C’è un nuovo gioco tra noi bambini, e si chiama acchiappaculo. È come acchiapparella, ma con il culo. Piace ai maschi soprattutto, e li riconosci a seconda del carattere. Ogni tanto ti arrivano delle pacche secche, con la mano tesa, come uno schiaffone sonoro. Altre un pizzico, piccolo e fastidioso come un morso di serpente, oppure pieno, che affonda nella carne per tastarla.
Le sue mani mi prendono da dietro, per il collo o per le spalle, sono enormi sul mio corpo minuto su cui non sono ancora cresciuti i seni. Se giochiamo ad acchiappaculo, lui si imbarazza, allora ha trovato un tocco personale, leggero, che ti sfiora appena.
Per i ragazzi di Santa Caterina io sono una novità, perché vengo solo d’estate con i miei genitori per due mesi. In realtà la mamma sta con noi per tutto il tempo, il papà viene nei weekend, ma non al mare, più che altro rimane a casa a fare dei “lavori” dice lui. Aggiusta i mobili, fa giardinaggio, si inventa di tutto per rattoppare la vecchia casa dei nonni e non doversi abbronzare. Però a fine estate arriva sempre un giorno in cui senza avvisare viene a farsi un bagno, forse pensa che si pente di non averne approfittato, e quel giorno puntualmente gli viene la faccia rossa dal sole, il naso poi come una patata.
La banda del vicolo dietro casa mi ha studiata per qualche giorno prima di invitarmi a giocare con loro. Mi lanciavano insulti e sussurri dal cancello verde, lungo il selciato lastricato di aghi di pino. Pensavo fossero scemi, ma poi quando mi hanno chiesto di andare a vedere lo scheletro di Donna Menga, un rudere cadente che un tempo era una masseria piena di bambini e di polli che starnazzavano, e di pecore che restavano impigliate a un chiodo che spuntava dal muro, e di nonne che cucinavano il ragù in pentoloni giganteschi, ci sono andata subito. Un giorno sarò un’archeologa, e non potrei farmi scappare un’occasione così. In realtà a Donna Menga non è rimasto quasi nulla, solo sassi di colore chiaro e dei mezzi archi cadenti. Se sali le scale, e ci vuole coraggio perché scricchiolano e sono alte, puoi vedere la piccionaia, dove tenevano i piccioni in dei piccoli buchi tra i mattoni.
Quando giochi con i maschi devi essere coraggiosa. Io sono sempre stata così, ma non maschiaccio. Se c’è da fare una sfida, non posso tirarmi indietro, e a volte mi invento i giochi più pericolosi apposta, per far vedere agli altri bambini che sono una dura. Anche che sei intelligente devi fargli vedere, e quello è più difficile. Di solito per fargli credere che sei intelligente devi dire cose da maschio, che non si aspettano da te che hai la gonna a fiori rosa.
Anche quel giorno facevamo le prove di paura, e avevamo già mentito perché non avevamo voglia di andare in chiesa, che poi anche quella era un piccolo rudere in mezzo alla campagna. Abbiamo preso di nascosto il sentiero che la costeggia, per giocare nell’uliveto che sta lì a fianco. Le foglie argentate degli ulivi riflettevano la luce bianca del mattino, e la corteccia aggrovigliata si sbriciolava sotto le dita. Mentre mi dondolavo tra un albero e l’altro, stavo per saltare sul muretto a secco, perché non ho paura delle pietre che rotolano e ho imparato a riconoscere quelle su cui non ti puoi poggiare, quando di nuovo le sue mani grandi mi hanno afferrata da dietro, con forza. Solo in quel momento ho visto la ragazza sotto le pietre, ordinate su di lei come a ricomporre il muro, e mentre mi trascinava via e io con la bocca spalancata che non emetteva neanche un gemito, ho fatto in tempo a vedere la mano accasciata accanto al corpo, come quei bei fiori bianchi che si vedono solo ai matrimoni, e i suoi occhi aperti senza voce.
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L’estate non è più la stessa, ora che hanno trovato il corpo di Melinda. Non posso girare per i campi da sola, e mi annoio per giornate intere a casa con la mia sorellina che non parla ancora, le costruisco dei vestiti con i parei trasparenti della mamma e poi le scatto delle foto, per distrarmi. Quando torniamo dal mare affamate e stanche non si può guardare neanche la tv, ma l’altro giorno la mamma era dal macellaio per comprare il macinato per le polpette e il papà era a fare un giro con la sua moto d’epoca che si comprò tantissimi anni fa quando era giovane, allora ho acceso la tv di nascosto.
