Il bianco del soffitto

Quando Marta serve le colazioni nella piccola locanda in cui lavora come cameriera, l’odore del latte caldo le provoca i conati di vomito; con una secca contrazione dei muscoli faringei ha imparato a respingerli così in fretta dentro la pancia che non hanno neppure il tempo di manifestarsi in un ributtante gesto visibile all’esterno.
Ci sono cinque camere, undici posti letto in tutto, nella piccola locanda che non ha mai avuto un nome: si chiama semplicemente Locanda ed è l’unica nel paese in cui vive Marta.
Il paese, secondo l’ultimo censimento, conta duemila abitanti e gli abitanti, in un modo o nell’altro, si conoscono tutti; tra di loro sono figli, madri, padri, fratelli, cugini, nipoti, compari di battesimo e cresima, anche se ci sono poche cresime e rarissimi battesimi.
Ci sono più madri e padri che figli: molti figli hanno scelto di acquistare col mutuo una casa lontano dai propri genitori.

Marta tiene sempre i capelli legati in una treccia quando lavora e un mutuo non l’ha mai acceso.
Vive nella sua vecchia cameretta, anche se ha tolto i poster dalle pareti e ha sostituito il letto singolo con uno matrimoniale.
Sta assieme a Gino da almeno sei anni, si conoscono da quando hanno memoria e non essere parenti è stata una botta di culo; non si dicono mai parole d’amore, ma almeno, in case separate, si vogliono bene e quando si vedono si piacciono ancora.
Marta qualche volta pensa che l’amore è un atto di fede, lei non ha mai perso tempo dietro alla fede e Gino non è diventata un’eccezione.
Nella recita dell’oratorio le hanno più volte assegnato il ruolo della Madonna, mentre Gino ha interpretato Giuseppe in un unico natale e con esiti disastrosi; dopo quella volta il suo impegno è stato dirottato verso lavori manuali di allestimento della natività, come la realizzazione della capanna e della stella cometa.
Poi entrambi sono cresciuti senza particolare predilezione per le discipline artistiche.
Forse non è neppure un atto di fede l’amore, quanto piuttosto un talento, un’oscillazione continua tra il vigore e l’indolenza e la scelta di un punto, nel mezzo, in cui collocarsi, provando a scampare i colpi dell’una o dell’altra condizione: Marta non lo sa.

La Locanda è affollata per caso: non ci sono prenotazioni o turisti nel paese in cui vive Marta, solo persone di passaggio troppo stanche per proseguire senza prima una sosta.
C’è una coppia abituale che soggiorna nella Locanda almeno un paio di volte al mese.
Lei è una donna silenziosa: entra nella locanda, saluta e chiede di poter alloggiare nella solita stanza che è sempre libera; da lì in poi risponde solo a monosillabi e non fa mai richieste al personale.
Lui, forse, è un uomo muto, Marta non ha mai sentito il suono della sua voce.
Forse non esiste e Marta lo ha solo immaginato, nel farlo però si è dimenticata di dargli una voce.
Gli arredi della locanda sono gli stessi da trent’anni e anche se è pulita e in ordine puzza di vecchio. Però è un posto sicuro e al personale viene insegnata solo l’importanza della sicurezza nel posto di lavoro, per questo Marta non ha mai provato a immaginare nient’altro della coppia.
Oppure c’è dell’altro, per Marta l’immaginazione è un corpo estraneo da espellere e la risposta del suo sistema immunitario è una scienza in grado di reagire in pochi secondi.

Il personale della locanda sono Marta e Alberto che sono pure cugini. Il proprietario della locanda, Antonio, fa pure il sindaco del paese, vive con sua moglie all’ultimo piano. Sua moglie fa pure la cuoca nella locanda. La locanda funziona pure come tavola calda e fa buoni affari con gli avventori affamati.
Il moto rotatorio terrestre nel paese dove vive Marta si dispiega più o meno così: attraverso un movimento circolare di azioni che percorrono la medesima traiettoria, si ripetono, si sovrappongono, sono le stesse.
Il patto tacito tra gli abitanti del paese è quello di non sfidare la forza centripeta della consuetudine.
Chiunque abbia avuto un impeto o un desiderio differente è andato via senza clamore.
Il paese dove vive Marta è un sistema semplice da abitare.

