Il mare

Per scendere in città Mattia aveva preso poche cose: due pezzi di pirite, alcuni quarzi bianchi e il trilobite del Quintino Sella. Si era messo anche qualcosa in tasca, sassi piccoli che aveva trovato in giro, ma quelli non contavano. Il trilobite era il suo preferito, sapeva di essere scontato a pensarlo ma non gli interessava, d’altronde non era roba da tutti trovarne uno; i possessori di fossili che conosceva li avevano comprati da qualche parte, il suo veniva dalla montagna invece.
Aveva fatto parecchie storie quando da casa l’avevano chiamato, per dirgli che doveva andare all’assemblea di condominio. Normalmente era suo padre a occuparsi di queste cose, lui non si era mai posto il problema, nonostante abitasse in quell’appartamento da più di tre anni. Era sceso in Settembre, poco prima che iniziassero i corsi, e da allora non aveva ancora cambiato il cognome sul citofono: la posta che arrivava non era mai per lui, e le poche volte che succedeva arrivava a un altro indirizzo. Quando si ricordava di svuotare la buca ci trovava dentro pubblicità, bollette e lettere di qualche sconosciuta opera pia, che chiedeva soldi a sua zia defunta.
I sassi li aveva ritrovati quella sera, poco prima di uscire di casa, nei cassettoni sotto il letto. Erano sistemati dentro due scatole di cartone, messi in fila per ordine di ritrovamento. Avrebbe avuto più senso disporli per colore o affinità geologica forse, ma non era quello il caso. Il trilobite era il più vicino al bordo della scatola: ricoperto da un sottile strato di polvere, girato con l’incavo verso il basso, si sarebbe detto un semplice sasso di gneiss, di quelli che ti fanno scivolare nei tratti di pietraia oltre il bosco. Era stato messo in fondo a causa della sua anzianità. L’aveva raccolto durante la prima salita al Sella, lo stesso giorno in cui aveva imparato a camminare.
La salita partiva sul fianco meridionale di un ampio altipiano, protetto ai lati da montagne chiazzate di neve stantia. Gli alberi d’alto fusto erano rimasti nel bosco, più in basso. Da quel punto la vegetazione era composta per lo più di rododendri, ginestre e qualche raro ginepro, mentre il resto del paesaggio era occupato dal verde acceso dell’erba di montagna e dal grigio della pietra. Mattia era seduto su un masso, in attesa che sua zia finisse di sistemargli le ghette sotto gli scarponi:
«E quindi, dov’è il mare?» le aveva finalmente chiesto. Era dal giorno in cui gli avevano spiegato la differenza tra oceano e mare che aspettava di fare quella domanda.
«Come ti ho già detto era un oceano, non un mare, Mattia» aveva risposto lei senza alzare la testa. «Si, ma come fa a starci un mare d’acqua d’oceano quassù?» aveva replicato lui, fingendo interesse per la precisazione scientifica. La donna si era alzata facendo leva con le mani sulle ginocchia, con la chiara intenzione di imboccare il sentiero. Il bambino l’aveva seguita quasi subito, senza neanche rendersi conto di non avere ricevuto risposta.
La strada risaliva con ampi tornanti un pendio circondato da erba e detriti. Mattia correva avanti e indietro, fermandosi ad assaggiare l’acqua del torrente, sicuro che prima o poi sarebbe diventata salata. Sua zia procedeva con il passo lento di chi conosce la montagna, e non può farsi sorprendere dalla fatica. Il vecchio zaino rosso le ciondolava sulle spalle, aggrappato a un’armatura di ferro che non riusciva più a sostenerlo. Attraversato il torrente, il sentiero ripartiva costeggiando un piccolo lago scuro, fino a un tratto più ripido che terminava su un colletto, qualche centinaio di metri più avanti. Superato il primo dislivello si procedeva rasenti una parete rocciosa, che portava al bivio per il lago Chiaretto. Alla base della seconda salita il bambino seguiva ansimando la zia, cercando di mettere i piedi sugli stessi sassi che calpestava lei, più per gioco che altro. La donna aveva iniziato a parlargli poco più avanti:
«Siamo quasi arrivati sul fondo dell’oceano, sai» gli aveva detto tra un respiro e l’atro, cercando di distrarlo dalla fatica. Era sicura che a breve sarebbero cominciate le lamentele, e il modo migliore per evitarle era distogliere l’attenzione dalla strada. Come garanzia del fatto che presto avrebbero passeggiato sui fondali marini, chiese al ragazzino di prestare attenzione alle rocce. «Quando i sassi diventeranno verdi» gli aveva detto, «avremo raggiunto il punto più profondo.