Tutti i telegiornali parlano di Melinda, sullo sfondo alle spalle dei giornalisti c’è una sua fotografia, di quelle scattate col telefonino e in cui sembra essere felice. Aveva i capelli biondi e un paio di occhi blu acquosi, sottolineati da una linea scura di trucco. Nessuno mi ha spiegato perché era tra i sassi, ma penso che non lo sanno neanche loro. Mio padre mi spiega sempre le cose, ma quando ha sentito il nome di Melinda mi ha azzittita come sa fare lui, con uno sguardo da orso.
Nel paese si conoscono tutti, e tutti sanno come ti chiami, di chi sei figlio, cosa faceva di mestiere tuo nonno. A me e alla mia sorellina piace salutare per strada la gente, ma dopo un po’ mi annoio ad ascoltare i racconti dei vecchi pescatori amici di mio padre, perché parlano in dialetto e a qualcuno mancano anche i denti, e non capisco nulla di quello che mi dicono. La mamma mi ha permesso di andare in edicola, è mercoledì ed esce Topolino. L’edicolante mi conosce, sa dove abito e si fa trovare con il giornaletto pronto sul bancone, ma stavolta mi guarda con degli occhi enormi, col bianco esposto più del normale, e mi chiede se anche io ero tra quelli che hanno trovato la povera ragazza. In quel momento mi accorgo che tutti i giornali portano il suo nome in prima pagina, e che stanno cercando il suo fidanzato. Spaventata, prendo la mia sorellina per mano e la strattono via, ho imparato dagli adulti che i bambini non devono ascoltare le cose dei grandi, e questa storia non è per noi.
I miei amici del vicolo non tornano più a suonarmi, forse anche i loro genitori sono spaventati e non li lasciano scorrazzare per le campagne senza un adulto. Mentre leggo le mie riviste, penso alle sue mani che mi acchiappano mentre giochiamo e mi viene subito mal di pancia, ha gli occhi gialli come le sterpaglie bruciate dal sole, non ne avevo mai visti così.
Ho scoperto che Melinda era la sorella più grande di un bambino della banda del vicolo, e aveva tre anni più di me, quindi quattordici. La notte l’ho sognata varie volte, un giorno era viva e le raccontavo che mi avevano chiesto di sostituirla, dovevo essere lei per fare un gioco, ma io mi rifiutavo. Un’altra volta ho sognato che toglieva i sassi dalla sua gonna, li metteva in ordine di fianco alle sue gambe e si sedeva, guardandomi come una ragazza grande, mi imbarazzava. Questi sogni non li racconto a nessuno, perché mi vergogno e altrimenti alla mamma viene un attacco isterico e ci riporta a casa in città, dove nonostante la noia mortale che c’è qui si sta veramente peggio, con l’afa e tutto e poi i vicini sono in vacanza e i miei amici pure.
È venuto un temporale, di quelli fortissimi, e chissà se le tracce e gli indizi così si cancellano. Nei libri che leggo ci sono sempre omicidi, e per scoprire chi è stato guardano agli indizi sulla scena del delitto, che però è in casa, non all’aperto come Melinda. Ad esempio, noi in quel campo ci abbiamo giocato tante volte, di sicuro ci saranno le nostre impronte. Tutte le nostre cose lasciano il segno, anche le dita se tocchi qualcosa.
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Qualche settimana dopo quel giorno vicino alla chiesa e il corpo di Melinda, gli adulti sembrano essersi scordati di quei fatti strani, e hanno smesso di tenerci chiusi in casa, d’altronde è estate anche per noi. Io sono tornata a giocare con la banda del vicolo, e mi fa sempre male la pancia quando giochiamo ad acchiappaculo, spero che lui si avvicini con le mani grandi. Pensavo che i fidanzati fossero una cosa bella, e ho desiderato fin da piccola di averne uno, ma ogni volta che succedeva di piacere a qualcuno che mi piaceva, mi vergognavo troppo, pensavo che magari non piaceva a mia madre, e poi mi sembravo troppo sciocca, le dure non si fidanzano con nessuno perché giocano con i maschi. Quest’estate però mi sento grande, e desidero le sue mani attorno al collo, anche per un secondo, che mi tocchi vicino alla faccia quando mi prende in giro.