Marta lavora dalle sette del mattino alle cinque del pomeriggio con una pausa di un’ora.
Raggiunge la locanda in bicicletta anche quando piove; a casa però ci torna a piedi.
Alla bicicletta ci pensa Gino, qualche volta la riaccompagna a casa senza nemmeno fermarsi a salutare Marta: la sistema nel cortile nel posto dove deve stare.
Marta ha paura ad andare in bicicletta dopo una giornata intera di lavoro, una volta le sono crollate le gambe, è caduta dalla bicicletta, si è rotta un braccio. Ha deciso che sbattere a terra da fermi è meno pericoloso e questo è tutto quello che ha concluso sulla legge di gravità.
Gino non ha trovato le parole per affrontare neppure questa questione e così Marta trova sempre la sua bicicletta parcheggiata nel cortile.
La trasmissione dell’intimità tra Marta e Gino si dichiara più o meno così: attraverso una bicicletta che torna sempre nel cortile di casa quando è sera.
Il patto tacito tra Marta e Gino è quello di non oltrepassare la misura.
Chiunque dei due dovesse avere un impeto o un desiderio differente andrà via senza collera.
La relazione tra Marta e Gino è un sistema semplice da mantenere.

A Marta piace fissare il soffitto della sua cameretta prima di addormentarsi, forse è la sua attività preferita.
Sul comodino ha lo stesso libro da almeno un anno, il segnalibro è schiacciato tra le pagine trentotto e trentanove: per Marta leggere è una perdita di tempo, come la fede, e nessun libro ha mai fatto eccezione.
Quando rimane con gli occhi puntati sul bianco del soffitto pensa che l’inchiostro nero sulle pagine sia un’oscenità. Anche la saliva quando non serve per baciarsi è un elemento superfluo.
Se si potesse trasformare le giornate trascorse a fissare il colore bianco delle pareti, o del cielo quando ci sono le nuvole, o della sclera dei bulbi oculari di Gino in un’attività produttiva, Marta avrebbe scelto questo mestiere; invece fa la cameriera e del bianco l’unica cosa che non sopporta è l’odore del latte caldo. In fondo, però, il suo lavoro è un posto sicuro e questo le sta bene.
Forse non è neppure una perdita di tempo leggere, quanto piuttosto uno slancio ostinato verso la ricerca di una precisione lessicale per descrivere le cose, un esercizio di sostegno attraverso altri occhi e altri mani che vedono per primi. Ma per Marta le cose non hanno bisogno di spiegazione, o di puntualità.

Marta ha la sveglia alle sei e quindici del mattino tutti i giorni tranne uno.
In quell’unico giorno, il suo giorno di riposo dalla Locanda, apre gli occhi con la luce che filtra dalla finestra, di solito a metà mattinata. La bicicletta è al suo posto nel cortile.
Nel giorno di riposo dalla Locanda, Marta pedala sempre verso il fiume, nel cestino della bicicletta ci sono due mele, una bottiglia d’acqua e una coperta a quadri blu e rossa.
Il fiume separa Marta e il paese dal resto che non è né Marta né il paese nel quale vive e che per questo non le riguarda.
Quando era piccola al fiume non ci voleva mai andare, le procurava una fitta pungente lungo la colonna vertebrale pensare che le sarebbe bastato guadare un corso d’acqua per ritrovarsi dalla parte opposta. A volte si metteva paura anche solo a guardare oltre la sponda alla quale apparteneva.
Poi col tempo si era abituata all’idea che esistesse dell’altro, il paese delle scuole superiori ad esempio distava venti minuti di autobus e lei quel tragitto l’aveva percorso per cinque anni con la media del sei e mezzo. Era capitata pure in città per qualche occasione particolare, c’era andata anche con Gino che in città andava almeno un paio di volte alla settimana.
In quei giorni Marta esercitava un controllo maniacale e illogico sulla remissività di Gino, gli imponeva di avvertirla poco prima di ripartire dalla città, come se la solidità di Gino riacquistasse spessore e nerbo soltanto nel momento esatto in cui era di ritorno al paese.
Anzi, la presenza di Gino in un territorio estraneo era la scoperta di un tradimento di cui Marta non voleva essere complice e Gino non spandeva alcun fascino fuori dal paese in cui entrambi vivevano.

