La fotografia era piena di luce. Era per via dei vestiti estivi, del muretto bianco su cui eravamo allineati, o il mare alle nostre spalle. Anche il cane marroncino chiaro, quasi giallo-ocra, era in perfetta armonia con il resto, e non sembrava finito lì per caso. La sua ombra, proiettata sul muretto dal sole abbagliante di luglio, era l’unico angolo di buio in tutta la scena.
In fila sul muretto, chi seduto, chi poggiato, c’eravamo: Alberto e la fidanzata di quell’estate, mi sembra si chiamasse Mara o forse Marta non mi ricordo. D’altronde sarebbe difficile ricordare i nomi di tutte le fidanzate che Alberto mi ha presentato in venti anni. Poi c’era Francesca. Era così bella. Forse quella è l’ultima fotografia scattata prima che la malattia la facesse invecchiare tanto in fretta. Quel fine settimana erano arrivati i suoi amici spagnoli, ti ricordi? C’erano anche loro, seduti uno di qua e uno di là, a stringere Francesca in un abbraccio. Poi c’eravamo noi due, tu eri seduta sul muretto con le gambe incrociate, la testa un po’ girata per guardarmi e quel sorriso dolce che ti ho visto tante volte. Lo stesso sorriso lo avevi la mattina dopo, quando gli altri sono andati via e io ho acceso il computer. Lo sapevi che qualcuno (forse proprio te?), aveva messo quella fotografia come sfondo del desktop per farmi una sorpresa. Ero stato contento di trovarla lì, dove è ancora, anche se nel tempo sono cambiate tante cose.
La prima a sparire è stata Francesca, pochi giorni dopo il suo funerale. Mi faceva così male vederla che ti ho chiesto se con Photoshop si può cancellare un pezzo di una fotografia senza lasciare un buco. «Se lo sfondo è omogeneo, puoi copiarne una parte e sovrapporla allo spazio che rimane vuoto», mi hai risposto. Ti eri appena svegliata da una notte pesante in cui ti avevo sentito girarti nel letto tante volte, e certo non hai pensato che lo spazio vuoto era quello occupato da Francesca, stretta nell’abbraccio dei suoi amici. Loro sembravano non avere più un braccio, uno a testa, spariti insieme a Francesca. Quando ti ho domandato come si poteva usare Photoshop per aggiungere un braccio, hai capito. Non so come hai fatto, ma hai capito. Sei andata alla scrivania, hai acceso il computer e quando hai visto quel buco lì in mezzo mi hai rivolto uno sguardo duro, come se la tua dolcezza fosse sparita all’improvviso, e sei uscita dalla stanza sbattendo la porta. Ti ho visto piangere in giardino, sulla roccia tra il fico d’india e l’albero di mele cotogne dove te e Francesca vi sedevate a parlavate fitto. Non avevi mai pianto prima, durante la sua malattia, in ospedale o il giorno del funerale quando piangevano tutti, tranne io e te. A volte, prima di allora, avevo pensato che se ti avessi visto piangere lo avrei fatto anch’io, ma non è stato così. A guardarti sulla roccia mi sono sentito lontanissimo, e il dolore che mi portavo dentro si è dissolto come la nebbia al mattino. Ricordo di aver pensato che era piuttosto insolito vedere insieme un fico d’india e un melo, e che avrei dovuto potarlo il melo, perché presto avrebbe iniziato a perdere le foglie.
Poi sono tornato al computer. Mi dava fastidio sapere che era rimasto acceso quando nessuno lo stava utilizzando. Spegnerlo era diventato di fondamentale importanza in quel momento. Ma un attimo prima di cliccare su arresta il sistema ho guardato ancora una volta l’immagine, e gli spagnoli monchi. Ridicoli, erano ridicoli.
Ho passato tutta la notte a cancellare gli spagnoli, era più facile che ricostruirgli le braccia, e in fondo che ci facevano loro nella fotografia dato che Francesca non c’era più? Un lavoro ben fatto, non puoi negarlo. Ho preso pezzetti di mare alle nostre spalle e li ho copiati al posto delle due teste, i due busti e le due braccia rimaste. Poi ho cercato un tutorial per imparare a ricostruire i pezzi mancanti e così ho aggiunto un pezzo del braccio di Marta, o Mara, che era rimasto scoperto dopo la scomparsa dello spagnolo di sinistra. Per farlo ho allargato l’immagine e ho copiato centimetro per centimetro, o forse millimetro per millimetro la sua maglietta. Per fortuna era di un bianco uniforme, a manica lunga, una di quelle magliette di lino, estive leggere, ti ricordi? così mi è stato più facile ricostruire il bordo con il blu del mare. Ho ricostruito la linea orizzontale del muretto nel punto in cui erano seduti gli spagnoli. E infine il muretto al posto delle gambe. Questo è stato più facile, perché era tutto bianco. Quando ho finito, stava albeggiando e sono andato a dormire sereno sebbene tu non ti fossi raccolta tra le mie braccia come facevi ogni volta che mi sdraiavo accanto a te.
