Il matrimonio di Gemma

Come un peluche su una poltrona, Gemma si lascia fare tutto.
La cugina le spolvera il seno di cipria. «Oggi il trucco pure qui» le dice, mentre Gemma ride. In quel punto del corpo non è abituata al solletico, ma alle smanie del suo uomo. Armando per lavoro impasta cemento; per diletto, nei pochi momenti che ha a disposizione, i suoi seni. Li stringe come fossero panetti lievitati, e li impolvera con i resti della calce che gli rimane sulle dita. A Gemma piace, e lo lascia giocare a fare il pizzaiolo di quelle curve che però Armando può condire solo con baci e carezze. Per mangiarsi Gemma, il suo piatto preferito, deve aspettare il matrimonio: lei vuole così, perché suo padre vuole così.
«Ma io ti amo» le dice durante la pausa pranzo quando la ragazza va a trovarlo. I baci al sapore di panino al prosciutto non si trasformano mai in nient’altro, e Armando le poggia la testa sul maglione.
«Manca poco» lo rassicura lei accarezzandogli la chioma, sporca di polvere di cantiere – e bianca – perché Armando ha cinquant’anni, il doppio dei suoi anni.
Quando l’uomo poi, le infila il naso nella fessura dei seni per sentirne l’odore, Gemma gli entra nei pensieri. Sa di essere l’immagine che lo accompagna durante il lavoro. Armando sfonda intonaci, e quando i muri cadono nella stanza accanto vede lei. Nel prendere gli arnesi, la maglietta gli si sfila dai pantaloni e pensa a lei che lo abbraccia da dietro per scaldargli i reni. Quante volte mi avrà immaginato su di lui, pensa Gemma, avvertendo il vigore che ora Armando le fa sentire sulla pancia, e che tanto vorrebbe scendere giù.
Avvampata da quelle riflessioni, si guarda allo specchio e si piace. La peluria ai lati delle orecchie si vede pochissimo, il neo sul mento pure. Sorride. Ogni strato di trucco sembra partecipare alla sua felicità. Continua a ridere al fotografo e ai parenti. «Sono carina?» dice alla sorellina che la guarda a bocca aperta.
Sorride poi all’autista quando le apre lo sportello. Gemma solleva la gonna e nell’entrare in macchina si dà una leggera spinta. Lo strascico la intralcia nei movimenti, e lei si ribalta sul sedile. È goffa, e non per colpa dell’abito voluminoso, ma perché lei, voluminosa, lo è sempre stata.
Il padre sale in macchina subito dopo. Mentre la figlia è ancora scomposta nel tulle, le nota la giarrettiera che, come un laccio emostatico, le stringe la coscia. L’uomo corruga la fronte. Gemma, in bilico sul sedile, si copre all’istante. Sa a cosa il padre sta pensando. Nell’espressione torva del suo volto c’è il disappunto di avere una figlia grassa e brutta, e per giunta con indosso biancheria sexy.
Ho aspettato papà, come tu volevi. T’infastidisce pensarmi con Armando? Lui mi ama, e mi sfilerà il reggicalze per liberare le sue pulsioni su di me. Con questa idea nella mente, Gemma si mette comoda sul sedile e ritorna a sorridere. Durante il percorso verso la chiesa guarda avanti e a sinistra. Evita di incrociare lo sguardo dell’uomo che le è accanto: sa che non troverà il suo stesso sorriso, ma una faccia spenta; ferma forse all’immagine di poco prima: quando Gemma ha mangiato incurante del rossetto la sfogliatella, che le ha sporcato il decollette di zucchero a velo facendo sorridere tutti, tranne lui.
Procede ora verso l’altare, col petto non più ricoperto di zucchero, ma solo di velo: un leggero strato di pizzo da cui s’intravedono i brillantini del trucco. Armando all’altare è al buio. Il seno di Gemma brilla di cipria, e a ogni passo sembra portare luce al suo uomo. La scollatura mostra di poco le forme generose, quel tanto che basta per non tentare il prete e non indispettire Gesù sulla croce, ma per far felice Armando che diventerà rosso nel guardarla.
Non è tutto seno quello che le spunta dalla scollatura. È seno con la ciccia intorno. con una taglia 42 sarebbe entrato in una coppa di champagne ma Gemma con una taglia 54 riempie un boccale. Ma quanto piace ad Armando accompagnare la pizza con la birra; da bere calda, fredda, non importa. Purché strabordi dal reggiseno con tutto il luppolo.
Cosa penseranno di me? Gemma ce l’ha con gli invitati che la guardano percorrere la navata. Immagineranno la mia notte di nozze? Come farà lo sposo con lei sopra?
I parenti invece le sorridono, alcuni battono le mani nel vederla. Legge i labiali: «Sei bellissima» le dice la mamma, così come la zia e tutto il fronte che le vuole bene.
Se lei è grassa, Armando è vecchio: la loro unione accontenta tutti, persino suo padre.
Evita ancora gli occhi dell’uomo, intreccia il suo braccio nel suo, ma non si sente sorretta. Sono solo i tessuti a far contatto tra loro, cotone con cotone, pizzo su seta, ma la carne nelle maniche si tiene a distanza. Come distante è ancora lo sguardo del padre; forse – pensa Gemma – rimpiange di non essere sul divano a guardare la tv.
L’uomo è serio, avanza osservando le persone intorno. Spera non sia arrivato nessuno estraneo alla famiglia a curiosare nel suo mondo. Custode di un grande palazzo è abituato a farsi gli affari degli altri, ma non vuole che gli altri entrino nei suoi, soprattutto se le cose che ha da mostrare non gli piacciono, come sua figlia: venticinque anni che moltiplicati per sei, fanno 150 chili.
