che fosse la sua parte preferita dei nostri pranzi.
Mia cognata mi stava parlando del suo lavoro, faceva la divorzista e si era appena associata a uno studio. Mi parlava di tutti gli impegni che si affastellavano uno sull’altro, delle udienze, delle scartoffie, delle chiamate oltre l’orario di lavoro che le impedivano di avere una gravidanza serena. Io annuivo e continuavo a sorseggiare il vino, ma in realtà pensavo che se una persona si deve preoccupare di avere una gravidanza serena ancor prima di rimanere incinta, allora sarà proprio meglio lasciar perdere, con ‘sta gravidanza.
Glielo avrei detto? Mai.
Invece le dissi di cercare la serenità dentro di sé, che purtroppo nel mondo lavorativo attuale è molto difficile ritagliare uno spazio per noi, ma che lo dobbiamo trovare e poi lo dobbiamo difendere con i denti. Le dissi di trovarsi una cosa che la facesse stare bene, a priori. Lo sapevamo entrambe che l’unica cosa che la faceva stare bene a priori era proprio quel lavoro pieno di impegni che si affastellavano uno sull’altro, e che avrebbe tirato fuori i denti, sì, avrebbe combattuto, certo, ma per tenerselo. Comunque era meglio non dirlo davanti a mio fratello. Quindi continuammo ad annuire come due piccioni sul cornicione, e ci versammo un altro bicchiere.
«Ma poi ci pensi, mesi e mesi senza bere?» disse lei, e rise.
Io non ci trovavo proprio niente da ridere. Era una delle cose che mi avevano sempre trattenuto dal diventare madre. Be’, ecco, oltre a tutto il resto. Niente alcol, niente sigarette. Niente prosciutto crudo e insaccati. Rinunciare a tutte le alternative, – carne cruda o carne cotta? – e dover per forza scegliere la cotta. Rinunciare a una parte così grande di me. Non credevo che sarei mai stata pronta.
Mio fratello allungò il braccio oltre mia madre, teneva stretto il suo bicchiere. «Ciccia» mi disse, «me ne versi un altro po’?»
Era rimasto incastrato in una conversazione triangolare tra la zia e mia madre, uno scambio di battute serrate, sempre più ad alto volume, e a bassissimo tasso di interesse. Parlavano della vicina di casa, quella napoletana, che bussava tutti i giorni alla zia per offrirle qualcosa da mangiare. Una volta erano le zeppole di San Giuseppe, un’altra volta gli struffoli, un’altra ancora dei mostaccioli così intensi e deliziosi che ancora me li ricordavo. La zia li riciclava sempre al pranzo della domenica. Marco, in quel momento, aveva osato dire: «E ti lamenti pure?» e la zia era partita in quarta, elencando tutti gli orrori a cui era stata sottoposta da mesi a causa di quella coetanea trasferitasi da poco. Partiva sempre citando il suo errore originario, l’ormai celebre Offerta della Panna Cotta al Caramello e Vaniglia di Benvenuto, che aveva innescato una relazione codipendente di scambio di dolci. Un legame strettissimo, in base al quale si sentiva in dovere di invitare la vicina a entrare in casa e di andarla a trovare quando vedeva la sua luce accesa in casa, cioè sempre.
«Ma Fausta,» la interrompeva mia madre, ogni volta, «spiegami, che problema c’è? Io non ci vedo nessun problema. Siete due donne sulla settantina, siete sole come cani, vi tenete compagnia, no? Perché non andate a farvi dei giretti? Al cinema, Cristo, se no non vai mai da nessuna parte.»
«Ma chi ha bisogno di compagnia?» rispondeva la zia, punta nell’orgoglio. «Meglio soli che male accompagnati, dico io. Quella sta sempre lì a sparlare di tutti, sta sempre a guardare dalla finestra, è una pettegola. E mi racconta del macellaio all’angolo che ha una relazione con la figlia della Sarpi…»
«Ma la figlia della Sarpi non era sposata con il tizio di Matera?»