Trascorremmo l’inverno nella casa al mare, le giornate erano fredde. A volte, il vento spazzava via le nuvole lasciando un cielo azzurro e immobile, come congelato. Tu non sembravi triste, ma diversa sì, anche se non so dire bene in cosa eri diversa. Forse era cambiato il tuo sorriso, e anche il tuo sguardo a tratti, era congelato. Ti sentivo sfuggire, ma forse ero io a farlo quando stavo nell’orto per ore a guardare i cavolfiori, o andavo a pescare, o mi dedicavo a qualunque altra attività che escludeva la tua presenza. Però poi le sere le trascorrevamo insieme. Ci sedevamo sulle poltrone davanti al camino, in silenzio. Io sfogliavo i miei libri sui frattali, tu leggevi Anna Karenina e ogni tanto ti sentivo tirare su con il naso. Ti ricordi il giorno che ci fu la mareggiata? Tu guardavi il mare dalla finestra piccola della cucina e io mi ero rifugiato nello studio. La sera il vento si era calmato, sembrava essere tornata una certa pace e tu mi hai detto: «Non puoi fare così» con un filo di voce. «Cosi come?» ti ho chiesto. Sei tornata con lo sguardo sul libro, scuotendo la testa.
Alberto veniva a trovarci di tanto in tanto, accompagnato ogni volta da una nuova fidanzata. Dalla primavera successiva iniziò a venire tutti i fine settimana, ma da solo. Un giorno l’ho sentito dirti che era stanco di cambiare e credo che ti abbia spiegato il perché in una delle vostre passeggiate fino al promontorio. Raramente io mi univo a voi, e quando lo facevo, camminavo a testa bassa, non parlavo e trascinavo anche voi nel mio cupo silenzio. Se invece uscivate da soli, tornavate carichi di fiori ed erbe officinali, parlando sempre di qualcosa di nuovo e interessante. Tra l’invidia e lo stupore mi domandavo come riuscivate a trovare lo spunto per tanti argomenti di conversazione.
Fu proprio durante una delle vostre passeggiate che ricominciai a lavorare sulla fotografia. Ora che non ci sono più donne nella vita di Alberto devo togliere la fidanzata di quell’estate, mi dicevo. Ma il motivo vero era un altro. Lavorare sulla fotografia mi aiutava a non pensare a Francesca, o a te con Alberto. Concentrare l’attenzione sui piccoli quadratini colorati che compongono l’immagine mi distaccava dal dolore. E poi cancellare i dettagli del passato mi aiutava a controllarlo, sentivo che in qualche modo avevo il potere di cambiarlo. Così alla fine dell’estate nella fotografia rimaneva Alberto, poi lo spazio vuoto, tu, io e sul marciapiede con la sua aria serena e indifferente, il cane giallo. A quel punto l’immagine era coerente con la realtà, eppure c’era ancora qualcosa che stonava, ma io non capivo cosa.
Un lunedì sei tornata in città per consegnare un lavoro, e poi hai deciso di trattenerti lì qualche giorno. Era trascorsa più di una settimana quando mi hai telefonato, con una voce frizzante mi hai detto che saresti tornata il giorno dopo e mi hai chiesto di venire a prenderti alla stazione, il treno del pomeriggio, quello delle cinque e un quarto. Quando ho puntualizzato che il treno arriva alle 17.13 non a un quarto, e che è importante essere precisi, hai iniziato a innervosirti, hai commentato qualcosa stizzita, poi riagganciato il telefono, senza salutarmi.
Il giorno seguente ho deciso di fare un giro in bici fino alla vetta del promontorio, prima di venire a prenderti in stazione. Il cielo era grigio, l’aria era fredda. Ero a metà salita quando ha iniziato a piovere, ma io ho continuato a pedalare con l’ostinata convinzione che avrebbe smesso presto. Invece la pioggia è aumentata: era molto forte quando sono arrivato in cima e mi sono fermato per riprendere fiato. Sentivo le gocce pesanti rimbombare sul cappuccio del k-way, insieme al suono amplificato del mio respiro affannato. Nel bel mezzo di questo concerto di toc-toc-hhh-hhh è comparso nella mia testa il pensiero improvviso che tu non fossi su quel treno. Il giorno prima avevi riagganciato il telefono bruscamente, eri di nuovo arrabbiata con me, e forse non avevi più voglia di tornare. Ho sentito una stretta allo stomaco, poi il cuore ha iniziato a pompare forte, il sangue è salito alla testa e ha pulsato forte nelle tempie. Volevo scappare via da quella brutta sensazione. Ma scappare dove?
