La volpe

Le strade erano silenziose, le nuvole dei nostri respiri si condensavano nell’aria della sera, camminavamo fianco a fianco, sottobraccio. L’ho vista attraversare il vicolo e infilarsi in un bidone viola.

«L’hai vista?» ho bisbigliato con una voce così bassa che sembrava non mia.
«Chi?»
Lui era abituato a vedere le volpi ad Hammersmith.
Vedere una volpe sgusciare per le strade di quella città era più comune di quanto non capitasse nelle murge dove ero cresciuta, dove ne avevo vista una per la prima volta, molti anni prima.
Quel lampo rosso nell’aria lattiginosa mi era sembrato un segno. In quell’autunno da bambina, tra gli arbusti che crescevano intorno alla tenuta, avevo adocchiato il topo campagnolo, il corvo, il tasso. La volpe no. Mio padre mi aveva detto che era astuta: che non si avvicinava agli umani.
Disegnavo volpi su un taccuino di fogli gialli che avevo comperato alla Fiera del Levante: mi piaceva la grana, liscia e compatta, ma soprattutto il giallo pallido che mi ricordava la stessa tonalità della crema che preparava mia madre, con mezzo limone dentro.
Era un pomeriggio caldo quando la vidi defilarsi tra i rovi della murgia: tagliò in diagonale il pendio dei sassi. Svelta, la coda vistosa, il pelo rosso acceso.
Non mi mossi. Per molto tempo aspettai che facesse la via a ritroso. Che ricomparisse.
Mi richiamarono in casa a gran voce, dal punto più alto della masseria e dovetti rientrare.
La casa di Hammersmith aveva una porta di legno, celeste polvere, con un batacchio lucido come le dimore risorgimentali italiane.
«Aspetta» ho detto. «Voglio rivedere la volpe.»
Siamo tornati indietro verso il vicolo in cui l’avevamo vista sparire, quatta e silenziosa.
Le mani infilate nelle tasche dei cappotti, attenti a non fare rumore.

L’ha mostrato anche Akira Kurosawa: secondo una leggenda giapponese quando piove e c’è il sole, le volpi si sposano. Ho sempre trovato strano che nella murgia pugliese si tramandasse la stessa leggenda: che valesse nonostante così tante miglia di lontananza.
Avevo visto la volpe in una giornata in cui piovigginava e in cui, splendeva il sole. Si era fermata vicino a un albero, su un pendio, dove probabilmente aveva scavato la sua tana.
Forse aveva dei cuccioli: piccoli lampi rossi. Col suo stesso sguardo.
Nei giorni successivi tornai a passeggiare nel retro della tenuta dei miei nonni.
Le giornate diventavano sempre più corte e umide.
L’albero più curvo e dal tronco nodoso si ergeva come una sentinella su quello che per me rappresentava una X sulla mappa di un tesoro.
Mi avvicinai: scavalcai piante spinose, funghi violacei, zolle di terra bagnata. La tana della volpe era poco più di un buco, scura. Tra me e quell’anfratto misi una distanza di sicurezza. Un millimetro. Sentivo l’odore dell’animale: un misto di fango e di semi di girasole, di cenere e di polvere, di erba e di sassi acquosi. Non c’erano suoni.
Mi sporsi ancora più vicino, piegandomi sulle ginocchia.
Gli occhi della volpe rilucevano nella cavità buia.
Ci guardammo.

«Se la volpe si è fatta vedere da te sei una predestinata» mi ripeté mio padre.
Predestinata. Cosa voleva dire quella parola?
Preferita? Destinata a qualcosa? E a cosa?
La verità era che quella frase di mio padre mi sembrava avesse il sapore di una promessa.
Adesso che io e la volpe ci eravamo guardate negli occhi, potevo esprimere qualunque desiderio.

Adesso che nel giorno del suo matrimonio con una volpe maschio io ero stata presente nello scenario brullo della murgia, potevo scrivere racconti di fortezze e di tesori, di fate che si lavano la faccia con la rugiada del mattino.
Nei giorni che seguirono piovve di continuo.
Non potevo andare in campagna.
Restavo a casa controllando il cielo dalla finestra della mia stanza: non appena sarebbero tornate delle giornate più soleggiate, mi sarei fatta accompagnare immediatamente alla tenuta dei miei nonni.
Il giorno del ritorno alla murgia arrivò.
Indossai gli stivali da pioggia: il terreno era umido e gonfio e bisognava camminare con attenzione.
Avanzai svelta, verso la tana della volpe.
Ma lo scenario sul pendio dell’albero era diverso da come lo avevo visto. La tana della volpe era stata cancellata dall’acqua delle giornate precedenti: forse si era riempita di pioggia, la volpe era scappata con la volpe maschio.
Non l’avevo più rivista: fino a quella sera con le luci fosforescenti e le nubi bluastre di Londra.
Alla vigilia di un matrimonio: il mio.
I miei genitori non erano stati in accordo: al sud quando una figlia si sposa si stappa il vino buono e si tengono proclami con tutto il vicinato. I miei mi avevano detto che cambiare città, lavoro e affetti per sposarmi con uno che conoscevo poco, non era il passo giusto.
Avevano usato questa parola: il passo.
Ma io di passi non ne avevo mai fatti. Credo che la distruzione della tana della volpe abbia creato un regolatore interno. Un malumore mi avvertiva ogni volta che prendevo la strada sbagliata, e se continuava ad essere onesta e aperta, e fare ciò che la mia coscienza mi prescriveva, tutto andava bene. Avevo sacrificato la mia predisposizione artistica per lavorare in un ufficio del Comune, a due passi da casa, avevo fatto l’università come un treno, avevo gli stessi amici di sempre.

«Torniamo a casa» mi ha detto lui. La volpe era sparita chissà dove, tra i vicoli e gli edifici del quartiere. Abbiamo camminato, senza dire niente. Il portone celeste era bagnato di brina.
Mi sono voltata verso la strada mentre lui lo apriva.
Avevo sognato? avevo davvero rivisto la volpe?
La mattina dopo affacciandomi alla finestra avevo visto il sole e la pioggia, insieme.