Marta si stende sopra la coperta a quadri blu e rossi, osserva le nuvole bianche sopra di lei che reagiscono a un impulso elementare: si spostano in cumuli irregolari seguendo la direzione e la velocità del vento. Nessuna trama a sorpresa che possa scuotere Marta si dispiega dal cielo.
Gino le aveva detto che le nuvole non sono nient’altro che minuscole goccioline d’acqua o microscopici cristalli di ghiaccio e Marta aveva concluso che era quella la ragione per cui si assomigliavano tutte. Non aveva voluto sapere altro e così non ne avevano più parlato.
Il tono della voce di Gino aveva un peso specifico che Marta non riusciva a sostenere quando si addentrava nelle cose e riemergeva in superficie con una piccola scoperta.
Per Marta sapere la sostanza delle nuvole era una nozione stupida: aveva deciso che in assoluto, provare a capire le cose significava svelarne ogni imperfezione, renderle attaccabili, vulnerabili, precarie e non volerle più; e lei le cose che voleva le voleva e basta.
Come le nuvole sopra la sua testa: dentro la testa di Marta le nuvole erano semplicemente ovatta leggerissima e perfetta. Come tornare a casa a piedi dopo una giornata di lavoro.

L’uomo della coppia che alloggia nella Locanda almeno un paio di volte al mese aveva parlato al posto della donna, aveva chiesto la solita stanza e un analgesico per sua moglie: non erano amanti clandestini.
Marta aveva sentito una fitta tagliente correrle lungo la schiena, proprio come quando aveva otto anni e al fiume non ci voleva mai andare.
Non era stato ascoltare per la prima volta la voce di quell’uomo che anzi ne aveva definitivamente sancito la presenza come semplice fatto; era piuttosto la rivelazione di un dettaglio privato, la rottura di un’alleanza di pudore fino a quel momento inossidabile.
Ma nel processo di ossidazione occorre l’interazione di due elementi, Marta era un metallo durissimo e si era ritrovata investita, suo malgrado, da una confidenza liquida e feroce che l’aveva corrosa. Le era sembrato un accadimento scabroso e intollerabile
Nella testa le parole che quell’uomo aveva pronunciato avevano improvvisamente scalfito la lievità del bianco che Marta aveva prima lasciato entrare con costanza e cura e poi assecondato con straordinaria esperienza: il mondo circostante, fino a quel momento, sapeva annullarsi nel bianco purissimo e Marta non conosceva, né avrebbe voluto, un’altra tonalità in grado di neutralizzare la sconvenienza del pensiero quando esige anche solo una piccola intensità.
O bianco o male: Marta non aveva mai oltrepassato il confine, aveva sempre taciuto i conati di vomito che le provocava il latte caldo che quell’uomo ordinava per colazione, non si era mai resa vulnerabile.
Ma la conservazione della prossimità è una disciplina di connivenza reciproca e il desiderio di infrangerla è una violenza che può sprigionarsi attraverso una richiesta, un gesto, una domanda apparentemente innocui.
Marta aveva assistito a un’operazione a cuore aperto, ma la Locanda non era un ambiente sterile e aveva scoperto che neppure il suo corpo lo era, nonostante il bianco asettico che colmava l’interezza del suo volume corporeo.
Lo spazio fisico che la divideva da quell’uomo le apparve, così, un interstizio nel quale la cattiveria era capace di propagarsi in modo accidentale e oscuro; o forse, l’aria era pervasa da molecole primordiali di malignità dalle quali era impensabile sottrarsi.
Anche lei e Gino correvano il rischio di un vuoto d’aria, forse Gino avrebbe saputo dirle persino la ragione, forse lo avrebbe fatto dopo aver redarguito Marta sull’approssimazione della legge di gravità che regolava il moto ascensionale con cui tornava a casa ogni sera dalla Locanda.
Marta non era più al sicuro: ogni cosa e ogni oggetto avrebbero potuto rivelare la propria natura cangiante, una brama, sconsiderata e perversa, di scoperchiare la superficie quieta degli eventi.

Marta, dopo quel giorno, ha regalato la bicicletta a suo cugino Antonio: alla Locanda ci va a piedi.
Non c’è stato più bisogno che Gino le facesse trovare la biciletta, ogni mattina, in cortile, al solito posto.