Ho spinto forte il piede sul pedale, e mi sono lanciato nella discesa. Il vento ha spostato indietro il cappuccio del k-way, e la pioggia ha iniziato a battermi forte sugli occhi. Pedalavo a vuoto, perché la forza di gravità era maggiore della mia spinta sui pedali. Andavo veloce, il vento mi fischiava nelle orecchie ed ero consapevole di correre il rischio di cadere, ma la discesa era una specie di calamita e ho scacciato via la paura come un attimo prima avevo fatto con la stretta allo stomaco. Quando sono arrivato in fondo al pendio, ho svoltato a sinistra per entrare nel vialetto che riporta al paese. Devo aver spinto istintivamente le dita su un freno, o sull’altro, o su entrambi non lo so non ricordo ma qualcosa di sbagliato devo averla fatta perché la ruota davanti si è piantata, quella dietro è scivolata, e io sono caduto rovinosamente sul fianco.
Mi sono ritrovato come una busta di plastica buttata lì, sulla terra fangosa, con il corpo allungato in una posizione innaturale e ridicola. Sono rimasto così, immobile, a guardare un punto indefinito di uno scoglio finché il suono della campana del paese mi ha riportato alla realtà. Cinque rintocchi forti. «Tra poco arriva il treno» ho detto ad alta voce, ma ormai la convinzione che tu non fossi a bordo di quel treno aveva occupato la totalità dei miei pensieri. Continuavo a guardare lo stesso punto indefinito dello scoglio, quando ho visto un granchio piccolo, grigio, con i puntini rossi sul dorso. L’ho notato perché si è mosso all’improvviso, anche se era sempre stato nel punto in cui io stavo guardando. Ho continuato a fissarlo, ammaliato dalle gesta epiche per difendere il suo territorio dall’invasione di altri granchi che di tanto in tanto facevano capolino.
Era già tramontato il sole e il cielo era in quel momento di blu cobalto, quando sono tronato a casa. Entrando ho visto i nostri vicini, ho pensato fossero venuti per un caffè ma poi ho capito dalle vostre parole di sollievo che eravate in ansia per me. Quando hai visto sui miei vestiti le tracce evidenti della stupida caduta mi hai chiesto: «Che cosa è successo?». «Mi sono fermato a guardare un granchio» ti ho risposto. «Un granchio» hai ripetuto allibita. Poi hai aggiunto «Ero preoccupata, perché non mi hai avvertito che non saresti venuto?». «Non lo so» ho sussurrato. A giudicare dalla tua faccia, di certo non avevi previsto una risposta così ovvia.
Ti ho sentito scusarti con i vicini mentre li accompagnavi sul vialetto. Poi sei rientrata in casa, mi sei passata accanto senza guardarmi, e ti sei chiusa in camera.
Alle prime piogge autunnali mi hai detto che non ti andava di trascorrere un altro inverno al mare e hai deciso di tornare in città. Io avevo appena seminato spinaci, barbabietole e radicchio nell’orto, e ci tenevo a vederli crescere, così ho deciso di rimanere. Nel frattempo avevo imparato a ritagliare un’intera figura con Photoshop: l’ho usata per spostare la tua esile silhouette a sinistra, vicino ad Alberto. La tua testa era ancora girata in un punto indefinito verso di me, ma ora che lo spazio vuoto era tra noi due capivo finalmente cosa era a stonare nella versione precedente. Mi sentivo sereno come mai prima.
Lo scorso Natale tu e Alberto siete partiti per un viaggio insieme. Quando mi avete chiamato da chissà dove non ho risposto al telefono. Ho sentito il vostro messaggio vocale mentre ero intento a cancellarvi dalla fotografia. A questo punto rimanevamo io e il cane giallo.
Non so perché, ma solo allora mi è tornato in mente ciò che avevi detto andando via. Avevi parlato del fatto che le persone che amiamo rimangono dentro di noi, anche quando non ci sono più. Avevi detto che siamo come dei mosaici in cui ogni tassello è un gesto, un sorriso o una parola delle persone che abbiamo incontrato nella vita. O insomma, qualcosa del genere.
Ieri sera ho capito che bisognava togliere anche il cane. Lui in quella fotografia era il più clandestino di tutti. Era davvero lì per caso quando il passante gentile aveva scattato. Ormai ho una certa confidenza con Photoshop, ho cancellato il cane mentre aspettavo gli undici minuti di cottura della pasta. Forse perché era stato tutto così veloce mi sembrava di aver fatto il lavoro a metà. Dopo cena sono tornato al computer e ho speso un’altra notte serena a rifinire i dettagli. Al massimo ingrandimento ho sistemato tutti i bordi imprecisi tra le onde del mare originali e quelle posticce. A un windsurf in lontananza replicato due volte ho cambiato il colore della vela così non si capiva che era una copia. Per un attimo ho pensato che allargando lo zoom avrei potuto definire il costume del surfista e cambiare anche quello. Ma poi mi sono detto che forse stavo un po’ esagerando e ho capito che la mia opera aveva finalmente raggiunto il suo compimento.
Ho dormito come un bambino fino a tardi. E come un bambino il giorno di Natale eccitato per la curiosità di vedere i nuovi regali, questa mattina mi sono alzato e sono tornato di corsa al computer. Quando l’ho acceso la fotografia era pulita. Il muro bianco, il mare blu, i due windsurf in lontananza, niente altro. Neanche io. Era rimasta solo l’ombra del cane proiettata sul muretto.