La discesa cominciò con i molluschi bivalve, poco più avanti arrivarono i crostacei e gli artropodi di medie dimensioni. Superati i banchi di superficie, il buio avvolse i due palombari d’alta quota. «Muoversi nell’oscurità dell’abisso è praticamente impossibile, per questo la maggior parte delle specie di fondale genera da sé la luce. Lampi e bagliori si accendono nelle tenebre delle acque profonde, senza mostrare chi li ha prodotti.» Mentre lei parlava, le gambe di Mattia affrontavano inconsapevolmente l’ennesimo masso. Il bambino guardava muto il sentiero, alla ricerca di qualche traccia oceanica. «Molti pesci hanno una sorta di canna davanti agli occhi, dalla cui estremità pende una lanterna. Se ne stanno immobili, fluttuano nell’acqua con la bocca spalancata, in attesa che qualcosa abbocchi alla loro lenza luminosa.» Il fiato del bambino era diventato più regolare, il passo lento e deciso. «Alcuni crostacei hanno il corpo trasparente come una bolla di sapone. Quando vengono illuminati si distinguono dall’acqua solo grazie al piccolo intestino, che pulsa nel loro ventre. Nel buio dei fondali, ci sono forme di vita rotonde e senza testa, altre piatte e ricoperte di plasma fluorescente. C’è un tipo di squalo cieco e sordo, in grado di vivere più di cinquecento anni.»
La strada proseguiva su ripidi tornanti sempre più stretti, coperta dai detriti di un’antica morena glaciale. Mattia era troppo impegnato ad ascoltare la zia, per chiederle di fermarsi a far riposare i polpacci. Avrebbe voluto interromperla, domandare quanto mancava; e invece continuava a fissare le sue ginocchia. «Anche i calamari sono luminosi quaggiù, e quando vengono attaccati accendono tutti e otto i tentacoli. È probabile che qualcuno di loro abbia nuotato dentro questo stesso canalone. Per non parlare dei Capodogli, poi.» Fu in quel momento che il ragazzino si accorse che il rifugio si trovava a qualche centinaio di metri da loro, al di là dell’ennesimo specchio d’acqua. Dall’alto il sentiero scivolava nel vallone intorno a un piccolo lago, verde come le rocce che lo circondavano.
Si erano seduti sull’erba. La donna teneva lo zaino tra le gambe, frugava nella tasca interna alla ricerca del sacchetto con i panini. Lui fissava il terreno facendo scivolare un sasso liscio fra le dita, in attesa del pranzo. Il trilobite era nella tasca laterale dello zaino, insieme alla borraccia. Lei glielo aveva consegnato insieme all’acqua. Il corpo tripartito del piccolo invertebrato, era saldato nel calcare di qualche altra montagna. Mattia sapeva che non veniva dal suo sentiero, ma quel giorno decise di essersi guadagnato il diritto di un ritrovamento.
Prese il fossile, lo ripulì dalla polvere, chiuse i cassetti del letto e si avviò verso l’ingresso. La luce delle due camere infondo al corridoio era spenta, i suoi coinquilini non erano ancora rientrati. Di solito lasciava i messaggi scrivendo direttamente sulla vecchia carta da parati, di fianco la porta d’entrata. Questa volta strappò un pezzo di carta dalla busta di una bolletta del gas, l’appoggiò sul pesante comò in mogano, cercò una matita e scrisse in stampatello: ASSEMBLEA DI CONDOMINIO.