«È sposata col tizio di Matera, sì! Infatti, lei e il macellaio all’angolo si vedono solo il giovedì sera quando lui stacca prima e il tizio di Matera ha il calcetto, una storia sporca, poi te la racconto. E quella linguacciuta della mia vicina non fa altro che parlare di questi e di quelli. E mi racconta dei gemelli di quella che sta in fondo a Via Valperga, e dice che assomigliano un sacco a Guido…»
«Ma chi, il benzinaio?»
«Sì, lui. Questa tizia e il benzinaio hanno avuto una storia, almeno quindici anni fa. Comunque è vero, ha ragione Carmela, sono spiccicati, stesso naso, stesso taglio degli occhi, anche lo stesso modo di muovere la bocca quando parlano…»
E ogni volta, ogni volta, ripetevano le stessa battute. Spesso ero io a farmi risucchiare nel vortice della vicina Carmela, a volte era Marco, a volte era Elisa, mia cognata. Potevamo andare avanti ore a farci raccontare tutti i segreti del Borgo, intervallati agli insulti alla vicina, quella linguacciuta, lei, che non sapeva tenere la bocca chiusa.
Nostro padre stava sempre in salotto, lontano dai gridolini, a farsi i fatti suoi. Componeva solitari complicatissimi sul tavolino di vetro, e non riusciva mai a finirli. Passava ore, chino, senza dire una parola, a guardare le carte senza risolvere i solitari. Era la sua battaglia personale. Provavamo a dargli una mano, ma il suo orgoglio gli impediva di accettare consigli, soprattutto se giusti. Se sbagliavamo, allora ci prendeva in giro, dicendo che quella roba lì era per gente adulta, non per bocia, ragazzini, come noi. Io avevo trentacinque anni, e Marco trentadue, a quel punto. Io ero una consulente finanziaria, mio fratello insegnava fisica al liceo. Per lui eravamo improvvisamente adulti solo quando ci prendevamo a botte, così, per gioco, come avevamo sempre fatto. A quel punto mio padre diceva: «Cazzo, c’avete quasi quarant’anni e vi comportate ancora come dei ragazzini, incredibile.» Incredibile e cazzo erano le sue parole preferite.
Solo ogni tanto veniva attirato dal trambusto nel cucinino. In quei casi si alzava lentamente e, scivolando con le pattine lungo il corridoio, arrivava fino a noi: «Allora» diceva, «cos’è sto casino incredibile? State sempre a fare chiasso.»
«Cosa vuoi che sia?» rispondeva mia madre. «Stiamo parlando.»
Lui si irrigidiva tutto quanto: «Ah, be’, se non mi volete con voi basta dirlo» e scivolava via, il pattinatore lento, verso il suo solitario. Suscettibile da matti, ma lo trattavamo sempre male, effettivamente.
Mia madre aveva finito di lavare le pentole. «Ciccia, a che ora arriva Giorgio?» mi aveva chiesto, quella domenica.
Avevo nicchiato fin lì, dunque dissi semplicemente: «Non viene, ma’.»
Mi squadrò. «E perché?» chiese lentamente.
Io cambiai posizione, allontanai i piedi dal forno. «Ci siamo lasciati.»
Le chiacchiere cessarono di colpo. Lei si stava asciugando le mani in uno straccio. Lo lasciò cadere melodrammaticamente e portò entrambe le mani allo stomaco, sbiancando. Aveva la tendenza a sbiancare in momenti come questi: «Ma come? Io ho apparecchiato per sette persone.»
L’avevamo persa, ormai era nel tunnel.
«Ciccia, sei incredibile» urlò mio padre dal salotto.
«Ma di nuovo?» ricominciò mia madre. «Devi smetterla. Ma guarda te, sola. Sempre sola. A quasi quarant’anni. Ce la puoi fare una buona volta? Stavi sempre lì a dire quanto era bravo, quanto lo amavi, e guarda come sei finita? Sola, a quasi quarant’anni. Di nuovo.»
