C’era quel polipo fritto, ma non l’abbiamo nemmeno toccato.
Betty se ne era uscita con quella sparata, e nessuno più osava parlare. Io cincischiavo con una mollica di pane, avrei voluto altro mirto, ma anche allungare un braccio verso la bottiglia mi sembrava un gesto eccessivo. Bill, il povero Bill, era rimasto in silenzio. Con la coda dell’occhio potevo vedere la sua mano ancora stretta attorno al bicchiere. Il liquido viola ci si muoveva dentro disegnando delle piccole onde, il ghiaccio ormai si stava sciogliendo. Mi pareva che la vena sulla sua mano si fosse gonfiata, che pulsasse più in fretta, ma con quella luce non potevo esserne certa. Anche May e Paul dovevano essere rimasti basiti, il silenzio della tavolata era rotto solo dal frinire dei grilli che tra poco avverrebbero smesso, smettevano sempre alle nove di sera. Così almeno diceva Betty.
«Oh, andiamo Bill, lo sai cosa intendevo dire» fece Betty.
Alzai lo sguardo e la guardai, lei non sembrava realizzare la gravità della situazione, anzi, sembrava allegra. Si era raccolta i capelli fermandoli con una bacchetta di legno e una ciocca più chiara delle altre le ricadeva lieve sopra la fronte. Era bella, questo sì, questo non si poteva negare. L’abbronzatura le toglieva almeno cinque anni, l’avresti detta sulla quarantina. L’altra però, chi poteva dirlo.
Bill vuotò il bicchiere buttando giù anche il rimasuglio di ghiaccio, lo fece con un movimento che mi era sembrato esatto e puntuale. Per la prima volta capivo perché potesse piacere alle donne. Quei polsi, le braccia. Una certa risolutezza tardiva. Mi venne voglia di sfiorargli la mano che teneva il bicchiere. May e Paul si guardarono e fecero per bere, ma le mani si fermarono quando Bill di colpo si alzò trascinando la sedia su quel pavimento italiano, maioliche dipinte a mano, roba che in altri tempi avremmo anche potuto apprezzare. Avevamo affittato, come ogni anno, una villa in una di quelle isole a Sud dell’Italia, ora non ricordo nemmeno come si chiamano. Eolie? Credo di sì, non me ne intendo di geografia, non mi interessa. Io e Thomas eravamo arrivati quella mattina, un viaggio di tredici ore, volevamo solo finire la cena, andare a dormire, vuotare le valige, forse inaugurare la stanza, ma non era detto. La mattina scendere in spiaggia. Gli altri erano già lì da una settimana e Betty aveva organizzato questa cena a base di pesce, diceva che ormai conosceva per nome il pescatore dell’isola, Gianni, si chiamava, questo me lo ricordo. Quella mattina Gianni le aveva portato del pescato del giorno: roba da mangiare cruda, non mi chiedete cosa perché non ho mai imparato i nomi dei pesci, né dei crostacei, nemmeno mi piacciono, e un polipo, questo sì, questo è facile, da cucinare. Betty aveva apparecchiato con una tovaglia rosa e una rete da pescatore cosparsa di conchiglie, ce n’era una anche sopra ogni piatto e dentro ogni conchiglia aveva infilato un rametto di buganvillea fucsia. Una cosa penosa. Vedendola, mi ero chiesta quanto tempo avesse sprecato per quell’apparecchiatura, mentre avrebbe potuto leggersi un libro, farsi un bagno fino ai faraglioni, prendere il sole, scrivere, addirittura, sapevo che teneva un diario, lo teneva da anni, ma forse era lì già da troppi giorni e il libro, il bagno, il sole e il diario l’annoiavano ormai. E così era andata da Gianni, queste cose si fan sempre e solo per noia. Insomma, al centro del tavolo, tra conchiglie e buganvillee, quel piatto col polipo.
Bill raggiunse il parapetto col bicchiere ormai vuoto ancora in mano, ci si appoggiò con i gomiti. Il sole era sceso da poco e colorava di rosa la superficie oleosa del mare. Erano mesi che aspettavo questa vacanza, era stato un anno pesante con Thomas, e tutto quanto. Insomma, sapete. Vidi che Paul e May si sforzavano come me di non fissare Bill, ma era impossibile. Come facevi a non guardare lui, o lui o il polipo. O al limite Betty.
«No» disse «non lo so cosa intendevi dire.»
Betty scoppiò a ridere, una risata acuta e stonata che risuonò nel silenzio. Aveva bevuto troppo, aveva bevuto anche mentre apparecchiava, ne ero sicura. Fissai il polipo, allora, e mi sembrò che da quando ci eravamo messi a tavola si fosse ristretto, rimpicciolito, e che lo strato rossastro che lo ricopriva si stesse facendo più scuro. Sempre più scuro.
«Spiegami, avanti» continuò Bill, «spiegalo a tutti.»
Bill si era girato e fissava Betty, la sua figura lunga e sottile era un ritaglio di buio contro lo sfondo rosa del cielo. Lei con tutta calma si versò altro vino – buono, vero? chiese a noi che eravamo rimasti in silenzio coi bicchieri vuoti – e lo mandò giù, poi si sciolse di nuovo i capelli. Su o giù, non si decideva, doveva piacersi in entrambi i modi e non aveva ancora deciso quale rispecchiava il momento esatto che stava vivendo. Forse sciolti.
«Non c’è niente da spiegare Bill, non farla lunga» disse Betty. «Ci stai solo rovinando la cena, il polipo si sta raffreddando.»
E andarono avanti così, almeno mezz’ora credo, finché Thomas non mi guardò con lo sguardo che aveva quando era sfinito – pensava alle valigie ancora da disfare, alla nostra stanza che affacciava sui faraglioni, forse solo a dormire ormai, alla fatica dei giorni – e allungò un braccio verso il piatto col polipo. Lo gettò a terra. Il polipo era lì, sopra le maioliche dipinte a mano, i tentacoli aperti come un ventaglio, e a me venne da ridere. Quando fa così mi ricordo di amarlo. Allora l’ho preso per mano e siamo scesi di sotto.
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in racconto