Il fidanzato di Melinda forse non le voleva bene, sennò non la ritrovavamo sotto i sassi nel muretto a secco. Però i bambini dicono che lo conoscono, e che vogliono indagare sulla morte di Melinda, come in quei telefilm che vediamo alla tv dove ci sono le detective biondissime che non hanno mai paura. Allora ci fiondiamo nell’uliveto a fianco alla chiesa, e guardiamo in mezzo ai sassi, tra le foglie, sotto ai tronchi caduti. La polizia qui conosce tutti, e quando hanno sentito dire che Melinda e il fidanzato litigavano seduti sul motorino sotto casa, hanno subito cominciato a cercarlo per interrogarlo. Mentre cammino elettrizzata tra gli alberi penso che di sicuro troveremo qualcosa, perché noi bambini abbiamo visto molti più film alla tv e lì il colpevole lo arrestano sempre. Un mozzicone di sigaretta, un pezzo di plastica che non si capisce cos’era, un elastico per i capelli. Alla fine ci scoraggiamo, e ci convinciamo che se i poliziotti cercano il fidanzato avranno le loro buone ragioni.
Il fratellino di Melinda è piccolo e silenzioso, ha le spallucce come un pollo che svolazzano quando corriamo per la campagna. Un giorno torna da noi con un occhio nero, e allora lui con le sue mani grandi e il suo cuore gentile si avvicina ad accarezzare quella faccina spaurita, gli chiede cosa è successo. Il ragazzino non risponde, stringe le labbra in una smorfia e le braccia conserte al petto. «Se qualcuno ti ha picchiato ce lo devi dire. La mamma mi ha detto che se qualcuno mi dà anche solo uno schiaffo io lo devo dire senza vergognarmi, perché la colpa è sua, mai tua.» Alle mie parole, sbuffa con un soffio che sembra un sospiro trattenuto da anni, e ci volta le spalle, a passo di marcia. Se ne torna in paese spedito, e non l’ho più visto.
I giorni prima di partire sono malinconici. Saluto le zie zitelle che non vedo mai perché viviamo lontane, e gioco con i bambini del vicolo ma senza entusiasmo, tanto tra due giorni parto e si scordano di me mentre tra loro si vedono sempre. Mangio i gelati più grandi che posso, perché in città non sono così buoni, e anche le crêpes piene di nutella bianca e nera, che esiste solo qui in paese, mia sorella si sbrodola tutta la faccia che te la mangeresti a morsi su quel musetto da topa. Il tempo è brutto, iniziano le pioggerelle della nuova stagione, e allora andiamo in sala giochi con gli altri bambini, ma qui i maschi diventano troppo maschi, e non mi va di fare le sfide come in campagna. Sto in silenzio davanti alle macchine colorate che fanno suoni meccanici e mi annoiano, resto solo per guardare la sua faccia illuminata, e se vince dentro di me sono orgogliosa perché lui è il più bravo di tutti.
Le valige sono pronte, papà ci fa svegliare sempre all’alba quando partiamo, il viaggio è lungo e non possiamo fare troppe soste, così si dorme o si gioca al gioco degli animali, che poi l’ho inventato io. Tu pensi a un animale e l’altro lo deve indovinare facendoti delle domande, ma tu puoi rispondere solo sì o no. Quando viene mia cugina vinco sempre perché pensa animali facili, come cane o gatto o maiale, ma quando gioco con papà è difficile e mi arrendo spesso. Gli ultimi baci alle zie, e siamo di nuovo sulla strada di casa, diretti in città. Mentre guardo fuori dal finestrino mi viene una stretta alla pancia a ripensare a Melinda, rivedo le sue mani bianche e il collo storto, gli occhi di vetro vuoti. Poi un senso di mancamento, come quando fai le giostre e lo stomaco vola, mi viene in mente il collo sottile del fratellino, i segni scuri sulla gola e l’occhio nero. Aveva la mia età, penso a lui come a un passato che non vivrò mai più, e che si allontana insieme agli alberi che sfilano lungo la strada, la terra rossa che scorre fino a che non c’è più, e allora tutto si fa di cemento, e asfalto, e paletti dell’autostrada da contare senza fretta.