Scesi lentamente dal top su cui ero seduta e andai nello sgabuzzino, in silenzio, e cominciai a mettermi le scarpe. Allargai per bene le stringhe, una a una, e intanto la zia ululava: «Ma sì, succede. Anche la figlia di Carmela si è lasciata il mese scorso. Stavano insieme da dieci anni, poveretta. Corna» e fece il gesto con la mano.
Mia madre la fulminò con gli occhi.
«E quindi?» disse tornando a focalizzarsi su di me. «Cos’è successo?»
Io infilai la seconda scarpa.
«E adesso perché ti metti le scarpe? Stiamo per mangiare.»
Sbuffai. «Perché me ne vado.»
«Ma dove vuoi andare? La domenica, da sola. Cristo santo. Mi dici cos’è successo?»
Allacciai l’ultima stringa e alzai la testa verso tutti quanti: «Oh, ragazzi, che ci devo fare? Non lo amavo più.»
«Ecco, lo sapevo. La solita.» Mia madre uscì dal cucinino. «Papà» urlò, «togli un coperto, va’.»
«A me Giorgio piaceva, eh,»disse Elisa, «ma capisco cosa vuoi dire, può succedere a tutti. È come scoprire qualcosa di te stessa, no? Prima lo amavi e poi, bum, non lo ami più.»
«In che senso?» disse mio fratello.
«Ma sì, nel senso che l’amore va e viene, no?»
«Anche per noi, quindi?»
Lei mi guardò, sorrise e rispose: «Ma che c’entra, stiamo insieme da quindici anni…»
Appunto. Avrei voluto dire.
Ma glielo avrei detto? Mai.
Invece dissi: «Ma no, voi state benissimo, sono io che sono una frana.»
Mia madre tornò in cucinino. «Ma che frana. Ciccia, spostati che stanno salendo gli gnocchi. Tutti a tavola! E tu, levati quelle scarpe, dai, il prossimo sarà quello giusto.»
Gesù.
Marco prese la pentola dalle mani di mia madre e la rovesciò nello scolapasta nel lavello, Elisa tirò fuori un’altra bottiglia di vino dal frigo. E io presi i bicchieri.
«Io sono affezionata a Giorgio,» stava dicendo mia madre a mio fratello, in un sussurro, ma ben udibile. Poi, alzò la voce: «Mi è sempre piaciuto. Ci sto male che non lo vedremo più. Chissà come sta. Eh? Come sta?» urlò.
La ignorai.
Mio padre, dal salotto: «Ciccia, e chi ce li porterà i formaggi buoni di alpeggio, adesso? Eh?»
Lo ignorai.
La zia, che mi precedeva in corridoio, si voltò: «Carmela mi ha detto che la figlia si è iscritta a un corso di bachata, e sta molto meglio.»
«Farò così» risposi.
Si sistemarono a tavola, tutti tranne mia madre, che arrivò col pentolone pieno di gnocchi, e lo posizionò davanti a mio padre: «Sai che facciamo?» disse, «ci andiamo tutti a iscrivere a bachata» e ridacchiò. «E dai, non fare quella faccia. Che vuoi che sia? Morto un papa se ne fa un altro.»
Io annuii. «Certo» risposi.
Mia madre cominciò a servire, prendendo i piatti. «Non lamentatevi che mangiate troppo, eh? Ci saranno un po’ più di gnocchi perché avevo cucinato per sette, e poi questa qui fa sempre di testa sua…»
«Me ne vado, eh?» minacciai, ma ormai stavo ridendo.
«Ma che te ne vai, che vivi in una casa umida, sola. Stai qui. Stai qui anche stanotte. Se vuoi, puoi anche tornare a vivere con la tua mamma e il tuo papà. Eh?»
Marco era seduto di fianco a me, guardò Elisa e mi diede una pacca sulla spalla, quasi da finir nel piatto: «Dai, mi sa che ci torniamo tutti e due.»