Diverse sono le equivalenze che l’uomo vede nel suo lavoro: tutte hanno le stesse unità di misura. Bello con bello, ricco con ricco e artista con artista. E lui ama quei risultati così perfetti, senza sforzi di calcoli e perché.
Armando sull’altare sussulta appena Gemma gli si mette accanto. Il padre della sposa invece, con gli occhi bassi per non inciampare sul tappeto, raggiunge il suo posto in prima fila. Non sente quello che Armando dice alla ragazza: «Sei stupenda.»
C’era un tempo in cui anche lui lo pensava di sua figlia. A sei anni Gemma era magra. A sei anni era brava a scuola. Dieci, erano i voti che prendeva sulle paginette di a e o. Dieci, sulle paginette di puntini e cerchietti.
«Come sei brava amore, diventerai qualcuno» gli diceva il padre fiero di lei.
Ma dalle vocali poi, Gemma era passata alle consonanti, e dai riassunti alle analisi logiche. E quando le guance paffute le erano rimaste paffute anche dopo lo sviluppo, e i brufoli arredavano il suo volto insieme agli occhiali e all’apparecchio per i denti – all’aumentare delle taglie dei pantaloni – diminuiva l’aspettativa del padre nei suoi confronti. Gemma cambiava, come le persone che l’uomo vedeva a lavoro: anche loro crescevano, ma sempre e solo in meglio. Da ricchi a più ricchi, da quadri a dirigenti, dalla vacanza a New York dell’anno prima, al mese alle Fiji dell’anno dopo. La Roma bene gli passava davanti tutto il giorno, indossava stivali da equitazione e apriva cavalletti. Col violoncello a tracolla o la ventiquattrore in mano. Con gli acquisti nelle buste di carta e i cappotti fino ai piedi.
«Buongiorno. Buonasera» questo era quello che diceva durante il turno; insieme ai “sì” delle richieste che mai, né lui né nessuno della sua famiglia, avrebbe potuto avanzare: «Luigi, mi sposti la Maserati?»
«Mia figlia aspetta un pacco importante, avvisami appena arriva il corriere.»
«Conosci qualcuno di fidato per fare le pulizie?»
Sì, mia figlia, pensava, ma senza dirlo. «M’informo», diceva invece. Poi tornava a casa a non parlare più.
Papà, io sono un piatto di spaghetti. Perché vuoi che io sia caviale, se neanche ti piace. Si chiedeva Gemma quando lo guardava mangiare. E lo pensa anche ora, mentre il prete prepara l’omelia si volta verso il genitore. Fammi questo regalo, papà; guardami come mi guardavi a sei anni. L’uomo invece fissa l’ora. Sono le dodici e mezza. Avrai fame, sei abituato a mangiare presto, pensa Gemma. Che ti tocca fare eh? Povero il tuo stomaco che deve aspettare.
La sorellina Miriam, vicino al padre, le fa ciao con la mano. Da piatto prelibato, anche lei si sta trasformando in pasta incollata. Ha sette anni e i segni della trasformazione in corso. Verrai a stare da me, piccolina. Se avrai bisogno la mia porta è sempre aperta, pensa, e le ricambia il saluto con un bacio.
«Amen» dice Armando alzando la voce e dando una leggera gomitata a Gemma per riportarla con la mente al loro matrimonio.
«Amen» segue lei imbarazzata, e rossa in volto, sorride al prete e al suo uomo. Armando si era innamorato di lei da subito. Nel condominio che ristrutturava con la sua squadra, la vedeva pulire le scale e stendere il bucato in terrazzo. Che dolce che era, quando timida, portava loro il caffè nel termos.
«Ti porto io le buste della spesa» le aveva detto un giorno.
«Te le porto io anche oggi» le aveva detto il giorno dopo.
E ora? Tra poco avrebbe portato tutta lei in braccio, nella loro casa; per costruire con i mattoni del suo corpo un forno a cupola in cui infilarsi dentro.
Il momento è arrivato. Con le braccia intorno alla vita della ragazza, Armando forma un terzo anello oltre ai due che ora hanno al dito. Gemma è sua. Finalmente.
Dopo di lui, tutti vogliono baciare la sposa. «Auguri. Felicità. Figli maschi.» Quello che la coppia si sente dire. «Congratulazioni» è una voce sconosciuta che proviene alle spalle di Gemma. La ragazza, curiosa, si volta a vedere a chi appartiene. La baronessa De Carolis è venuta al matrimonio per conoscere di persona gli sposi. Il padre con la fronte corrugata per l’imbarazzo è al fianco di quella donna.
«Come è bella tua figlia, Luigi. Non ce l’hai mai fatta vedere» dice la nobile.
«Che bella famiglia che hai» continua. Gemma sa che dietro alle parole possono nascondersi bugie, ma negli occhi della donna vede solo sincerità. Anche il padre deve averci letto le stesse cose e una nuova espressione compare sul suo volto. È preoccupato. Teme che la figlia gli faccia fare brutta figura, che possa dire qualcosa in dialetto.
«Grazie» risponde lei. E come una bambina di sei anni che ricorda la battuta della recita, libera dalla tensione il genitore. L’uomo si rilassa e le sorride. Brava, sembra dirle ora con gli occhi.
Finché morte non ci separi. È quello che gli dice Gemma nel suo sorriso.