Una delle mie storie familiari preferite è questa: mondiali di calcio, Italia ’90, non so che partita. I miei invitano degli amici a casa, per guardarla tutti insieme. Mia madre prepara cosette da smangiucchiare durante la partita. Gli amici arrivano, si aprono le birre, si inizia a chiacchierare e inizia anche la partita. Al decimo minuto mio padre mangia qualche nocciolina, al dodicesimo prende un panino prosciutto, lattuga e sottiletta. La parte divertente è che mia madre aveva messo dentro le sottilette senza sbucciarle, con tutto l’incarto; delle volte mi rammarico di essere nata troppo tardi e di non aver avuto la possibilità di vedere, anche solo dalla culla, questi panini prosciutto, lattuga, formaggio scadente e sottile strato di plastica.
Ci penso mentre sto stendendo i panni dopo il terzo risciacquo: erano nella lavatrice da due giorni, non mi andava di tirarli fuori. Quando finisco torno nella mia stanza e la chiamo. «Ciao mamma, ti ricordi di quella volta che hai fatto i panini con le sottilette e non hai tolto la plastica?». Lei ride. «Mi ricordo. Ma come ti è tornata in mente? Ora tirerai fuori pure quella della lampada».
Anche quella è una bella storia. Stavamo traslocando, avevamo fatto mille pacchi ma alcune cose le mettevamo in macchina così come capitava. Arriviamo davanti quella che è ancora la nostra casa, apriamo il cofano, sopra le scatole due pupazzi – un orsacchiotto e un cinghiale – e l’abat-jour di mio fratello. La macchina era all’ombra, ma filtrava del sole dagli alberi e arrivava fino all’abat-jour. Mia madre la guarda e dice «Ma che stupidi, ci siamo dimenticati l’abat-jour accesa».
Da mia madre ho preso il taglio degli occhi, la noia per le feste comandate e la naturalezza con cui entrambe facciamo schiantare qualsiasi progetto personale dopo un iniziale entusiasmo: i maglioni fatti ai ferri che mi ha promesso e che ancora dormono nella cesta, in una busta verde, le tendine per la mia stanza che ho iniziato due anni fa e ho finito solo la prima, la volta quest’estate che ci siamo messe insieme a riordinare la libreria del salotto e abbiamo abbandonato dopo i primi due ripiani. Ho lasciato per strada invece le sue caviglie sottili e le dita affusolate – le mie sembrano delle piccole salsicce, anche se lei cerca di metterla in modo affettuoso dicendo che ho le mani da bambina.
Poi mi chiede come sto. «Bene», rispondo, anche se non è del tutto vero. Piove da ieri notte, sono annoiata, mi è presa una malinconia infinita ed è un periodo che ho questa paura di essere in ritardo con tutte le cose della mia vita: anche con gli hamburger che volevo mangiare stasera, erano nel congelatore e avrei dovuto tirarli fuori almeno un’oretta prima, ché sono le sette e sono ancora mezzi ghiacciati. «E tu?». Dice di star bene anche lei, ma credo poi non sia del tutto sincera neanche la sua risposta, perché anche lì ha piovuto tanto e sento di sottofondo il commissario Cordier, e vuol dire che si sta annoiando almeno quanto me.
Per una decina di minuti parliamo di cose a caso. Mi dice che avevo ragione, che quel libro che si è messa a leggere l’aveva già letto; lo fa sempre, prende i libri dalla libreria, mi chiama e dice «Ma questo? Tu te lo ricordi? Non credo di averlo letto», io le dico che l’ha già letto, il più delle volte senza convincerla. Dopo le prime venti pagine mi dà ragione, ma finisce comunque di rileggerlo. Mi dice che dalla finestra di camera mia ha ripreso a filtrare acqua e che ha messo una bacinella sul letto – è una mansarda, la finestra è sul soffitto e ogni anno la fanno rimpermeabilizzare, ma quella continua a perdere – e che ieri ha fatto una torta alle mele molto buona. Io le racconto della lavatrice che non avevo voglia di stendere e che ho cambiato il paralume del lampadario, rischiando di cadere due volte dalla scala ma riuscendo alla fine nell’impresa. Alla fine ci salutiamo e mettiamo giù.
Io vago ancora un po’ per casa, cambio il rotolo di carta igienica che era finito, chiudo il sacchetto dell’umido e lo poggio vicino alla porta. Mi siedo sul letto e faccio un cruciverba di quelli piccoli e facili che non danno nessuna soddisfazione.
Alle otto meno un quarto vado in cucina e metto una padella sul fuoco senza sapere cosa ci metterò dentro. Penso a un uovo, ma prima di romperlo, per scrupolo e senza convinzione, tocco l’hamburger, che mi stupisce: è morbido, si è scongelato. Lo metto in padella, sposto i barattoli di spezie per raggiungere il sale, che non so come faccia a finire sempre così in fondo, dietro al prezzemolo secco che non sa di niente e nessuno usa mai e alla curcuma scaduta quattro anni fa. Ne prendo un pizzico, guardo nella padella: ho lasciato sull’hamburger il dischetto di plastica che ci mettono sopra delle volte, ancora non ho ben capito perché. Sorrido.
•
in racconto